In maniera non altrettanto drammatica, e forse con maggiore ottimismo, lo stimolante saggio di Adriano Fabris ripropone una delle tante questioni irrisolte della modernità che, quasi incidentalmente, e in maniera per certi versi urticante, era stata sollevata già nel 1954 da Leo Strauss, nel celebre saggio Che cos’è la filosofia politica, scrivendo che il «passaggio dall’economia della scarsità all’economia dell’abbondanza» (a cui comunque chi scrive non ritiene sia il caso di rinunciare) conferma non soltanto che la tirannide è «il male endemico della vita politica» ma anche che i classici avevano ragione allorché avevano profetizzato che quel passaggio, implicando «l’emancipazione della tecnologia dal controllo morale e politico», avrebbe «condotto a calamità e alla disumanizzazione dell’uomo» (Strauss 1977, p. 67).
Non da oggi sappiamo, come Strauss, che non tutto ciò che è nuovo è parimenti buono e che al peggio non c’è limite; ma, in un mondo in cui l’esperienza sta svolgendo un ruolo sempre più marginale per via del frenetico susseguirsi di novità, sappiamo assai meno delle conseguenze, delle implicazioni e delle applicazioni sociali delle novità e di come andranno a distribuirsi. Nel recente passato – e tutto questo fornisce se non altro un’idea dell’entità del cambiamento – la politica e la religione erano in qualche modo riuscite a collocare il cambiamento (in alcuni casi promuovendolo, in altri ostacolandolo) in quadri concettuali ed istituzionali più stabili che ne facilitavano l’adattamento. La realtà del momento è che non sono più in grado di farlo e che la prima ha finito per dipenderne. Di qui la domanda: come mettere in relazione il cambiamento con la dimensione umana e quest’ultima possiede una “natura” che è bene preservare?
Di fronte a un fallimento che non denuncia in termini così perentori ma che è ben presente nella sua dimensione filosofica, Fabris pone – e si pone – il problema di che cosa possa allora fare l’etica per tentare di dare regole adeguate all’incalzare di un cambiamento tecnologico il quale, quasi indisturbato, ha nel giro di pochi decenni fatto si che ormai «non possiamo [più] vivere senza le nostre protesi tecnologiche».
Sfido chiunque a sostenere che non si tratti di quella completa «disumanizzazione dell’uomo» paventata da Strauss e anche, con altri termini e in un diverso quadro concettuale, dal commento di Massimo De Angelis a Fabris, soprattutto quando scrive che «più che un’etica sarebbe necessaria, credo, una ascetica, con un distacco previo da questo mondo». In effetti stiamo assistendo a una trasformazione della tecnica da strumento in protagonista incontrastato dell’esistenza umana. Una trasformazione alla quale appare difficile riuscire a sottrarsi anche per via della progressiva dipendenza del funzionamento di quelle istituzioni politiche (che avrebbero dovuto garantire la libertà individuale) dalle tecnologie digitali.
Di fronte a questa situazione per molti versi inedita e inaspettata, in cui da strumento per la liberazione dell’uomo dal bisogno la tecnologia si è trasformata in strumento di controllo e di oppressione, Fabris, ben consapevole della pratica impossibilità di dettare regole all’innovazione, si chiede cosa possa fare l’etica per limitarne, se non altro, le conseguenze inintenzionali. Un’etica che non sia la riproposizione di modelli comportamentali ispirati a un passato intriso di finalismo (e nel quale la dimensione umana tutto sommato correva pochi rischi), ma che tenga conto del cambiamento avvenuto e cerchi di porre un argine ai suoi aspetti deteriori. Confesso, ma Adriano lo sa assai bene, che sulla riuscita dell’impresa nutro dei dubbi. Sostanzialmente perché dubito degli effetti taumaturgici dell’educazione di massa. Ciò che però non mi impedisce di riconoscere l’audacia di una proposta che nasce dalla condivisa consapevolezza della necessità di porre dei limiti ad una situazione che rischia di sfuggire di mano anche ai protagonisti. Nessuno, infatti, riesce a dire che cosa potrà avvenire con la generalizzazione dell’intelligenza artificiale. Neanche coloro i quali pensano che si tratti di un potenziamento delle facoltà umane e della sua conoscenza. Agli occhi di uno studioso di filosofia politica, per poterci provare con probabilità di successo l’“etica relazionale” di Fabris avrebbe bisogno del supporto di quelle due ex protagoniste della civiltà occidentale: la religione e la politica, le quali invece, e soprattutto la seconda sopravvivono soltanto grazie alla tecnologia della quale non possono fare a meno non soltanto per legittimarsi realizzando i sempre nuovi “bisogni” umani indotti dalla tecnologia, ma neanche per la sua attività repressiva.
