Il saggio di Adriano Fabris offre una fotografia dell’attuale situazione in cui ci troviamo a vivere, in una realtà pervasivamente tecnologica che dobbiamo abitare, ma senza per questo subirne le modalità. Se infatti, da un lato, non possiamo rifiutare ingenuamente il rapporto con le ICT’s, allo stesso tempo non possiamo nemmeno arrenderci a una passiva adesione alle leggi che la tecnologia ci impone. Da qui l’importanza di un’etica e di una politica degli ambienti digitali, che si riflette, tra le cose, nell’impegno istituzionale per la costruzione di una cittadinanza digitale.
Vorrei in questa discussione provare a sviluppare ulteriormente la metafora spaziale dell’ambiente digitale attraverso uno sguardo sulle differenti forme di relazione tra essere umano, tecnologia e mondo che possiamo rintracciare. Questo mi porterà a concludere per un approccio di cura dell’ambiente digitale.
La relazione con la tecnica accompagna l’essere umano da quando la nostra specie è comparsa sulla Terra, e ha assunto modalità e forme differenti nel corso del tempo. Non smettiamo di utilizzare il martello, ma oltre a quello oggi utilizziamo anche l’automobile e il computer, e queste differenti forme di dispositivi implicano differenti modalità di relazioni. Nel caso della rivoluzione digitale, tale rapporto non può più essere più inteso esclusivamente in termini strumentali, come già Heidegger aveva sostenuto. Ciò accade per due motivi. Il primo è perché in generale è riduttivo intendere il ruolo della tecnica come esclusivo mezzo per raggiungere un obiettivo, che può quindi essere utilizzato bene o male esclusivamente in base all’intenzione umana: anche nel gesto più banale e nell’utilizzo più quotidiano di un oggetto tecnico si dà sempre un coinvolgimento più profondo che incide sulla natura dello stesso soggetto umano e ne determina a sua volta gli obiettivi e le volontà. Si parla quindi a tale proposito di mediazione. Un autore conosciuto principalmente per lo studio dei media, ma altrettanto importante per la filosofia della tecnologia, ossia Marshall McLuhan (2015), riassume efficacemente questa modalità di relazione con l’espressione «il medium è il messaggio», proposta nel suo libro del 1964: la tecnologia non è un oggetto neutro che si limita a traghettare o a fare da ponte tra l’essere umano e il mondo. Questa corrisponde a una visione ingenua che non ha nulla a che vedere con la realtà della relazione essere umano-macchina. McLuhan parla piuttosto di «estensione» o «autoamputazione», intendendo con questi due fenomeni opposti e complementari l’atteggiamento di adattamento dell’essere umano al potenziamento offerto dall’apparato tecnologico, il quale lo costringe a plasmare le sue capacità e le sue facoltà percettive.
La seconda ragione per cui tale interpretazione strumentale è da escludere, è invece specificamente legata alla nostra epoca, ossia la crescente autonomia delle macchine, che comporta una conseguente impossibilità di possedere completamente il controllo sul loro funzionamento e sulle attività che devono svolgere. È soprattutto a partire dagli anni Ottanta del Novecento, in corrispondenza del cosiddetto «empirical turn», e soprattutto grazie al movimento post-fenomenologico, che la riflessione rispetto ai differenti tipi di relazione tra essere umano, macchina e mondo viene approfondita, non più in termini generici e monolitici, bensì come storicamente differenziata in base alla tipologia di tecnologia e al suo specifico funzionamento. Don Ihde (1990), uno dei padri di questa prospettiva, ci offre analisi accurate di tali relazioni, che riassume sotto il quadro complessivo della mediazione tecnologica. Egli identifica almeno quattro differenti modalità di rapporto che l’essere umano può intrattenere con le tecnologie: a) relazione di incorporazione (embodiement), b) relazione ermeneutica, c) relazione di alterità, e) relazione di contesto (background).
La relazione di embodiement, simile a quella descritta da McLuhan, si verifica quando l’oggetto tecnologico viene assorbito dall’esperienza percettiva come un’estensione (si pensi, ad esempio, all’utilizzo degli occhiali, di cui l’utilizzatore finisce per non avere percezione cosciente). Sebbene possa sembrare ancora un senso strumentale, ciò che va sottolineato è che questa congiunzione modifica il modo di percepire umano, e può farlo sia in senso riduttivo sia in senso potenziante. Assai diversa è quella ermeneutica, che vede l’essere umano come osservatore e “lettore” della tecnologia. Non si tratta, in questo caso, di fare esperienza attraverso la macchina, bensì di fare esperienza della macchina, che diventa oggetto di tematizzazione per poter essere compresa. In questo caso può accadere che la relazione con la macchina porti a un tale distacco da essa da condurre a una relazione di estraneità (alterità), in cui la tecnologia viene completamente astratta dal suo contesto.
