Il redesign dell’etica nell’ambiente digitale: tra utopia e realtà
di Markus Krienke (Università della Svizzera italiana, Lugano)
L’etica riguarda da sempre la domanda circa la comprensione del “bene” nel senso della realizzazione della “vita buona”. Adriano Fabris la determina come il saper orientarsi di ciascuno e ciascuna negli ambienti molteplici in cui la vita si realizza, «naturali, culturali e tecnologici, online e offline», e nel sapersi relazionare a ciascuno di essi acquisendo la capacità di «metterli in gerarchia». La sfida delle nuove tecnologie e la loro forza trasformatrice della vita si coglie grazie a questa prospettiva proprio nella consapevolezza che «gli ambienti digitali o, addirittura, virtuali» non costituiscono una sfera accanto agli altri ambienti ma li pervadono trasversalmente – infatti viene citata la formula di Luciano Floridi «“onlife”, a indicare la fusione di offline e online» – mentre allo stesso momento effettuano delle ripercussioni sull’autocomprensione del soggetto chiamato di “orientarsi” in un contesto che perde le “coordinate cartesiane”.
Infatti, le linee di demarcazione che definivano la “posizione del soggetto” all’interno dei suoi ambienti e lo aiutavano nel suo compito etico di orientamento, si stanno gradualmente sciogliendo: ad esempio quella tra “naturale” ed “artificiale” quando riusciamo a riprodurre artificialmente delle funzioni dell’“intelligenza naturale” o quando grazie alle nuove tecnologie parliamo ormai di ibridizzazioni e “cyborg”. Sfuma però anche il confine sociale tra “privato” e “pubblico” quando la sfera protetta e intima della persona è sempre meno garantita o anche per le forme di flessibilizzazione del lavoro. Un ulteriore esempio è dato dalla dissoluzione della distinzione tra “produrre” e “consumare” quando nell’“onlife” produciamo continuamente informazioni, quando invece crediamo di consumarle semplicemente.
Mentre prima gli “ambienti stabili” erano orientati a un “mondo di cose” fuori da noi, ora la rivoluzione digitale e la trasformazione della realtà in informazione le ha rese fluide, e il soggetto umano insieme ad esse. Molti, infatti, vedono sorgere l’epoca del “transumano” nel senso che la società sta lasciando alle spalle quelle distinzioni che istituzionalizzavano gli elementi dell’“umanesimo” occidentale che distacca l’essere umano dal resto della realtà proprio per il suo esclusivo possesso dell’“intelligenza”.
Quale orientamento può offrire ancora l’etica con il suo imperativo kantiano di considerare sempre gli esseri umani come fini e mai come mezzi, se nell’infosfera siamo tutti inesorabilmente inseriti in una rete di “mezzi” e diventiamo “interfacce” in un meccanismo non più indirizzato ad assicurare l’irriducibile dignità di ogni singolo ma l’ottimizzazione e l’efficienza dei singoli ambienti (economia, politica, lavoro, scienza ecc.)? Ecco la domanda che sembra muovere Adriano Fabris nella sua proposta innovativa di ripensare noi stessi, ultimi esponenti “umani”, attraverso “ambienti”. Una sorta di “biotopi” in cui l’essere umano può “zoologicamente” sopravvivere o una vera pista etica per assicurare “un mondo umano” anche per le future generazioni, per riformulare l’imperativo di Hans Jonas?
Per tentare di rispondere a questa domanda, bisogna analizzare la forza trasformatrice dell’intelligenza artificiale e delle nuove tecnologie digitali. Secondo il filosofo Byung-Chul Han, «le informazioni, quindi le non-cose, si piazzano davanti alle cose facendole sbiadire». Alle informazioni, infatti, manca «la saldezza dell’essere». Ciò che egli intende sta a indicare, come uno studio dell’Università di Cambridge sembra rilevare, che grazie alle tecnologie IA i social network ci conoscono meglio dei migliori amici o parenti? Abbiamo già raggiunto il livello di «commercializzazione e mercificazione totale della cultura» che secondo Han «provoca la distruzione della comunità»? Lo scomparire dell’altro e di ogni alterità della realtà fuori da noi si sta già compiendo, infatti, tramite la chiusura del soggetto nel continuo rispecchiarsi attraverso i dispositivi (schermi, piattaforme) e informazioni (“bolle”, l’esistenza individuale nello “sciame”).
