La lettura del saggio di Adriano Fabris ha sollevato in me due ordini di riflessioni. Le prime, più vicine a quello di cui mi occupo, ovvero l’innovazione nel mondo dell’organizzazione del lavoro, rappresentano la parte di maggiore consonanza con le sue argomentazioni e ad esse dedico un primo paragrafo. Le seconde, mi spingono ad avventurarmi su terreni meno solidi per la mia disciplina, ma forse più generativi per il pubblico di Lisander. Se in queste commetterò peccati di vanità disciplinare, non essendo un filosofo, chiedo in anticipo venia. In entrambe le circostanze, il punto di vista che adotto è quello di chi ritiene che l’istinto di Odisseo, punito con l’Inferno da Dante, sia sempre preferibile al desiderio di controllo e di rimozione dell’incertezza dalla nostra società. E da questo traggo il titolo.
Possiamo frenare la dissoluzione del tessuto connettivo delle organizzazioni?
Per chi come me frequenta con assiduità il mondo delle organizzazioni, le argomentazioni di Adriano Fabris, pur collocate sullo sfondo della riflessione sulla società nel suo complesso, forniscono degli ingredienti essenziali. L’accurata distinzione tra i concetti di luogo, spazio e ambiente e il richiamo a un’ecologia degli ambienti digitali stimolano una sintesi necessaria per meglio comprendere un contesto dominato dal susseguirsi di nuovi fenomeni dai nomi spesso bizzarri, quali quiet quitting o great resignation, e caratterizzato da un declino che sembra inarrestabile dell’engagement (ovvero coinvolgimento attivo e partecipato nella vita della propria organizzazione).
Lo aveva già evidenziato Jane McGonigal (McGonigal and Whelan, 2012). Le persone non fuggono nei giochi online per abbandonare la realtà, ma soprattutto perché vi trovano elementi positivi di cui hanno bisogno e che le organizzazioni e la vita non sanno spesso ricreare. Le tecnologie che abbiamo a disposizione sono dei portali che ci aprono in ogni istante e in ogni luogo l’accesso ad ambienti molto diversi. Luoghi nei quali possiamo sperimentare relazioni diverse, attività diverse e spesso anche identità personali diverse. Identità e non ruoli, perché ognuno di questi ambienti come ci ricorda Fabris è anche una dimensione che abitiamo. Di fatto in essi possiamo non solo sognare di essere, ma essere in un mondo verosimile attraverso i nostri avatar. La competizione tra questi ambienti e quello nel quale svolgiamo il nostro lavoro è impari. Di là si aprono davanti a noi ambiti di azione i cui confini sono solo quelli oggettivi del medium che utilizziamo, di qua siamo classificati sulla base di criteri non sempre oggettivi e forzati dentro processi di espressione del nostro lavoro che fatichiamo a far modificare a prescindere talvolta dai nostri veri meriti e soprattutto dal nostro potenziale.
Le organizzazioni hanno provato inizialmente a inibirci l’accesso a questi ambienti, poi cercato di sfruttarne la capacità di attrazione creandone di propri (le comunità interne online), infine provato a colonizzarli anche associandosi a noi come nel caso di quelli più legati alle risorse umane. Dovrebbero invece chiedersi come portare nell’ambiente fisico del nostro lavoro quegli elementi che ci attraggono e che ci mancano. Ciò richiede, tuttavia, uno sforzo di trasformazione organizzativa, ma soprattutto il riconoscimento che il successo di questa trasformazione passa per una drammatica rivoluzione dell’assetto dei poteri interni ai sistemi organizzati. Solo l’infusione di sempre maggiori margini di libertà, autonomia, discrezionalità e sfida può rendere l’ambiente del lavoro, un ambiente che abbiamo voglia di esplorare con energia ed entusiasmo. Sono le caratteristiche di quelle organizzazioni nella quale possiamo sperimentare il “Freedom Management” (Solari, 2016).
Sembra quasi un paradosso, quindi, ma nelle organizzazioni l’ecologia degli ambienti digitali procede al contrario. Dobbiamo imparare a disegnare l’esperienza del lavoro a partire dagli ambienti digitali, perché è in essi che troviamo le nuove modalità di espressione dell’umano che attraggono e motivano le persone. Solo in questo modo si può porre un freno a un declino di coinvolgimento che è un segno di grande sfiducia e che, come ha evidenziato Jeffrey Pfeffer, rischia di trasformare il lavoro da costruttore di identità personali a fonte di tossicità e sofferenza (Pfeffer, 2018). Se non lo faremo e presto dovremo temere una dissoluzione di quegli elementi di appartenenza e di coinvolgimento che sono l’essenza della sintesi creativa e produttiva del fare le cose assieme dentro un’organizzazione. Ci rimarrà un mondo di realtà simili a grandi mercati, quasi istantanei. Un mondo che fa capolino nelle forme più estreme di dissoluzione che vengono oggi denominate DAO, ovvero “Decentralized Autonomous Organizations”, nelle quali operatori quasi anonimi regolano l’agire collettivo con smart contracts e valute digitali.
