È frequente, nella storia socio-politica, che un potere egemone scelga la via della manipolazione del consenso come sua strategia e che questa passi attraverso processi di revisione del linguaggio, di politiche culturali cogenti, di riscritture autoritarie del passato che mirano a legittimare un cambiamento eversivo del presente in funzione di un futuro dato per sicuramente migliore. Il giacobinismo ha fatto di questo un coerente modello di teoria e di prassi, che ha trovato nei regimi totalitari novecenteschi (italo-tedeschi e russo-cinesi) uno sterminato campo di applicazione radicale.
Certamente, nulla di così sistematico si ritrova nelle politiche woke d’oltreoceano o nel clima europeo di generica ma costante intimidazione da parte di un fantomatico ma efficace “politicamente corretto”. Tuttavia, gli elementi tipici di cancellazione della memoria e di “correzione” censoria del pensiero e della cultura sembrano diventare costume senza che scatti una seria reazione in termini di libertà di coscienza e di vigilanza democratica. Evidentemente, non è la rivendicazione di diritti civili che, come tale, implica una diminuzione della libertà di discussione e una restrizione dello spazio del pluralismo culturale. Che cosa, allora, muove il fenomeno complessivo che sta pervadendo il cd mondo libero?
Sergio Belardinelli parla di “presupposti” che si concentrano in un diffuso e articolato soggettivismo e di una seria attenuazione del senso della verità entro un sistema dominato dalla rete informatica della comunicazione che non ha vincoli di realtà e di verità. Non c’è dubbio che queste siano premesse significative e anche determinanti, ma nell’insieme sembrano essere in gioco anche dei fattori sistemici portatori di una progettualità ampia e mirata. I contenuti del cosiddetto “pensiero unico” hanno un’evidente rilevanza antropologica. La posta in palio non sono solo alcune proposte culturali e legislative, bensì anche un cambiamento globale di criteri di giudizio, di mentalità, di pratiche sociopolitiche.
La cultura del politicamente corretto – come osserva Belardinelli − è caratterizzata da un marcato orientamento individualista, cioè da una considerazione degli uomini come individui privi di relazioni costitutive e indispensabili. Tutte le questioni identitarie che sono messe in campo dal pensiero unico (in ambito sessuale, affettivo, famigliare, educativo, ecc.) hanno una prospettiva soggettivista; meglio, sono espressione di un soggettivismo autoreferenziale, in cui l’identità umana è definita in base all’autopercezione soggettiva: mi definisco per ciò che mi sento essere e in base all’immagine che ho di me stesso. Siamo, cioè, in presenza non più dell’idea individualista classica (forte e progettuale), bensì di un individualismo in fase terminale; così impoverito da implodere in un’autoreferenzialità (a tendenza narcisista), nella quale i tratti dell’umano rischiano di dissolversi o di cui forse si cerca la dissoluzione.
La nuova cultura postmoderna (o meglio ipermoderna) è caratterizzata, perciò, da una crisi profonda dell’universalismo, a cui corrisponde necessariamente l’estremizzazione dell’individualismo e del particolarismo (la mia esperienza, la mia opinione, il mio benessere, le mie tradizioni, i miei diritti, il mio Dio …), a cui però viene attribuita la sorprendente possibilità di una nuova fase di progresso storico. Il pensiero libertario conduce in realtà alla decostruzione dell’antropologia occidentale; la logica dell’autoreferenzialità include un movimento a spirale di sistematica fluidificazione di tutte le strutture antropologiche.
La categoria ontologica primaria diventa, infatti, quella del “flusso”: la realtà, uomo compreso, non è costituita da enti dotati di una loro struttura stabile e normativa, ma da aggregati fluidi, impermanenti, senza finalità propria, senza origine di senso a cui commisurarsi; una sorta di riduzione della realtà alla sua dimensione quantica (flusso probabilistico di particelle). Di conseguenza, non si può più parlare di identità, ma piuttosto di singolarità impersonale, di intensità, di pura differenza, di pluralità anarchica dell’uomo e delle sue proprietà. Resta solo il caos dei flussi, biologici, pulsionali, esperienziali, massmediatici, finanziari, … − come peraltro sembra funzionare di fatto la società postmoderna −, entro cui quel che resta del soggetto umano funziona sulla base di voglie narcisiste e di strategie di potere. Si capisce da qui perché la sessualità, a motivo della sua intensità e variabilità, diventi l’ambito preferenziale di riferimento, mentre la famiglia (eterosessuale e generativa) costituisca un inevitabile obiettivo incompatibile, ostile e polemico, a motivo della sua logica interna, perfettamente contraria a quella dell’individualismo autoreferenziale.
Che cosa muove, allora, il poderoso e superorganizzato tentativo di far prevalere nel senso comune, nella cultura, nelle istituzioni l’insieme di convincimenti e di provvedimenti che riguardano la vita biologica (inizio-fine vita), l’identità sessuale (gender fluid), le pratiche riadattate di relazione sociale (matrimonio, famiglia, educazione, ecc.)?
Tutti temi che concorrono a delineare un’intera antropologia a partire dalla sua base biologica e a riconfigurare il mondo dei valori e quello del diritto. In breve, temi che interpretano interamente la cultura e la gestione del bene pubblico in termini “bio-politici”; un’operazione in grande stile che a partire dall’area euroatlantica cerca di espandersi all’intero mondo globalizzato. A quale scopo? A capo di questa strategia sta – a mio avviso − un’interpretazione militante del nostro tempo, secondo la quale il capitalismo globale, la sua dimensione neotecnica e la sua cultura “biopolitica” appaiono i dispositivi all’avanguardia capaci di gestire al meglio l’intero processo di “cambiamento d’epoca” in cui siamo coinvolti, cioè la trasformazione della faccia della terra su base tecno-scientifica. L’infosfera, le manipolazioni della biosfera, la tecno-sfera delle nuove forme del lavoro e della sua organizzazione, la nuova funzione connettiva del potere finanziario, la complessiva riorganizzazione geopolitica dei poteri e i loro sempre più preoccupanti conflitti egemonici stanno cambiando sia le strutture fondamentali dell’ordine mondiale, sia le coordinate dell’esperienza sociale e culturale.
Entro questo contesto – senza fantasie distopiche – è legittimo vedere all’opera élites intellettuali, politiche, mediatiche, una sorta di aristocrazia tecnocratica, che, anche attraverso l’appoggio di grandi strutture pubbliche europee o mondiali, si incarica di “correggere” le visioni tradizionali per indirizzarle in modo uniforme ed esclusivo verso un progetto “politico” ritenuto adeguato alle nuove condizioni storiche; gruppi di potere che lavorano sistematicamente sul senso comune per adeguarlo al funzionamento del mondo nuovo, creando un consenso da trasformare progressivamente in un neopensiero e un neolinguaggio conformisti, prescrittivi e proscrittivi. In parallelo, con gli opportuni riconoscimenti giuridici, si opera per dare al nuovo universo noetico e linguistico anche un’indispensabile formalità normativa, attraverso la costellazione dei cd “nuovi diritti” civili in funzione di una nuova cittadinanza nel mondo tecno-capitalista globalizzato.
Il pensiero a senso unico, dunque, non è il fenomeno di uno spontaneo conformismo sociale nel contesto di una condizione di obiettivo cambiamento strutturale e globale, ma è – più probabilmente – la risultante in fieri di poteri culturali, economici, politici, mediatici, convintamente interessati a far esistere una neo-società a regime democratico-autoritario su base tecnocratica.