Il problema, quindi, a mio avviso, non consiste tanto nella possibilità di successo di un’etica che indichi a un numero sempre crescente di presuntuosi insipienti sollecitati da pulsioni momentanee come mettere in relazione gli ambiti della dimensione umana che si avviano ad essere trasformati dalla digitalizzazione, quanto nella possibilità di rallentare l’innovazione in una situazione in cui la politica e la religione appaiono travolte dal discredito.
Da questo punto di vista, si tratta della tragedia della nostra epoca che avviene in un momento in cui la scienza si propone di risolvere il perenne problema umano dell’incertezza tramite la tecnologia. Sono infatti tanti a credere che i devices e l’intelligenza artificiale renderanno tutto più facile.
Fabris – il quale confessa di far parte della categoria di esseri umani che «crede ancora nella forza dell’educazione e spera, per questa via, di governare nella giusta misura le opportunità a cui [gli strumenti tecnologici] danno accesso» – ritiene, ed è difficile dargli torto, che ci sia bisogno urgente di una dimensione teorica che metta in relazione (sul significato e sull’importanza del concetto di relazione cfr. Fabris 2016) i vari ambienti entro i quali si svolge l’esistenza umana. Ambienti che sono contraddistinti dall’uso di dispositivi che «non solo permettono di comunicare, non solo ci offrono applicazioni per ogni esigenza, ma ci aprono mondi». In altre parole, «se una delle caratteristiche della nostra esperienza quotidiana è il fatto che ci troviamo a vivere in molteplici ambienti, anche contemporaneamente, e che questi ambienti sono non solamente fisici, ma anche digitali o virtuali, allora dobbiamo imparare a governare il rapporto fra questi diversi ambienti». E questo perché «oggi viviamo in ambienti, non più solamente in luoghi o spazi. Questi ambienti sono sia naturali – per quanto possano essere “naturali” gli ambienti sempre oggetto di trasformazione culturale da parte dell’essere umano –, sia artificiali. Gli sviluppi tecnologici fanno sì che tali ambienti si sviluppino e si moltiplichino». Di qui la necessità di metterli per lo meno in comunicazione onde evitare che uno di essi prevalga sugli altri distruggendoli e negandone la legittimità in un mondo ridotto al dominio di chi inventa sempre qualcosa di nuovo a cui sarà ‘politicamente’ impossibile sottrarsi. Niente da eccepire!
E tuttavia, pur riconoscendo la fecondità della proposta e la denuncia che si sta prospettando una situazione che non può essere affrontata con una visione fideistica nelle virtù della tecnologia, i dubbi non mi abbandonano e alcuni dei commenti al suo testo li hanno rafforzati. Anzitutto quello di Roberto Festa allorché, in sostanza, avanza riserve sulla trattazione dei temi della comunicazione e degli ambienti digitali e virtuali in termini etici. Festa non nega la problematicità del momento che stiamo vivendo. Ma non ritiene, come invece Fabris, che per comprendere «tutti gli aspetti di novità dello scenario delineato» basti «un’etica che consideri e valuti le trasformazioni tecnologiche». In altre parole, un’etica che sia «in grado di orientare, elaborando criteri e princìpi condivisibili, il nostro vivere all’interno dei vari ambienti a cui le tecnologie danno accesso […] un’etica che ci consente di mettere in gerarchia tali molteplici ambienti».
