Un’etica per gli ambienti digitali: tra necessità e velleità
di Adriano Fabris (Università di Pisa)
Desidero anzitutto ringraziare la rivista Lisander per aver ospitato un così ampio dibattito sulla mia riflessione relativa agli ambienti digitali. E ringrazio davvero di cuore la collega e i colleghi che sono voluti intervenire in maniera così puntuale e impegnata. I loro interventi offrono approfondimenti essenziali riguardo alla situazione in cui ci troviamo a vivere e prospettive per affrontarla nella maniera migliore.
Due, mi sembra, sono i nuclei tematici su cui soprattutto si concentrano gli interventi, reagendo a ciò che ho cercato di dire nel mio testo. Il primo riguarda l’idea che ho presentato di ambiente digitale – cioè del digitale come un ambiente, o come molteplici ambienti che si affiancano e possono sostituirsi all’ambiente fisico –, nonché, collegato a essa, il problema del rapporto che si può stabilire fra le due dimensioni, digitale e fisica. Il secondo nucleo riguarda la mia proposta di gestione etica di questa distinzione e di questo rapporto. Dal modo in cui si affrontano tali questioni di fondo discendono poi conseguenze importanti sia sul piano teorico che sul piano pratico, sia su un versante politico che all’interno di un contesto educativo.
Riguardo al primo nucleo tematico, non tutti gli interventi concordano sul fatto che, nel caso del digitale, si possa parlare di veri e propri ambienti e che questi ambienti possano o debbano, per una loro gestione su di un piano etico, venire distinti dall’ambiente fisico in cui ci muoviamo con il nostro corpo. Ormai viviamo di fatto in contesti ibridi, nei quali si mescolano online e offline. La nostra esperienza è ormai trasformata da questa situazione: e forse, per alcuni, non è neppure un male.
In altre parole, ciò che viene contestato della mia tesi è, per un verso, l’idea che il digitale sia un ambiente, considerato in analogia con il contesto fisico in cui ci muoviamo grazie al nostro corpo. Lo fa per esempio Manzotti, sostenendo che l’ambiente digitale non ha una sua ontologia, che propriamente non esiste, ma è solo un modo per descrivere l’incremento di connessioni che rimandano comunque alla realtà fisica. Lo fa Botturi, affermando che le piattaforme non sono spazi, non sono ambienti, ma sono strumenti che possiamo variamente utilizzare. Si muove sulla stessa linea Festa, stigmatizzando quelle «digichiacchiere» che oggi sono fin troppo diffuse: basti vedere il proliferare di libri sull’ “intelligenza artificiale”. Per altro verso, e come variante di questa tesi, altri interventi sostengono che non si può parlare di un “ambiente digitale”, che tuttavia in qualche modo esiste, identificandolo però come qualcosa di separato dall’ambiente fisico. Infatti, ciò che risulta alla nostra esperienza, e dunque l’ambiente in cui effettivamente viviamo, è una dimensione in cui reale e digitale si trovano mescolati. È quanto argomentano, sia pure in maniere diverse, De Angelis e Dadà. In ciò essi si distinguono da Ambriola, Valera e Germano, che invece mi pare siano più propensi a dare piena autonomia al digitale e dunque a riconoscere, anche nel caso degli ambiti istituiti grazie a esso, la necessità di un approccio “ecologico”: dove il termine “ecologia” subisce a sua volta un’estensione semantica analoga a quella che riguarda il concetto di “ambiente”.
Non credo che sia sufficiente, di fronte a queste posizioni, ribadire la mia tesi. Credo che sia utile, però, spiegarmi meglio. La mia idea di fondo è che, com’è sempre accaduto nel passato e come mostra la storia della comunicazione, gli sviluppi sia tecnici che tecnologici hanno prodotto cambiamenti importanti, effettivi, nei modi di pensare degli esseri umani, esprimibili attraverso concetti appositamente coniati oppure mediante la risemantizzazione di termini precedentemente usati. Ciò a mio avviso avviene anche nel caso della nozione di “ambiente”. Essa può essere applicata anche ai nuovi contesti a cui i dispositivi tecnologici ci danno accesso e conoscere perciò un produttivo allargamento del suo significato.
La legittimità di tale allargamento è dovuta al fatto che ciò a cui ci danno accesso le piattaforme sono ambiti d’interazione in cui noi ci muoviamo e ci orientiamo, passiamo parte della nostra vita e ci sentiamo per lo più a casa nostra, in analogia con quanto accade nel caso degli spazi fisici. Siamo noi che carichiamo di significato ciò che avviene negli ambienti digitali. Siamo noi che diamo valore a ciò che essi ci offrono. Ma, come sempre accade nel nostro rapporto con ciò che risulta dagli sviluppi tecnologici, questo significato e questo valore diventano caratteristiche delle entità con cui abbiamo a che fare, le quali acquisiscono una sorta d’indipendenza. Può nascere così una vera e propria ontologia del digitale. E ciò che accade negli ambienti digitali finisce per diventare un modello anche per le nostre relazioni fisiche. Tali ambienti, in altre parole, sono più attrattivi rispetto a quelli offline e finiscono perciò, in molti casi, per sostituirli.
