Ambienti e strumenti digitali
di Luca Botturi (Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana)
Mi inserisco nella discussione sull’etica degli ambienti virtuali, iniziata con l’intervento di Adriano Fabris e ripresa dall’ottima sintesi di Vincenzo Ambriola. Mi occupo di educazione digitale dei docenti e degli allievi della scuola dell’obbligo e superiore, e non posso che convenire che lo sviluppo di una dimensione etica sia centrale in questo ambito: non si tratta solo di imparare a usare strumenti digitali (come era con la “patente digitale” del European Computer Driving Licence nata a fine anni Novanta), ma di imparare a usarli bene, cioè per un fine buono. La sfida dell’educazione digitale consiste dunque anche nell’identificare e condividere delle finalità buone che possano orientare l’uso del digitale. Fabris declina poi il lavoro che ci aspetta su tre orizzonti: etica dell’ambiente, etica nell’ambiente, etica fra gli ambienti.
Mi scuso in anticipo, perché non sono filosofo, e il mio intervento prende la prospettiva di chi ha familiarità operativa ed educativa con le tecnologie e la comunicazione. Se condivido l’idea di fondo espressa dai colleghi, trovo che fino a questo punto non siano stati presi in considerazione tre elementi fondamentali, la cui assenza non permette agli argomenti esposti di intercettare la realtà.
Come ho detto, sono uno strenuo fautore di un’educazione digitale integrale. Tuttavia, Fabris inserisce un presupposto a sostegno di un approccio al digitale attraverso l’educazione, quando scrive «continuo tuttavia a essere convinto che un approccio proibizionista non sia efficace. Le nostre ragazze e i nostri ragazzi, una volta usciti da scuola, lo smartphone lo riaccendono».
Il primo elemento che vorrei proporre è che l’accesso ai dispositivi dei nostri ragazzi non è un fenomeno naturale e inevitabile, ma una scelta individuale, familiare e sociale. Come società abbiamo deciso di porre limiti di età per l’accesso al tabacco, al gioco d’azzardo, all’alcool, e anche ai diritti politici e alla patente di guida. Non abbiamo invece deciso, né forse riflettuto a sufficienza, quale sia l’età giusta di accesso al web, ai videogiochi e ai social. O meglio, abbiamo lasciato che decidessero le grandi imprese del mercato digitale dell’intrattenimento. Questo è il secondo elemento che ritengo necessario per questa discussione, nella quale le Big Tech sono il convitato di pietra. Credo che non ci si debba nascondere dietro a un dito: ciò che ci preoccupa non è una indistinta tecnologia, ma le piattaforme che, tramite algoritmi intelligenti, offrono contenuti personalizzati agli utenti, catturandoli in un loop dopaminico potenzialmente infinito, infarcito di messaggi pubblicitari che gli permettono di fatturare miliardi. Non avremmo problemi di dipendenza, di relazioni malsane o di regole d’uso se parlassimo di stampanti 3D, cutter a controllo numerico, strumenti digitali di misurazione della qualità dell’aria o robot educativi o altre applicazioni professionali o industriali.
Riflettere sulle età di accesso ai dispositivi personali e alla rete non significa essere proibizionisti, ma ribadire che non può essere il mercato, guidato da obiettivi economici, a compiere queste scelte in autonomia. L’accesa discussione sul digitale nell’ambito della salute pubblica ci dice che non possiamo ignorare i campanelli di allarme che la ricerca ci offre sull’impatto dell’esposizione precoce agli schermi nell’età dello sviluppo. In una discussione sull’etica degli ambienti digitali non possiamo esimerci dal riflettere su un percorso graduale e regionevole di accesso agli ambienti digitali stessi.
Non possiamo nemmeno far finta di non vedere l’enorme pressione commerciale di chi la tecnologia la produce. Questa pressione è talmente elevata che distorce la nostra percezione e il nostro linguaggio: diciamo “tecnologia” ma pensiamo “smartphone”; diciamo “ambienti digitali” ma pensiamo “TikTok e Instagram” – riducendo la dimensione della tecnologia ai prodotti commerciali più diffusi. La ricerca in ambito educativo suggerisce anche che non è l’uso di questi prodotti commerciali in chiave ludica a risultare decisivo per lo sviluppo di solide competenze digitali. Il dibattito nell’ambito della media education da tempo invoca una combinazione di educazione individuale e di regolamentazione del sistema tecnologico-mediale – come d’altro canto abbiamo fatto da decenni con la TV e i giornali (Livingstone, 2008).
