La macchina da scrivere di Ceausescu e le nuove censure a fin di bene
di Carlo Lottieri (Università Telematica Pegaso)
Come ogni innovazione, pure lo sviluppo della telematica comporta al tempo stesso rose e spine. È però interessante rilevare, come fa Adriano Fabris nello scritto che ha aperto questa ampia e articolata discussione, quanto sia indispensabile imparare a convivere sia con gli aspetti positivi, sia con quelli negativi, dato che la nuova realtà in cui ci troviamo s’è imposta grazie al fatto che smartphone e laptop hanno la capacità – per usare le parole di Fabris stesso – di «aprirci mondi», derivando da qui la loro (quasi) irresistibile forza e il loro indiscusso fascino.
C’è allora un’etica nuova da coltivare. Ovviamente i principi in fin dei conti sono sempre gli stessi, ma vanno declinati in contesti diversi. È insomma urgente fare i conti con le responsabilità del nostro agire entro un mondo piuttosto diverso, ad esempio, da quello di un secolo fa. E quello che vale per i profili morali, va anche per quelli di ordine politico e istituzionale.
In questo senso è opportuno riconoscere che esiste un’etica minimale, preliminare, che deve porre le premesse della nostra convivenza e fondare il diritto: un’etica che non ci dica fino in fondo come dobbiamo vivere nell’universo virtuale, ma innanzi tutto cosa non dobbiamo fare se vogliamo rispettare l’altro e la sua dignità. E una delle prime cose che questo imperativo morale ci impone è il rispetto della libertà di espressione del prossimo, quali che siano le opinioni che professa.
Non disporre dell’altro significa anche saper separare l’universo delle parole da quello delle azioni. Non già perché le parole non siano incardinate in azioni (gli speech acts di cui parla tanta filosofia del nostro tempo, da John Searle in poi), ma perché in una società libera che prenda sul serio i diritti altrui si censurano le azioni violente, ma non le idee intolleranti: s’impedisce ogni aggressione, ma non per questo si mettono fuorilegge Il libretto rosso di Mao Zedong oppure La mia battaglia di Adolf Hitler.
Negli ambienti digitali la moralità che deve stare alla base di un ordine giuridico muove da qui: dall’accettazione della libera circolazione delle tesi che non ci piacciono e non approviamo.
La lunga marcia plurisecolare che in Occidente ha fatto accettare l’idea della libertà di espressione s’è basata proprio sulla radicale distinzione tra le idee e i fatti: derubare il prossimo non è la stessa cosa che teorizzare un esproprio proletario. L’anarchico francese di secondo Ottocento Émile Henry scrisse testi inneggianti alla violenza e si rese protagonista di atti dinamitardi: in una società liberale i primi non possono essere censurati, mentre i secondi vanno impediti e, se non si riesce, puniti. Nessun codice civile può accettare il furto quale azione legittima, ma una società non è libera se mette all’indice le tesi di Karl Marx, Toni Negri o altri. Senza la difesa di questo confine tra le idee e le azioni ci s’incammina verso esiti totalitari.
Purtroppo tale frontiera sembra oggi ignorata dai più. Se le cose sono forse un po’ differenti in America, dove ancora ci si divide tra chi interpreta in maniera rigorosa il Primo emendamento e chi prova a darne letture di comodo, l'Europa ha imboccato con decisione la strada che conduce all’addomesticamento di qualsiasi confronto. Nel 2022, in particolare, è stato approvato il Digital Services Act (DSA) che impone obblighi specifici alle piattaforme per contrastare la diffusione di contenuti illegali e garantire una maggiore trasparenza nelle operazioni di “moderazione” dei contenuti. Le piattaforme sono pure obbligate a collaborare con le autorità politiche per affrontare i rischi legati a contenuti che gli apparati statali reputano dannosi. A dispetto dei suoi tratti liberticidi, il DSA ricevette il favore di ben 539 europarlamentari, mentre soltanto 54 votarono contro e 30 si astennero. Quella maggioranza schiacciante la dice lunga sulla cultura politica del Vecchio Continente. Il resto è cronaca.
In effetti, a dicembre 2023 abbiamo avuto le scioccanti rivelazioni dei “Twitter files” (che ci hanno fatto comprendere che funzionari dell’FBI e della Cia hanno a lungo cooperato con il social network per pilotare l’opinione pubblica) e in questi giorni abbiamo avuto addirittura l’aperta confessione di Mark Zuckerberg (fondatore di Facebook), che s’è scusato di non essersi opposto alle manipolazioni richieste dall’amministrazione Biden: sia sulla questione del laptop del figlio Hunter, sia sul dibattito riguardante le politiche emergenziali degli anni della pandemia.
Sono passate soltanto poche ore e in Francia (non in Ungheria, non in Russia…) è stato arrestato il fondatore di Telegram, Pavel Durov, accusato di avere permesso agli utenti del suo servizio di messaggistica di intrattenere comunicazioni riservate, che garantissero la privacy dei soggetti coinvolti. Dopo che per anni era stato un bersaglio del regime di Vladimir Putin (che l’ha costretto a lasciare la Russia), in Francia oggi Durov si trova a fare i conti con ben 12 capi d’imputazione, che in sostanza poggiano sul fatto che Telegram non ha mai voluto interferire con l’autonomia dei propri clienti.