Io concordo con Fabris sul fatto che sia indispensabile e urgente trovare una soluzione alla situazione che si è creata e che sembra essere sfuggita di mano a chiunque, ma non sono insensibile a quanto scrive Festa quando sostiene che «poiché nella formulazione di direttive e leggi volte a disciplinare la creazione e l’uso di ambienti digitali sono coinvolti svariati organismi politici, ci sembra appropriato parlare di politica – e non semplicemente di etica –, degli ambienti digitali». E questo non soltanto perché sulla bontà dei risultati del coinvolgimento degli “svariati organismi politici”, sono assai più pessimista di lui, ma anche perché – avendo perso ogni progettualità diversa da quella di una inconcludente produzione di regole che a conclusione del loro farraginoso processo di formazione vengono prestamente superate e rese superflue e pure dannose dallo sviluppo della realtà – ormai quei politici si limitano a cercare di realizzare con strumenti tecnologici quella marea montante e crescente di aspettative più o meno fondate e di diritti senza tener conto dei «costi e degli obblighi connessi all’attuazione di qualsiasi diritto». Di modo che – scrive sempre Festa – «il beneficio che il diritto assicura al suo detentore ha, come immagine speculare, l’obbligo di almeno un’altra persona di compiere le azioni che conferiscono quel beneficio. Creare diritti significa creare obblighi che devono essere assolti». E condivido pure il suo timore secondo il quale «la filosofia politica del Web, sviluppata quasi sempre nel solco del liberalismo dei diritti, rischi di condurci nel paese delle favole, alimentando nuove e perniciose forme di digichiacchiere». Ovvero che l’eticizzazione degli ambienti digitali si possa trasformare anche essa in una forma di controllo privo di un finalismo che lo trascenda.
Tutto ciò richiama quanto scrive De Angelis sollevando l’attenzione sul problema della libertà umana di fronte a uno sviluppo tecnologico così pervasivo e, in termini forse eccessivi, allorché sostiene che «attraverso l’esclusione di Dio, il laicismo, il razionalismo e il positivismo il pensiero occidentale ha prodotto in questi secoli moderni il dominio della tecnica, lo sviluppo tecnologico e infine l’intelligenza artificiale. Il frutto è notevole ma è stato pagato al prezzo di un potenziamento che è a un tempo un impoverimento del pensiero. Se vogliamo dello spirito occidentale».
Il problema, dal punto di vista della filosofia politica, è rappresentato proprio dalla necessità di rivendicare con possibilità di successo la possibilità di sottrarsi allo sviluppo tecnologico e alle sue implicazioni in un mondo in cui tutti i rapporti tra gli esseri umani e tra gli esseri umani e le istituzioni avvengono ormai tramite devices. Un relazionarsi asfissiante che viene imposto legislativamente e al quale è praticamente impossibile sottrarsi. Anche agli anziani che non soltanto non hanno dimestichezza con gli strumenti informatici ma che non hanno neanche intenzione o interesse ad acquisirla. Dobbiamo rivendicare la libertà di sottrarci non soltanto alla politica e alla religione, ma anche alla scienza e alla tecnologia. Pagandone ovviamente il costo, ma (epicureanamente) consapevoli che la vera libertà consiste nel poter fare a meno di tutto.
Ma tra i commenti a Fabris vorrei spendere due parole anche su quello di Riccardo Manzotti il quale sostiene che «un ambiente digitale è un immenso zeppelin carico di idrogeno digitale sempre sul punto di esplodere a causa dell’ipertrofia del contenuto che le IA generative pompano dentro il suo ventre rigonfio. Non ci può essere un’ecologia del digitale perché non ci sono cose buone o cattive, se non nella misura in cui influenzino il mondo reale». Quel che mi chiedo è se siamo preparati a questa esplosione e a come gestirne le conseguenze sul mondo reale. In altre parole, accanto alla necessità, rimarcata da Fabris – e ripresa da Ivo Stefano Germano quando scrive che «la questione di fondo è quella anzitutto di distinguere i diversi ambienti che abitiamo, di metterli in relazione fra loro, di passare dall’uno all’altro in maniera consapevole e competente, di vivere in essi in modo buono» – di confrontarci positivamente e realisticamente con la rivoluzione digitale e con le sue conseguenze, bisognerebbe anche, a mio parere, prendere in considerazione la possibilità di farne a meno.
