Niente di nuovo sul fronte digitale? Di battaglie vecchie, nuove, inedite e delle loro tante opportunità
di Ivo Stefano Germano (Università degli Studi del Molise)
A proposito di “battaglie perdute” su cui ragiona in un ampio e approfondito articolo Adriano Fabris è forse utile prendere un po' di tempo per capire, anzitutto, come lavorare, dal punto di vista della sociologia della comunicazione e dei media digitali, non tanto sul “perché”, tantomeno sul “come”, ma, sul “dove” perdere, costantemente e quotidianamente la battaglia, non solo etica con gli ambienti digitali. Una piccola premessa: non intendo fare le pulci, in senso seminariale o libresco, sull'ermeneutica dell'articolo di Fabris, poiché sarei più interessato a osservare le modalità proprie di costruzione dei presupposti – inevitabili? – di una sconfitta quotidiana, cioè, sulla costruzione mainstream e non degli ambienti digitali che non va dimenticato sono composti di relazioni, conversazioni, dati, camere di risonanza, il più delle volte, duole constatarlo, partigiane e faziose. Più in generale, gli ambienti digitali, come testimoniato da più di una ricerca e autore, hanno una loro ampia cogenza nelle diete informative e d'intrattenimento di tutti quanti noi. Nessuno si senta escluso. Tantomeno sia tentato da opporvisi calcando la mano sull'antico vezzo aristocratico, in tema di media.
Gli ambienti digitali: habitat o abitudine?
Un lavoro quello di Fabris incentrato sugli usi abitudinari e le tipologie di ambienti digitali in un tempo sempre più connesso, immersivo, assorbente, per taluni, vera e propria fonte di distrazione continua, se non proprio di faticosa coalescenza alla distrazione. Ciò che appare come coabitazione di più ambienti, in realtà interroga una precisa esigenza di qualità comunicativa. Cose che si sanno e che si conoscono, da quando la “post-verità” e le fake news allocano nel lemmario della quotidianità, non solo in convegni, seminari, lezioni per dottorandi. Si tratta, in una certa misura, di una presa di coscienza delle innumerevoli tracce di un livello performativo, onnipervasivo, “piattaformizzato” che spinge a comunicare, condividere, circolare, in casa e fuori casa, la cui eziologia riguarda le logiche, di più, le prassi degli ambienti digitali, non solo e non tanto, in chiave tecnologica, bensì come pratiche riguardo a cose e linguaggi che stiamo imparando, anche se, consapevolmente o inconsapevolmente fatichiamo a considerare modificabili. Oggi, il discorso pubblico sul cambiamento degli ambienti digitale, dal punto di vista storico, è passato attraverso tre fasi:
1) affermazione del principio di “convergenza tecnologica”;
2) sviluppo delle “piattaforme” e delle conversazioni in esse e da esse generate;
3) aumento della circolazione delle informazioni utilizzate negli stessi ambienti.
Ne consegue una “tentazione/riduzione” semiologica a elencare le dimensioni e gli effetti dei tre passaggi sopraelencati, ad esempio, rispetto all'uso della corporeità, vedi i balletti su Tik Tok, oppure, circa i contesti dell'interazione, su tutti la pletora di gruppi Whatsapp e Telegram.
Il punto, tuttavia, è sempre lo stesso: la necessità di usare lo sguardo giusto e la prospettiva corretta su ciò che media l'alterità e la nomina, più o meno diversamente dai cari vecchi mass media sino ai media digitali. Tutto ciò che, più o meno, rientra nell'ecologia della comunicazione, vale a dire, il valore stesso della comunicazione, anzitutto, nel significato di appartenenza ad una medesima comunità di destino. Non è necessario essere padri o madri di figli adolescenti per capire quanto ciò appaia remoto e improbabile, anche se comunichiamo e condividiamo ambienti digitali plurimi. A non dire del versante didattico della questione, quando c'imbattiamo in occhi annoiati che “scrollano” display denotando separatezza strutturale fra le tradizionali forme di produzione simbolica e la loro ricezione oscillanti fra occasioni di estesa accessibilità nello spazio (concetto centrale in Fabris) e tempo che si divora e fluttuazione di segni, simboli, icone, per cui, siamo tutti vettori e riceventi di “quorate” e like col “pollicione”. La diuturna e ricorrente polemica sull'uso dello smartphone in classe, ormai, uno dei luoghi comuni più ricorrenti, di fatto, un “non problema”, qualora ci rendessimo conto che, al dunque, non si tratta di una riflessione sulla tecnologia, ma sull'ecologia, dal momento che i media digitali sono ambienti e in quanto tali andrebbero considerati. E studiati...
Intercettare un difficile stato delle cose: il dilemma etico
La domanda vera riguarda, semmai, i meccanismi di flusso che influenzano lo stato delle cose negli ambienti digitali, soprattutto, almeno a parere di Fabris, per quanto riguarda le giovani generazioni. Ebbene, se questo è il dato di fatto, questo è anche il problema che nel nostro caso, e soprattutto nel caso delle giovani generazioni, è necessario affrontare. Mi spiego meglio. Se una delle caratteristiche della nostra esperienza quotidiana è il fatto che ci troviamo a vivere in molteplici ambienti, anche contemporaneamente, e che questi ambienti sono non solamente fisici, ma anche digitali o virtuali, allora dobbiamo imparare a governare il rapporto fra questi diversi ambienti. In altre parole, proprio il fatto che la nozione di “ambiente” si estende oggi alle dimensioni digitali o virtuali è ciò che consente a ciascuno di noi di fruire, anche tendenzialmente tutte assieme, delle possibilità offerte all’interno di tali dimensioni. Ma questa novità non basta descriverla e, magari assuefarvisi. Va piuttosto gestita. E va gestita – questa è la mia tesi – da un punto di vista etico. È ciò che voglio fare parlando di “ecologia degli ambienti digitali”.