Infine Ihde propone una quarta modalità di relazione, quella di contesto (background), in cui la nostra diretta relazione con la tecnologia è limitata, ma la sua attività influenza in modo più duraturo e sullo sfondo la nostra vita. Viviamo in mezzo a questi dispositivi, pur non interagendo con loro. Il filosofo americano, già nel 1975 intuisce la natura specificamente moderna di questo tipo di relazione: «In an increasingly more complex technological society more and more human-machine relations take on ‘atmospheric’ characteristics in terms of background» (Ihde, 1975, p. 277). In effetti una lettura di questo genere è oggi ancora più adatta a descrivere il rapporto con la macchina, un rapporto di sovrapposizione con il mondo. Egli parla, a questo proposito, di «tecnosfera» per indicare la consistenza tecnologica del nostro ambiente: «there is a “technosphere” within which we do a good deal of our living, surrounding us in part the way technological artifacts do literally for astronauts and deep sea investigators» (Ihde, 1975, p. 278). Vediamo qui una prima resa spaziale della relazione tra tecnologia e essere umano. Tuttavia, nella prospettiva offerta da Ihde, anche in questa tipologia permane una sostanziale distinzione tra i tre elementi coinvolti (essere umano, tecnologia e mondo): «Clearly, the “technosphere” contains a presumption towards totality, towards technocracy. It encompasses all dimensions of our relations. But the totality remains presumptive only. There remains the difference. Even in the face of ambiguity in which I may confuse myself with my machine world [...] there is the possibility of clarifying that difference between my meeting of the world “in the flesh” and my meeting of the world through machines» (Ihde,1975, p. 279).
Si scorge il carattere pervasivo del nostro contatto con le macchine, ma rimane l’idea di una dimensione abitata dalla tecnologia, e non consustanziale a essa. La possibilità di distinguere i tre elementi è ancora presente ed è fondamentale, a parere di Ihde, per evitare che si finisca nel determinismo. La mediazione è quindi una relazione che mette in contatto varie dimensioni, ma senza intenderne fino infondo l’intreccio strutturale. Possiamo identificare due aspetti che accomunano le tre tipologie di relazioni di mediazione: il primo è la possibilità di distinguere in modo chiaro i tre elementi (essere umano, tecnologia e mondo); il secondo è la presenza di tutti e tre gli elementi.
Se questi aspetti della relazione di mediazione sono ancora validi per descrivere la tecnologia sino agli anni Novanta (periodo in cui scrive Ihde), all’epoca della rivoluzione digitale e della rete tale descrizione sembra insufficiente. Si rende quindi necessario mettere in discussione sia la possibilità di netta distinzione tra i tre elementi della relazione (umano-tecnologia-mondo), sia la presenza di tutti e tre gli elementi.
Il primo aspetto è indagato, sempre sul terreno postfenomenologico, da Peter-Paul Verbeek, il quale sostiene che la stessa intenzionalità non possa più essere considerata soltanto sul piano dell’umano. Per questo aggiunge altre due forme di intenzionalità, definite in termini di «cyborg intentionality» (Verbeek, 2008). Tra queste troviamo la cosiddetta intenzionalità ibrida, in cui l’unione tra essere umano e tecnologia non si limita a un utilizzo trasparente, come nel caso dell’embodiement, in cui l’intenzionalità rimane comunque quella umana. Si tratta piuttosto di un senso maggiormente incorporato, in cui lo stesso dispositivo contribuisce alla definizione non solo dell’intenzionalità, ma anche della moralità. Attraverso l’efficace esempio dell’ecografia, Verbeek sottolinea infatti che la tecnologia va influisce e plasma le nostre esperienze, rivestendo quindi un ruolo centrale nell’elaborazione delle nostre decisioni tanto da rendere estremamente complesso distinguere il nostro volere dall’influenza tecnologica esterna.
La distinzione, invece, tra mondo e tecnologia rimane ancora piuttosto solida. Nel caso della relazione di background delineata da Ihde si apre una prima possibile rilettura in senso fusionale delle due dimensioni, ma, come egli stesso afferma, tale unione è solo presupposta e qualora si volesse invece far emergere la differenza, ciò rimane una possibilità concreta e realizzabile.