Se questo è il possibile destino delle organizzazioni, può servire a evitarlo una nuova e diversa regolazione del modo con il quale sperimentiamo le nostre relazioni e le nostre identità multiple? Personalmente, non ne sono molto convinto.
Abbiamo davvero bisogno di regolare tutto ciò che ci appare nuovo e diverso da ieri?
Un modello neo-schumpeteriano dell’evoluzione delle organizzazioni di Borodzic mi dà lo spunto per alcune riflessioni di distinguo dall’argomentare di Fabris. Il nucleo del modello è la ricostruzione di come il ciclo di trasformazione della tecnologia conduca alla trasformazione delle organizzazioni. Per gli autori ogni paradigma tecnologico scatena un primo ciclo di progettazione organizzativa volto a trarne il massimo beneficio, ma ciò facendo crea le condizioni per un ciclo correttivo volto a riequilibrare il rapporto socio-tecnico (Emery and Trist, 1965), quasi esso fosse una specie di sezione aurea dell’organizzare. Se adottiamo questa logica, gli ambienti digitali contemporanei sono ancora immersi nella prima fase della trasformazione. Non solo, essi si sono pure affastellati a causa di una forte accelerazione del tasso di innovazione e sovrappongono i propri effetti rendendo difficile capire cosa stia davvero succedendo e se e come l’evoluzione li stia adattando. Eppure, ciò sta accadendo come testimoniato dalla maturazione successiva dei diversi ambienti digitali che nel tempo hanno brevemente dominato e condizionato il nostro vissuto per essere poi progressivamente spopolati e a volte marginalizzati. Chi di voi ricorda ad esempio il ruolo che aveva assunto MySpace? E Facebook non è lontano da un medesimo tramonto.
Il richiamo all’ordine che permea nella mia soggettiva percezione il contributo di Fabris a me è sembrato un modo diverso di esprimere un atteggiamento un po’ protettivo, meno radicale di chi vorrebbe vietare tutto, ma in fondo desideroso di mettere ordine nell’esperienza confusa di chi questi ambienti li abita con entusiasmo, sebbene a volte con una razionalità che a molti di noi sfugge. Se comprendo la sensazione di disagio davanti a immagini alterate da filtri e ripetizioni ossessive di balletti e sfide, d’altra parte mi chiedo se segnalino la necessità di un intervento che ristabilisca un confine e un ordine, oppure se siano una modalità diversa e forse meno esplicita di rovesciamento di un ordine che la mia generazione per un certo momento ha pensato potesse essere eterno, così come aveva creduto nell’idea di fine della storia per vederla poi riesplodere ai confini d’Europa e un po’ in tutto il mondo se si guarda oltre il filtro della nostra televisione e stampa.
Non voglio entrare nella discussione sugli effetti negativi degli ambienti digitali che pure sono documentati, ma mi chiedo se non sia naturale per ogni nuovo ambiente che l’umanità scopre, fisico o digitale che sia. E se così è, ogni ambiente porta anche nuove esperienze e stimola nuove riflessioni su cosa sia un comportamento buono per usare le forme espressive di Fabris. Ne deriva un certo mio disagio davanti a ogni richiamo a un processo che non sia emergente e basato su un ordine spontaneo, l’unico in grado di ristabilire un equilibrio per quanto temporaneo. Anche nelle aziende il fiorire di codici etici e di regolamenti di comportamento sui social per ora sembra avere come solo correlato pratico la razionalizzazione e formalizzazione di argomenti e strumenti di sanzione, che non vuole significare la capacità di far evolvere realmente una consapevolezza e un equilibrio dei comportamenti reali. Perché, in fin dei conti, lo studio dell’ecologia ci ha rivelato come i meccanismi meccanici della regolazione dei sistemi sociali di stampo cibernetico non possano essere estesi a sistemi di interazioni molteplici e complesse nelle quali gli equilibri si ristabiliscono secondo sentieri spesso impensabili. Se di ecologia parliamo, quindi, non deve essa nascere non già dal mettere in gerarchia, ma dallo scardinare quelle stesse gerarchie pensate quando questo ecosistema di ambienti non esisteva?
Bibliografia
Emery, F.E., Trist, E.L. (1965), The causal texture of organizational environments, in “Human Relations”, v. 18, n. 1, pp. 21–32.
McGonigal, J. and Whelan, J. (2012), Reality Is Broken: Why Games Make Us Better and How They Can Change the World, Unabridged edition, Brilliance Audio.
Pfeffer, J. (2018), Dying for a Paycheck: How Modern Management Harms Employee Health and Company Performance—and What We Can Do about It, HarperCollins.
Solari, L. (2016), Freedom Management. How Leaders Can Stay Afloat in the Sea of Social Connections, Gower Ashgate.