Ovviamente, così come un’autostrada può essere usata da un criminale per spostarsi sul luogo dell’omicidio, anche una piattaforma per la messaggistica può essere impiegata da malintenzionati; e lo stesso si può dire per i servizi offerti da US Post o da Poste Italiane. Ciò autorizza qualcuno, a seguito di un illecito, ad accusare i gestori delle strade o i dirigenti delle agenzie di recapito? Oppure dovremmo accettare l’idea (perché di questo si tratta) che lo Stato abbia la facoltà di leggere le nostre lettere, come faceva il capitano Gerd Wiesler, protagonista de Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck, che dopo essere stato messo da parte dalla Stasi fu obbligato ad aprire buste di corrispondenza privata con uno strumento apposito, per poi richiuderle senza lasciare tracce visibili?
Il totalitarismo soft dei nostri giorni, infatti, non soltanto avversa la libertà di espressione, ma contrasta in tutti i modi ogni privacy e segretezza. Mentre gli apparati di potere si fanno sempre più opachi, si pretende che ognuno di noi sia sempre e perfettamente trasparente di fronte a chi rivendica il diritto di governarci.
In fondo, non c’è da sorprendersi. La lezione del realismo politico ci obbliga a prendere atto che nell’epoca della democrazia di massa e delle tecnologie comunicative basate sui social network e su altre infrastrutture telematiche, il controllo di queste realtà è indispensabile a quanti dispongono del potere. Questo è un punto fondamentale. Quando la società cambia, anche le forme del potere si trasformano e s’adattano.
Se Nicolae Ceausescu impose la registrazione di tutte le macchine da scrivere, così che il regime potesse tracciare i documenti scritti e identificare i responsabili di eventuali contenuti critici, oggi la situazione non è del tutto differente. Chi dispone del monopolio della forza e si autorappresenta come sovrano (superiorem non recognoscens) ha bisogno di far sì che l’ambiente in cui tutti noi ci muoviamo sostenga l’assetto istituzionale e che sia sempre possibile, per gli uomini di Stato, osservare quanto facciamo.
Coloro che intendono moderare le libere discussioni stanno insomma strutturando una nuova forma di censura, che rende palese una volta di più il carattere profondamente immorale e anti-giuridico degli apparati del dominio.
Già in Thomas Hobbes il potere sovrano decideva in merito alle questioni ideologiche (teologiche, confessionali) allo scopo di evitare la conflittualità derivante dal divergere delle opinioni. Oggi l’esigenza è ancora più forte, perché la reinvenzione in senso “popolare” della sovranità esige in modo ben più stringente che non vi siano voci dissenzienti. Lo si è visto durante la pandemia; lo si vede anche ora quando si prova a discutere di cambiamenti climatici. In un caso come nell’altro, la parola d’ordine è quel vecchio slogan che si trovava sui tram di Milano: “Non disturbate il manovratore”.
Chi dispone di noi evoca sempre il medesimo fantasma hobbesiano: ci dice, in un modo o nell’altro, che nella libertà è iscritta la possibilità del suo abuso e che una protezione totale impone la compressione di ogni autonomia. In qualche modo è così. Come siamo controllati a ogni ingresso in aeroporto, seguendo linearmente quella logica dovremmo esserlo ogni volta che prendiamo un treno o una metropolitana, perché potremmo avere con noi una bomba; come dobbiamo consegnare i nostri dati alla questura ogni volta che (in Italia, solo in Italia!) andiamo in un hotel o in un Airbnb, analogamente questo dovrebbe avvenire quando ci rechiamo in un supermercato o al ristorante.
Chi vuole “moderare” il nostro eloquio e gestire le nostre comunicazioni punta a costruire un ambiente della comunicazione e del confronto pubblico che sia messo integralmente al sicuro, così da evitare ogni pericolo. Perché è indubbio che si possa usare la propria autovettura per andare a vedere un amico oppure per incontrare altre persone con cui organizzare atti terroristici.
La macchina da scrivere di Ceausescu, in tal senso, aveva una sua logica.
Il guaio è che non c’è nulla di più pericoloso di un mondo in cui qualcuno di noi pretende di gestire tutto al fine di evitare qualsiasi rischio. In fondo, quello che Joseph De Maistre evidenziava quando rilevava che non gli era possibile obbedire a una legge se qualcuno l’aveva fatta, vale anche qui. Il ragionamento hobbesiano («è opportuno rinunciare a ogni libertà in cambio di una sicurezza assoluta») potrebbe in qualche modo reggere se potessimo fidarci del Leviatano: se davvero potessimo credere che da lì non ci arriverà mai alcuna minaccia. Non è così, poiché l’esperienza storica (anche recente) ci ha mostrato come nulla mette a rischio la sopravvivenza e l’incolumità quanto il potere istituzionalizzato.
Per giunta, l’illusione censoria e dirigista ottiene consenso mostrando il cattivo uso che si può fare della libertà di espressione, ma poi finisce per configurare non già il rischio potenziale che può venire dal fatto che qualcuno esponga tesi aberranti, ma invece la sicura violenza di chi nega la dignità di ognuno di noi pretendendo di sindacare la fondatezza del nostro credo e delle nostre opinioni.
In questo senso, la stessa battaglia contro le fake news è solo un capitolo (uno degli ultimi) della lotta condotta dagli uomini di potere contro la società civile. Dicono di voler proteggerci da noi stessi, di agire a fin di bene, e in tal modo restringono sempre più i nostri spazi di errore e di libertà.