Il terzo elemento consiste nel ricordare che quando parliamo di “ambienti digitali” stiamo usando una metafora. Le piattaforme social non sono ambienti, e nemmeno luoghi o spazi. La distinzione che Fabris propone è corretta e utile, ma nell’esperienza umana lo spazio (e quindi anche il luogo e l’ambiente) è definito dalla tre dimensioni che abitiamo con il nostro corpo. Togliendo lo spazio e il corpo, non abbiamo alcun luogo o ambiente, ne abbiamo semmai il riflesso mentale. Le piattaforme, così come le app e i sistemi operativi, sono strumenti che permettono la gestione e il trasferimento di informazioni. Sono strumenti talmente potenti, versatili e configurabili che possiamo percepirli come una “casa che possiamo abitare”, ma li possiamo abitare solo con la mente, e non sono case. Li metaforizziamo come ambienti (environment), un po’ come metaforizziamo gli algoritmi di machine learning come intelligenza artificiale, anche se non siamo in grado di definire intelligenza; o chiamiamo multimedia esperienze che implicano uno o due sensi dei cinque che qualunque situazione di vita attiva senza che ce ne accorgiamo. All’inizio di questo articolo ho descritto questi stessi artefatti tecnologici come strumenti, e probabilmente nessuno dei lettori se ne è scadalizzato.
Come ci ricorda Byung-Chul Han (2022), dobbiamo fare attenzione a evitare che le non-cose svuotino la nostra esperienza del reale. Uno strumento non è un ambiente. Molte cose distinguono queste due categorie di esperienza, ma una è qui centrale. Un ambiente o luogo ospita oggetti, persone, relazioni ed eventi. Esistono ambienti e luoghi naturali, non progettati, che ospitano oggetti naturali e artificiali insieme, e nei quali si sentiamo bene. Altri luoghi possono essere progettati per ospitare determinate entità (i libri di una biblioteca, le lezioni di una scuola, i detenuti di una prigione, i malati di un ospedale) – ma in ogni caso i luoghi ci ospitano nella nostra interezza e fisicità. In un luogo le cose accadono, e possono accadere anche cose impreviste, cioè cose che non anticipiamo nella nostra mente: l’ambiente stesso non prevede né in realtà limita gli accadimenti che ospita: un una biblioteca possiamo organizzare un ricevimento, e tenere un concerto in uno stadio, o una riunione genitori in una chiesa, o danzare in un bosco. Gli strumenti invece svolgono funzioni. Uno strumento è progettato per uno scopo e definiti da esso e dalle operazioni che chi li ha progettati ha definito come necessarie per raggiungere tale scopo. Meglio uno strumento è progettato, minore è la probabilità che accadano imprevisti, perché uno strumento svolge solo determinate operazioni su determinati oggetti. Questo vale anche, e in maniera meno trasparente ma più decisiva, per gli strumenti digitali controllati da algoritmi: per quanto complessi, tanto da ingannare la nostra percezione fino a sembrare “intelligenti”, restano strumenti. Inoltre, gli strumenti digitali per definizione lavorano con informazioni, cioè non-cose, rappresentazioni immateriali.
Dunque, ben venga un intenso lavoro sull’etica del digitale, sull’uso degli strumenti digitali e sulla loro integrazione nei nostri diversi contesti di vita. In questo lavoro, parlare di ambienti digitali potrà risultare utile, a patto che non dimentichiamo la natura delle cose. E che ci riappropriamo, come società e comunità, delle scelte di accesso al digitale, considerando con la dovuta attenzione la pressione esercitata dai grandi player commerciali.
Bibliografia
Byung-Chul, H. (2022), Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, Einaudi.
Livingstone, S. (2008), Engaging with Media—A Matter of Literacy?, “Communication, Culture and Critique”, Volume 1, Issue 1, pp. 51–62 (https://doi.org/10.1111/j.1753-9137.2007.00006.x).