L’appello etico di Fabris, volto a ricollocare l’individuo mediante le sue valutazioni all’interno di “ambienti”, può essere dunque letto come l’esigenza di ricostruire l’incontro con l’altro nella sua dimensione reale nei vari ambienti vitali – che saranno tutti, appunto senza eccezione, digitalmente trasformati. Infatti, il risultato principale della forza trasformatrice trasversale delle nuove tecnologie è che l’umano non è più “naturalmente dato” ma deve essere “stabilito” nel design della realtà, come ha rilevato Pierpaolo Donati. Le definizioni classiche della metafisica che individuava l’uomo attraverso la sua razionalità (“animal rationale”, “zoon logon echon”, “rationalis naturae individua substantia”) vengono “svuotate” tramite il redesign della dimensione razionale dell’essere umano grazie alla riproduzione funzionale delle sue caratteristiche. Certamente le macchine “non possono pensare” – Alan Turing ha formulato in tal senso la domanda centrale della sfida tecnologica – nel senso ontologico del termine in quanto non possiedono una mente umana, ma la risposta diventa all’improvviso affermativa quando si considera che le attività della mente umana possono essere di fatto sostituite, rimpiazzate e immensamente potenziate dai dispositivi artificiali.
Dunque, la proposta di Fabris, consistente nel ripensare il rapporto uomo-tecnica tramite l’ermeneutica degli ambienti, intende superare definitivamente il paradigma “concorrenziale”, ossia ridurre la prospettiva etica sulle nuove tecnologie alla preoccupazione circa la loro possibilità di sostituire l’essere umano. Da sempre la tecnica esercita questa funzione sostitutiva, sin da quando per la prima volta un aratro è stato montato su un asino, ed è comprensibile come tali sostituzioni nel regno della mente – sede tradizionale della dignità umana nella metafisica – quali la capacità di calcolare, di risolvere problemi complessi, di creare arte e di produrre linguaggio, vengano sentite come una particolare «umiliazione» (il termine è di Sigmund Freud).
Ci eravamo abituati al fatto che l’umano sia dato e che la realtà, almeno nel “regno della persona” che si diversifica nella molteplicità degli ambienti descritta da Fabris e tramite istituzioni moderne come il mercato, lo Stato di diritto, la democrazia e così via, sia diventata la sua casa. L’impressione che le nuove tecnologie stiano “depersonalizzando” la realtà (che non significa necessariamente che la “disumanizzano”) è fortemente sentita anche in virtù di ciò. Essa si mescola poi con una certa “nostalgia per la persona” che fa parte della cultura moderna. Ora, il transumanesimo trasforma completamente questa prospettiva nella speranza in un’umanità riscattata dai limiti e difetti naturali, finalmente realizzabile dalla tecnologia, mentre l’essere umano perde proprio a causa di tale trasformazione la sua specifica dignità. Esso appare sempre più inserito all’interno di meccanismi tecnici – di cui i transumanisti sono comunque gli unici a definirne dei fini – all’interno dei quali si sente abbassato a “mezzo”. Secondo i transumanisti, infatti, l’antropocentrismo attuale è da trasformare in un datocentrismo perché, per dirla con Yuval Noel Harari, per «ottenere l’immortalità, la beatitudine eterna e i divini poteri della creazione, abbiamo bisogno di elaborare immensi quantitativi di dati, di gran lunga superiori alle capacità del cervello umano. Quindi gli algoritmi lo faranno al posto nostro».
Come ogni tecnologia spostava l’uomo dal centro che si era, più o meno presuntuosamente, costruito nelle varie epoche culturali, l’avanguardia delle tecnologie dell’intelligenza artificiale contribuisce a detronizzarlo sempre più dalla sua centralità. Non solo stiamo scoprendo vari tipi di intelligenza – da quella artificiale a quella animale, e si potrebbe aggiungere tante altre forme rispetto agli “ambienti della vita” come l’intelligenza politica, quella tecnologica, musicale ecc. – ma emerge anche il fatto che molte funzioni che prima assolveva l’intelligenza umana ora possono essere realizzate anche meglio da quella artificiale. Ciò ci riporta nuovamente alla domanda seguente: in che cosa consiste la realizzazione dell’essere umano all’interno di questo nuovo ambiente digitale?
Per Pierpaolo Donati emerge proprio in confronto con questa digital matrix (un altro modo di dire infosfera) la particolarità della relazione o apertura all’altro. Ciò di cui le definizioni metafisiche dell’essere umano nel periodo degli “umanesimi” non ci hanno fatto accorgere è il fatto che quella umana si realizza in modo autentico sempre attraverso l’apertura e il confronto con l’altro (per definizione “reale”), senza riduzionismi. Se dunque la dimensione transumana delle nuove tecnologie sta nell’«espulsione dell’altro» (Han), ciò che caratterizza l’intelligenza umana è la sua inclusione dell’altro e la sua “trascendenza” verso di lui. Ecco perché si può specificare la proposta di Fabris con l’esigenza di ricostruire la relazione con l’altro nei vari “ambienti vitali” perché solo in questo modo l’etica, la quale nel transumanesimo evapora, può emergere, in quanto voluta e cercata dagli individui, anche nella digital matrix. Contrariamente a tutti coloro i quali ritengono che pensare all’etica nei tempi dell’intelligenza artificiale sia un’utopia, ecco una strada percorribile, con un nuovo design e nella digital matrix.