L’ambiente digitale è un vampiro dell’esistenza
di Riccardo Manzotti (Università IULM, Milano)
Che cosa è l’ambiente? Che cosa è l’informazione? Può esistere un ambiente digitale e può avere una sua etica? Sono gli interrogativi da cui muove il contributo di Adriano Fabris per riflettere sulla possibilità di un’ecologia – e quindi di un’etica – degli ambienti digitali. Per rispondere a queste domande è necessario procedere a ritroso e interrogarsi se, a partire dagli anni Novanta, non siamo diventati prigionieri di una caverna platonica costruita con la tecnologia, la cosiddetta infosfera? Il mio punto è che non dobbiamo prendere sul serio questa cameretta magrittiana tappezzata di contenuti virtuali, ma piuttosto ritrovare la radice dell’esistenza che è l’unica realtà. Mi spiego.
Il dato non è innocente: esiste in quanto frutto dell’incontro tra un fatto e un giudizio, tra un evento e una ipotesi. L’informazione è la registrazione di un dato e non ha alcun significato al di fuori di questa relazione. Dal tempo di Shannon è diffusa la convinzione che l’informazione esista, ma si tratta di una credenza che implica l’esistenza di un livello formale che si contrappone a quello materiale. Il popolare slogan di John Wheeler, «It from bit», suggerisce una visione platonica della realtà che implicherebbe che la forma, oggi diremmo l’in-form-azione, sia la sostanza prima della realtà (Wheeler 1986). Ma questa concezione non è necessariamente vera, anzi, proprio grazie allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, il problema si pone in chiave nuova (Huh et al 2024; Manzotti, Rossi 2023).
Da Platone al Novecento molti hanno dato per scontato che esistesse un livello immanente, caratterizzato dalla contingenza e mutezza dell’esistenza (le cose non parlano e non hanno voce); un dominio della materia privo di nominazione di nominanti (come nella tavola posteriore de Il giardino delle delizie di Hieronymus Bosch). A questo strato muto e buio si è contrapposta una dimensione, come dire, meno materiale che è stata identificata, a seconda dei casi e delle culture, in modi diversi: dalla dimensione spirituale a quella psicologica, dal pensiero all’informazione. Quando il progresso tecnologico – attraverso le reti mobili, internet e i metaversi virtuali – ha dato l’impressione di avere raggiunto una sua autonomia , molti hanno accarezzato l’idea di poter finalmente segare il ramo del concreto: liberiamoci del mondo reale, brutto e costoso e inquinante, e trasferiamoci nella dimensione virtuale di social network e ambienti digitali; l’ambiente digitale di cui parla Fabris. Questo non è un progresso, ma involuzione stile hikikomori incoraggiata, oltre che dallo sviluppo tecnologico, da premesse metafisiche implicite.
Se è vero che siamo passati dalla dicotomia offline/online all’onlife, allora possiamo rivedere l’ontologia del digitale e riportarla al mondo reale; il livello informazionale è inutile come il centro di gravità nella spiegazione della dinamica dei moti. Ogni cosa è in relazione con ogni altra cosa, e sono queste continue relazioni, che però originano e terminano sempre nella realtà, che costituiscono il mondo digitale.
L’ambiente digitale non ha una sua ontologia, ma è semplicemente un modo per descrivere l’incremento nelle connessioni della realtà. Infatti, l’attrazione per il virtuale è data dal fatto che, almeno in teoria, dovrebbe condurci a qualcosa di reale dall’altra parte: Tinder, Bumblebee, Whatsapp, FB, Instagram, persino Tiktok, ci aprono finestre sulla realtà. Il problema è che queste finestre sono come specchi deformanti o come specchi frantumati che ricombinano le cose in oggetti chimerici che, come gli ippogrifi, non esistono, ma sono pure sempre fatti di cavalli e di grifoni (Byrne, Manzotti 2022).
L’ambiente digitale è un immenso zeppelin carico di idrogeno digitale sempre sul punto di esplodere a causa dell’ipertrofia del contenuto che le IA generative pompano dentro il suo ventre rigonfio. Nella semantica, la moltiplicazione di immagini digitali sta per scatenare (in qualche caso lo ha già fatto) una ondata inflattiva tale da svuotare di ogni significato il livello intermedio. È come il gioco degli specchi al baraccone dei divertimenti: può essere interessante e divertente per un sabato pomeriggio, ma diventa rapidamente saturo di gratuità. Le immagini, fino a ieri, erano sempre immagini di (immagini, testi, suoni). Se vedevo l’immagine di un quartiere affollato di New York degli anni Trenta, ci si poteva immaginare il rumore delle persone, l’odore ferroso dei freni dei tram, l’odore non del tutto gradevole delle persone accatastate nei veicoli: realtà che davano carne e sangue a quel foglio di carta che riportava sfumature di grigio. Oggi che le IA producono infinite combinazioni di pixel colorati, grazie alle probabilità condizionali che gli algoritmi di diffusione latente hanno estratto dal nostro patrimonio visuale, quelle superfici colorate (per quanto possano essere somiglianti a persone, case, strumenti suoni e luci) diventano sempre di più soltanto cose. Le immagini di diventano solo immagini e una pura immagine è solo una superficie piatta. L’onda inflattiva delle IA generative ha azzerato il significato dell’ambiente digitale.