Le attuali tecnologie, però, non si limitano a mediare il nostro rapporto con il mondo bensì diventano esse stesse questo mondo. Infatti, non soltanto l’essere umano agisce per mezzo o attraverso la tecnologia, ma anche le tecnologie agiscono su di noi e attraverso di noi. Oggi infatti dispositivi e sistemi sono sempre più presenti nella nostra vita, e sempre meno visibili, perché integrati nell’ambiente stesso o nel nostro stesso corpo. Un esempio efficace di questa pervasività integrata all’ambiente è dato dall’Internet delle cose (IoT, Internet of Things), sia dalle tecnologie di geolocalizzazione, che modulano e influenzano il nostro modo di abitare la realtà.
Si rende quindi necessario pensare a un altro tipo di relazione, che potremmo chiamare di immersione, un approfondimento dell’idea di background proposta da Ihde che ben si presta alla sua resa spaziale di ambiente digitale. A differenza del concetto di «tecnosfera», non si tratta di macchine che abitano il mondo, ma di un tessuto complesso, composto da esseri umani, enti naturali e tecnologia che costituiscono strutturalmente l’ambiente. In questo senso, anche l’idea di «infosfera», divenuta nota grazie alla riflessione di Luciano Floridi (2017), sembra rappresentare una duplicazione sovrapposta del reale, per quanto ci troviamo spesso a vivere contemporaneamente in entrambe le dimensioni. Oggi, invece, la natura reticolare della realtà digitale si intesse direttamente con i nostri corpi, le nostre menti e il resto degli enti naturali, andando a costituire in modo indistinguibile il mondo. Il riferimento di Fabris agli ambienti digitali, analogo a quello di Postman, ci permette quindi di pensare le nostre relazioni come luoghi «all'interno dei quali noi scopriamo, modelliamo ed esprimiamo in modi particolari la nostra umanità» (Postman, 1983, p. 154). In effetti, l’ambiente ci comprende non semplicemente come suoi occupanti, ma come parte integrante del suo equilibrio, un elemento costitutivo della sua definizione. Pensiamo alle classiche descrizioni degli ambienti: l’insieme di flora, fauna, caratteristiche climatiche, contribuiscono a un quadro unitario in cui operare una scissione tra gli elementi non fa altro che privare di senso il concetto stesso di ambiente.
Ciò che però risulta particolarmente nuovo, in questo quadro, ma insieme anche eticamente preoccupante, è il fatto che il livello di autonomia della macchina è tale da rendere l’essere umano un nodo tra gli altri di questa relazione. non solo perde la sua centralità, bensì essendone addirittura completamente bypassato. Non siamo più il polo di attivazione delle azioni realizzate tramite la tecnologia, la quale comunica autonomamente con altre sue forme. Viene così messo in pericolo quell’equilibrio dell’ecosistema attraverso una espunzione dell’umano che, rimanendo nella metafora ambientale, può paragonarsi al peso dell’estinzione di una specie.
A questo punto, la riflessione ontologica sulle modalità di relazione si scopre immediatamente etica: essendo l’ambiente la fitta trama delle (nostre?) relazioni, per comprenderlo dobbiamo orientarci all’interno, dobbiamo elaborare delle strategie ecologiche di gestione del nostro ruolo. Il primo passo, in questo senso, sta proprio nell’estensione del concetto di cura oltre la biosfera. Così come nel Novecento la sensibilità ambientalista ha portato a un’estensione dell’idea di cura oltre lo spazio dell’umano, allo stesso modo si rende necessario un ulteriore ampliamento al suo senso digitale. Questa cura ha come principale scopo il mantenimento di questo equilibrio interno, che si regge sulla interazione creativa tra enti, senza che nessuno dei componenti venga sopraffatto dall’altro. Fare sì che l’essere umano non venga escluso dalle relazioni digitali è funzionale non solo alla sua “sopravvivenza”, ma all’equilibrio dell’ecosistema intero. Senza auspicare un ritorno di un modello antropocentrico, si tratta piuttosto di favorire un’integrazione e un coinvolgimento dell’essere umano nella dimensione tecnologica al fine di portare in essa il proprio peculiare contributo di agente morale critico e responsabile.
Bibliografia
Floridi, L. (2017), La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina.
McLuhan, M. (2015), Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore.
Ihde, D. (1975), The Experience of Technology: Human-Machine Relations, “Cultural Hermeneutics”, 2(3), pp. 267-279.
Ihde, D. (1990), Technology and the Lifeworld: From Garden to Earth, Indiana University Press.
Postman. N. (1983), Ecologia dei media. L'insegnamento come attività conservatrice, Armando.
Verbeek, P.-P. (2008), Obstetric Ultrasound and the Technological Mediation of Morality: A Postphenomenological Analysis, “Human Studies”, 31 (1), pp. 11–26.