Quando decidemmo di dedicare un numero di “Lisander” al politicamente corretto e alla cancel culture in redazione eravamo pienamente consapevoli della scivolosità del tema, ma anche dell’interesse che esso avrebbe suscitato, non fosse altro per il gran parlare che se ne fa e l’impatto che il fenomeno ha avuto sulla società americana, e non solo, di questi ultimi decenni. Quanto a me, accettando di scrivere un pezzo che desse un po’ il la al tema, non pensavo certo a una trattazione sistematica, della quale peraltro non sarei stato capace, quanto piuttosto a un tentativo di chiarire alcuni presupposti culturali che speravo sarebbero potuti servire a comprendere meglio il fenomeno e, soprattutto, ad animare la discussione. La ricchezza degli interventi che si sono succeduti mi induce a pensare che l’obiettivo sia stato pienamente raggiunto. Di qui la mia profonda gratitudine ai molti amici e colleghi che sono intervenuti. Grazie soprattutto a loro, credo che questo numero di “Lisander” possa essere considerato un punto di riferimento importante per chiunque sia interessato ad approfondire il significato culturale del politicamente corretto e della cancel culture.
A questo proposito, sono rimasto soprattutto colpito dalla preoccupazione, condivisa da pressoché tutti coloro che sono intervenuti, di trovarci di fronte a un fenomeno che intacca in profondità le radici culturali del nostro Occidente. Ci sono ovviamente accentuazioni diverse, cosa peraltro inevitabile viste le diverse posizioni ideali degli autori, ma nella sostanza, specialmente per quanto riguarda la cosiddetta cancel culture, tutti concordano sul fatto che essa voglia eliminare «i presupposti umanistici» (Cubeddu) e «universalistici» (Botturi) del «logos occidentale» (Capozzi). Detto in altre parole, sono lontani i tempi in cui si ironizzava giustamente sul fatto che lo spazzino si dovesse chiamare “operatore ecologico”, la donna delle pulizie “collaboratrice domestica”, il portatore di handicap “diversamente abile” e cose simili; sono lontani anche i tempi in cui diventava finalmente disdicevole apostrofare i neri o gli omosessuali nei modi volgari coi quali erano stati apostrofati per secoli. Il contributo di Sofia Ventura sottolinea giustamente questa istanza inclusiva del politicamente corretto delle origini. Oggi però, specialmente con l’arrivo dei social, questa istanza è andata ben oltre l’attenzione all’uso delle parole e alle molestie verbali, radicalizzandosi in forme sempre più illiberali, aggressive, pericolose, di fatto «antioccidentali» (sempre Ventura), quali sono le pratiche identitarie dell’ideologia woke e della cancel culture: una sorta di Pastorale americana, del tutto priva della bellezza dissolutiva del celebre romanzo di Philip Roth; una furia «iconoclasta», rispetto alla quale già Tocqueville aveva messo in guardia (Thermes), e che purtroppo non riguarda soltanto l’America.
Per dirla col titolo del contributo di Francesco Botturi, davvero siamo di fronte al tentativo di costruire «una nuova antropologia», i cui ingredienti fondamentali, molto sinteticamente, sono il «nominalismo», ossia la pretesa che cambiando nome si cambino anche i significati delle cose (Maddalena), il rifiuto del rispetto che si deve all’altro per il semplice fatto di essere uomini, quindi della consapevolezza dei limiti della nostra libertà (Santambrogio), una progressiva decostruzione della realtà, ridotta a puro «flusso», dove sembra che tutto dipenda dalla volontà individuale e invece tutto è sempre più sottomesso a istanze puramente sistemiche (Botturi), e infine l’affermarsi di pratiche censorie e punitive nei confronti di ciò che non rientra nei propri canoni di giudizio (vedi i dati presenti nel contributo di Kinspergher). Uno stile di pensiero, un emotivismo identitario, come l’ho definito nel mio contributo, che, nato verso la fine degli anni Settanta nella sinistra liberal americana, purtroppo, da almeno un decennio a questa parte (non dall’inizio come amichevolmente mi rimprovera di aver scritto Marco Bassani), ha finito per contagiare l’intera scena pubblica americana.
È successo insomma precisamente quanto paventato nel contributo di Raimondo Cubeddu: la cancel culture ha generato a destra, vedi Trump e il trumpismo, una «reazione altrettanto brutale», che tende a ostracizzare, boicottare ed emarginare coloro che sono ritenuti colpevoli di azioni o parole non gradite (Di Martino), contribuendo in questo modo alla sempre più preoccupante disgregazione di ciò che di comune esiste nel tessuto socio-politico e culturale della società americana. Se la cancel culture usa in tal senso tutto il ciarpame possibile in termini di fanatismo discriminatorio per quanto riguarda gender, minoranze etniche o d’altro tipo, Trump non esita a strizzare l’occhio ai fondamentalisti religiosi, a farsi fotografare con una Bibbia in mano, mentre infuria la rivolta antirazzista, o a far finta di niente per ore, mentre alcuni suoi scalmanati sostenitori danno letteralmente l’assalto al Campidoglio. Evidentemente in questo modo, con l’aiuto di Dio, si pensa di restituire all’America la grandezza di un tempo. Che dire poi del Governatore della Florida Ron De Santis che, in nome della guerra al wokeism, nomina un board per dire alla Disney che cosa può fare e che cosa no?
Senza voler per nulla sminuire la distruzione sistematica dei fondamenti della cultura occidentale che sul fronte di certa cultura liberal americana (ed europea) si va perpetrando da oltre quarant’anni e che vediamo manifestarsi oggi in modo assai preoccupante nei tratti della cancel culture, mi sembra insomma che una certa smania distruttiva stia diventando purtroppo trasversale, anche se in forme totalmente diverse. Auguriamoci dunque per davvero che in questo marasma nel quale siamo piombati possa riprendere vigore quel confronto «onesto, razionale e umile», di cui si parla nell’intervento della giovane Josephine Dufour, oppure, come dice Marco Bassani, ci salvi almeno il senso del ridicolo.