L'ambiente digitale in quanto tale non esiste. È un vampiro che può funzionare solo finché può contare su una provvista di sangue fresco che solo il mondo reale può fornirgli: esiste solo come entità fittizia in cui credere. È come il valore di una banconota che non è che una quantità convenzionale che misura il ruolo di quello strumento creditizio all’interno di una rete di relazioni.
L'idea che l’infosfera possa contenere strutture di significato sue proprie è fuorviante al pari dell’idea che un bitcoin possa avere un valore al di fuori della rete di valore nella quale viene proposto come veicolo di passaggio tra il momento dell’investimento e il momento della sua liquidazione. La sfera finanziaria, al pari della infosfera, non è un vero ambiente, perché per essere tale deve fare riferimento a un ancoraggio con la realtà. L’ambiente digitale è solo una rete causale all’interno del quale si strutturano momenti di esistenza. L’infosfera (o il sistema finanziario), non contiene nulla, non è né un contenitore né una sfera di appartenenza. È solo un modo per riferirci all’accresciuto grado di connettività della realtà. Questa trasparenza semantica e ontologica è il motivo che ha impedito il decollo del metaverso. Il digitale, l’infosfera non hanno alcuna autonomia etico-semantica; non sono altro che uno specchio (multi sfaccettato, deformante e ricombinante) dell’unica realtà. Chi ha mai visto un colore virtuale? Tutti i colori visti all’interno dei visori, anche i più sofisticati, non sono altro che colori fisici proiettati su piccoli schermi televisivi posti a corta distanza dalle nostre retine. La realtà è sempre la radice di tutto.
Non ci può essere un’ecologia del digitale perché non ci sono cose buone o cattive, se non nella misura in cui influenzino il mondo reale. In base a cosa un comportamento, una situazione, dovrebbe essere considerata più auspicabile di un’altra? Per esempio, la recente sensibilità ecologica è il frutto del distacco urbano dall’ambiente naturale rappresentato – nei cartoni animati e nei documentari del Disney Channel – come il giardino dell’Eden (Zizek 2021). Le nuove generazioni, incapaci di muoversi in un ambiente naturale, se non equipaggiate di una bolla tecnologica che li mantiene in collegamento con il loro ambiente urbano sterile e controllato, si cullano in questo desiderio di purezza e di bontà che, non potendolo esprimere con il barbone sotto casa (che puzza) viene vissuto con il ghiacciaio supposto incontaminato (anche se la coda per arrivare sulla cima dell’Everest è sempre più affollata) o con le meravigliose onde del pacifico (fotografate con telecamere e droni sempre più sofisticati per i social). Insomma la natura è bella, ma lo è ancora di più quando la sera si torna in albergo e ci si collega, non con l’infosfera, ma grazie all’infosfera – alla propria rete di contatti digitali nelle loro sedi urbane.
Il male, ma solo in senso metaforico e narrativo, consiste nel reificare il livello relazionale (che non abbiamo visto essere semanticamente diafano) e nel credere che abbia una sua autonomia rispetto alla realtà vera: ovvero il luogo dove gli eventi, nel loro accadere sintesi di atto e potenza, si consumano (Ronchi 2017). Scambiare la finanza con l’economia, il virtuale con il reale, il formale con il causale, l’ambiente digitale con l’ambiente vero, è male nella misura in cui sostituisce la reificazione di una negazione (la relazione o la rappresentazione) con l’affermarsi positivo dell’esistenza (il reale). Il problema è che la nostra cultura, proprio per sottrarsi alla minaccia dell’ambiente, spesso concepito in chiave di alterità, ha corteggiato la possibilità di un ambiente virtuale che fosse rifugio dal concreto, interiorità o ambiente digitale che fosse. Non c’è speranza? Fortunatamente, come ho detto prima, le bolle speculative finiscono con lo scoppiare (quando il rapporto tra finzione e realtà diventa troppo piccolo) e l’ipertrofia dell’ambiente digitale (in gran parte dovuta alle nuove IA generative) ci riporterà, dopo una sbornia di contenuti sempre più insensati, al duro ma solido fondo roccioso dell’esistenza.
Bibliografia
Wheeler, J.A. (1986), New Techniques and Ideas in Quantum Measurement Theory, "Annals of the New York Academy of Sciences", 480 (1), pp. 304-316.
Huh, M., et al. (2024), The Platonic Representation Hypothesis,"arxiv", 2405.07987v1 (May).
Manzotti, R., Rossi S. (2023), IO & IA. Mente, cervello & GPT, Rubbettino.
Byrne, A., Manzotti, R. (2022), Hallucination and Its Objects, "The Philosophical Review", 131(3), pp. 327-359.
Zizek, S. (2021), Hegel in a wired brain, Bloomsbury.
Ronchi, R. (2017), Il canone minore, Feltrinelli.