È a seguito di questo processo che si verifica quella mescolanza di reale e digitale che giustamente sottolineano alcuni degli interventi. Tale mescolanza è certamente, ormai, un dato di fatto. E come tale può essere approfondito e descritto, come fanno egregiamente molte scienze umane: in primo luogo la sociologia e la psicologia. Il problema è però se possiamo limitarci alla registrazione di questo dato di fatto. Il problema è chiederci se ciò ci sta bene, se corrisponde ai nostri desideri e all’idea di umanità a cui intendiamo conformarci. Krienke, nel suo intervento, pone lucidamente la questione.
È a questo punto che interviene l’etica. Questa disciplina è strana, ambigua. Non semplicemente analizza uno stato di cose considerando i criteri e principî che lo regolano. Essa delinea anche nuovi scenari, nuove possibilità, attraverso un approfondimento critico di ciò che accade nel presente. L’etica ha una proiezione utopica, è in grado non solo di descrivere il presente, ma di aprire prescrittivamente il futuro.
Per favorire tutto ciò è necessario introdurre specifiche differenze. Se c’è una mescolanza, se predomina un’indifferenza, ad esempio tra reale e digitale, queste sono il frutto di un processo ben preciso e di determinate scelte che sono state in precedenza compiute. Se tutto ciò è frutto di un processo, non rappresenta per gli esseri umani un destino inevitabile. Se non si tratta di un destino, possiamo quantomeno cercar di comprendere la situazione e d’individuare altre possibilità. Ma per farlo è necessario retroagire sul presente. Un conto, insomma, è descrivere, in modi del tutto legittimi, l’attuale indifferenza di reale e digitale, di online e offline che quotidianamente sperimentiamo. Un conto, invece, è chiederci che cosa guadagniamo e che cosa perdiamo in tale situazione, se ci va bene oppure no, e se, posto che ci siano cose che non vogliamo perdere, non ci convenga tener ferma la distinzione di principio fra ambienti reali e ambienti digitali, allo scopo di vivere in entrambi nel modo migliore.
A questo punto, a seguito della distinzione così compiuta, emerge la necessità di regolamentare la situazione in cui ci troviamo a vivere. Emerge la necessità non solo di stabilire, sulla base di un criterio condiviso, che cosa è buono oppure no, ma anche d’individuare i modi per salvaguardare pubblicamente tale criterio e la sua applicazione. Incontriamo così il secondo nucleo di obiezioni che hanno riguardato il mio intervento. Esso si concentra su due punti: sul fatto che questa regolamentazione sia proprio necessaria; sul fatto che sia l’etica, anzitutto, a doverla fornire. Sia Solari che Lottieri, sebbene in forme diverse, sottolineano l’opportunità di «andare al di là delle colonne d’Ercole», di superare cioè ogni limitazione che possa essere imposta agli sviluppi tecnologici. Cubeddu, ma anche De Angelis e altri, segnalano che è invece la politica, non già l’etica, a essere chiamata ad assolvere il compito di una regolamentazione pubblica, o magari a favorire semplicemente un’autoregolamentazione dei processi di cui stiamo parlando.
Rispetto a questi temi credo anzitutto che una regolamentazione sia comunque necessaria. Non tanto nel senso di quella moltiplicazione di codici calati dall’alto, il cui numero è inversamente proporzionale alla loro efficacia, quanto proprio nel senso di un’autoregolamentazione basata su principî condivisi di cui si facciano anzitutto carico i cittadini degli ambienti digitali. Gli sviluppi tecnologici comportano infatti profonde trasformazioni nelle nostre vite. Sono trasformazioni che si verificano a livello globale. A problemi globali, tuttavia, devono essere date risposte globali, non semplicemente legate a questo o a quello Stato, a questa o quella Comunità. È su questo terreno che l’etica può dare il suo contributo. Essa infatti, per tradizione, ricerca punti di riferimento che possano essere condivisi da tutti gli esseri umani nel loro agire.
Il rischio del suo approccio è che esso sia velleitario e quindi inefficace. Ne siamo pienamente consapevoli. Ben vengano allora, per evitare tutto ciò, l’impegno della politica, l’intervento del legislatore e, come ben sottolinea Botturi, una specifica attività educativa. Certo: nessuno di questi approcci, di per sé, è risolutivo, come ben c’insegnano le vicende degli esseri umani. Così come non lo è un sempre rinnovato approfondimento etico. Ma se, di fronte a mutamenti radicali che intervengono a trasformare la nostra stessa umanità, intendiamo agire in qualche modo, forse abbiamo bisogno degli sforzi congiunti di tutti questi tipi di riflessione e di prassi, e di un lavoro comune svolto a tutti questi livelli. L’importante, in definitiva, è riconoscere il problema nella sua effettiva portata, non sottovalutarlo, e provare a fare davvero qualcosa per governarlo.