Certamente ha ragione Markus Krienke quando scrive che «mentre prima gli “ambienti stabili” erano orientati a un “mondo di cose” fuori da noi, ora la rivoluzione digitale e la trasformazione della realtà in informazione le ha rese fluide, e il soggetto umano insieme ad esse. Molti, infatti, vedono sorgere l’epoca del “transumano” nel senso che la società sta lasciando alle spalle quelle distinzioni che istituzionalizzavano gli elementi dell’ “umanesimo” occidentale che distacca l’essere umano dal resto della realtà proprio per il suo esclusivo possesso dell’ “intelligenza”». E come dissentire da Silvia Dadà quando osserva che il saggio di Fabris «offre una fotografia dell’attuale situazione in cui ci troviamo a vivere, in una realtà pervasivamente tecnologica che dobbiamo abitare, ma senza per questo subirne le modalità. Se infatti, da un lato, non possiamo rifiutare ingenuamente il rapporto con le ICT’s, allo stesso tempo non possiamo nemmeno arrenderci a una passiva adesione alle leggi che la tecnologia ci impone. Da qui l’importanza di un’etica e di una politica degli ambienti digitali, che si riflette, tra le cose, nell’impegno istituzionale per la costruzione di una cittadinanza digitale».
Ma parimenti bisogna anche dire e renderci conto che non ci troviamo semplicemente di fronte all’ennesimo capitolo del rapporto tra tecnica e uomo che finora si è risolto in maniera sempre favorevole a quest’ultimo, ma, e richiamando ancora le parole di Fabris, che ormai siamo ridotti nella situazione di non poter «più vivere senza le nostre protesi tecnologiche». Una situazione in cui la relazione tra uomo, mondo e tecnologia appare completamente sbilanciata a favore di quest’ultima e a sfavore della libertà individuale. Una situazione per affrontare la quale non credo – purtroppo – sia sufficiente una nuova e pur necessaria etica che in maniera innovativa – e si tratta del grande pregio del saggio di Fabris – metta in relazione le nuove dimensioni della condizione umana.
Vorrei così concludere con una nota di “ottimismo" tratta ancora da Strauss e, stavolta, dal suo saggio Sulla tirannide del 1953: «rispetto alla tirannide classica, quella di oggi ha a disposizione sia la “tecnologia” sia le “ideologie”; detto più in generale, presuppone l’esistenza della “scienza”, cioè di un’interpretazione, o tipo, particolare di scienza. Invece la tirannide classica, a differenza di quella moderna, si trovava ad affrontare, di fatto o virtualmente, una scienza che non aveva come fine la “conquista della natura”, né voleva essere volgarizzata e divulgata». Oggi, di conseguenza, e «grazie alla “conquista della natura” e in particolare della natura umana», ci troviamo di fronte alla minaccia che la scienza diventi «ciò che nessuna tirannide precedente è mai diventata: perpetua e universale. Di fronte alla spaventosa alternativa che l’uomo, o il pensiero umano, debba essere collettivizzato in un sol colpo e senza pietà oppure attraverso processi graduali e non violenti, siamo costretti a chiederci come potremmo sfuggire al dilemma. Per questo riconsideriamo le condizioni elementari e non appariscenti della libertà umana» e speriamo che «finché la natura umana non sarà completamente vinta, cioè finché il sole e l’uomo generano ancora l’uomo, non c’è motivo di disperarsi. Ci saranno sempre uomini (ándres) che si ribelleranno contro uno Stato che distrugge l’umanità, o nel quale non siano più possibili grandi imprese. [E] se anche fosse condannata al fallimento [...] può essere l’unica azione in nome dell’umanità dell’uomo, l’unica grande e nobile impresa ancora possibile una volta che lo Stato universale e omogeneo sia diventato inevitabile. Ma nessuno può sapere se fallirà o avrà successo» (Strauss 2016, pp. 555-56, 61, 230-31).
A me, di conseguenza, e proprio per la salvaguardia della libertà umana, non resta che sperare che lo Stato universale e omogeneo frutto della scienza, della tecnologia, della biogenetica, dei diritti e del controllo dell’uomo tramite devices, non sia inevitabile. Ma, confessando di non sapere come rendere ciò possibile, apprezzo quanti un’idea ce l’hanno.
Bibliografia
Fabris, A. (2016), RelAzione. Una filosofia performativa, Morcelliana.
Strauss, L. (1977), Che cos’è la filosofia politica? (1954), Argalia.
Strauss, L. (2016), Sulla tirannide (1954), Adelphi.