Non a caso vi è un forte richiamo alla governance nei confronti della sottilissima linea di confine fra ingressi e uscite nella realtà di una vita digitale composta di contatti, intrattenimento, streaming, reel, emoji, app in “luoghi, spazi, ambienti”, in riferimento al secondo paragrafo dell'articolo, tali da rinviare ad una serie di tematiche classiche dalla socializzazione al ruolo delle istituzioni, dalla responsabilità sociale ai risvolti, più o meno inattesi, di vite iperconnesse. In altre parole: retoriche e nuove tipologie dei soggetti comunicativi.
Per diverse ragioni, il mutamento più evidente interessa la cultura e le logiche performative dei media e delle industrie creative, della funzione pubblica della comunicazione all'interno di un ambiente mediale convergente, essenzialmente “trans-piattaformizzato”, laddove a contare sono i format, sempre più, ibridi, prodotti da content creator, content curator, digital journalist, web designer e professionisti del digital marketing. L'approccio complessivo non può che essere liminale, anche perché la dimensione etica che contraddistingue la parte finale dell'articolo di Fabris non consente alle mie piccole e parziali conoscenze, alternativa differente:
La questione di fondo è quella anzitutto di distinguere i diversi ambienti che abitiamo, di metterli in relazione fra loro, di passare dall’uno all’altro in maniera consapevole e competente, di vivere in essi in modo buono. La questione poi concerne più precisamente, da un lato, la necessità di confrontarci in maniera adeguata con tali ambienti, in tutta la loro varietà, e, dall’altro, di muoverci eticamente all’interno di ciascuno di essi. Questo duplice atteggiamento è proprio in verità di ogni nostro modo di vivere un ambiente, naturale o culturale che sia. Si può parlare, anzitutto e in generale, di un’etica dell’ambiente (considerato nella maniera più ampia) e di un’etica nell’ambiente. La prima studia, per dir così, dall’esterno, i criteri e i principî che sovraintendono a quelle azioni che rendono possibile una determinata struttura o organizzazione, la quale può essere a sua volta naturale oppure culturale. La seconda offre indicazioni riguardo a come comportarci quando ci muoviamo all’interno di una determinata struttura, e accogliamo o mettiamo in questione le regole che di essa sono proprie.
“E il digitale va...”
La parte finale delle mie note sparse vuole orientarsi sulle nuove forme di alienazione emotiva provocate dal non capirci più tanto nel passaggio da un ambiente all'altro: se consideriamo il digitale come continuum, allora, da un punto di vista epistemologico non possiamo non notare come le battaglia sia persa in partenza, per ciò che attiene il legame, il cambiamento sociale e gli inevitabili e necessari conflitti. Si parla con maggiore frequenza di ansia, stanchezza, stress, lacerazione della struttura stessa del legame sociale, quasi che il digitale fosse un vero e proprio lavoro e la rete emozionale orientata esclusivamente all'intrattenimento con nuovi e potenti gadget. Magna pars del discorso sociale sull'Intelligenza artificiale ne è la solida e conclamata evidenza sotto gli occhi di tutti. Una società ansiosa, ostile, afasica, nella misura in cui comporta una ridefinizione dei confini e dei profili semantici nelle piattaforme.
A maggior ragione, in ottica social, vale a dire in riferimento agli ecosistemi della comunicazione e dell’informazione digitale ciò significare estendere le possibilità di un campo di studio e di analisi sul lavoro della comunicazione digitale di giornalisti, comunicatori, portavoce, amministratori pubblici, manager, associazioni, imprese, enti privati e pubblici e così via elencando. L’ecosistema dei social media diviene l’ambito nel quale l’analisi della comunicazione riguarda argomenti di natura individuale e collettiva. Complesso analizzare e fare chiarezza laddove il tweet di un CEO, di un politico, un dirigente o un semplice lavoratore.
La quotidianità è il primo produttore di valori, dai comportamenti più semplici a quelli maggiormente evidenti, perché incastonati in dinamiche sociali e comunitarie. Nella complessità crescente della società attuale la realtà delle organizzazioni diventa gradualmente parte sempre più rilevante della vita individuale e sul significato di tale processo non ci si può non interrogare a fondo. In prospettiva, le differenze tendono a diluirsi, alla luce di un processo d’ibridazione dell’habitat sociale, laddove crollano gli assi gerarchici del passato e l’innovazione crea incertezza e, al contempo, possibilità d’immaginare accurati momenti di vita comunicativa nell’ecosistema digitale.
Il rapporto tra etica e comunicazione ha acquisito negli ultimi anni una rilevanza crescente nelle dinamiche relazionali tra istituzioni pubbliche, big companies e cittadini. Il termine “piattaforma” è oggi un concetto dominante, utilizzato per autocollocarsi nel mercato globale dalle tech company che si occupano di dare forma alla partecipazione e alla socialità attraverso i social network oppure promuovendo la disintermedazione di mercati settoriali.
Uno sguardo profondo al senso delle cose negli ambienti digitali può non bastare o può essere già tanto. Ciò che resta ineludibile è ampliare e interconnettere le discipline della comunicazione non solo e non tanto per individuare un fantomatico custode o l'ennesimo occhiuto guardiano della trasformazione, in realtà talmente esterna che pare “caduta dal cielo”. Forse, forse verrebbe la tentazione d'immaginare lo spazio proprio della responsabilizzazione etica di società digitalizzate, con meno vademecum e “linee guida” ministeriali e più reale scambio di idee e rappresentazioni, capaci di andare oltre la fotografia dell'esistente. Come si dice in questi casi: “Hic Rhodus eccetera, eccetera”.
Oltre un semplice sguardo.
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