Cancel culture, il volto iconoclasta del conformismo di massa. Eppure Tocqueville…
di Diana Thermes (Università Roma Tre)
Eppure Tocqueville aveva avvertito dei pericoli derivanti dal conformismo di massa, humus culturale del dispotismo intellettuale della maggioranza in una società democratica. Premesso che in una democrazia, espressione politica dell’uguaglianza sociale (sul modello americano anticipatore dei prossimi modelli europei), la sovranità assoluta del popolo di fatto si risolve nel potere assoluto della maggioranza, ovvero del più gran numero, è da questa che scaturiscono gli attacchi all’indipendenza individuale.
Tocqueville aveva denunciato compiutamente la tirannia della maggioranza: «Quando un uomo o un partito subisce un’ingiustizia, a chi volete che si rivolga? al corpo legislativo? Esso rappresenta la maggioranza e le obbedisce ciecamente; al potere esecutivo? ma è nominato dalla maggioranza e la serve come uno strumento passivo; alla forza pubblica? La forza pubblica non è altro che la maggioranza sotto le armi; alla giuria? La giuria è la maggioranza investita del diritto di pronunciare le sentenze: i giudici stessi, in certi Stati, sono eletti dalla maggioranza». Non resterebbe altro che l’appello al pubblico. Ma «è l’opinione pubblica che forma la maggioranza» (Tocqueville 1981, p. 299). Alla tirannia della maggioranza non c’è dunque che la sottomissione. Tale è il sistema democratico, con i suoi beni e i suoi mali. Di qui la necessità di individuare dei rimedi ai mali endogeni della democrazia.
Non è facile stabilire se per Tocqueville fosse più grave il dispotismo politico della maggioranza, il dispotismo amministrativo dell’État-providence o il dispotismo intellettuale della maggioranza per la ricaduta sulla libertà e dignità individuali, per cui nutre una vera passione e di cui è strenuo difensore. Certo è che alla terza forma di tirannia non c’è scampo, dato che i rimedi da lui indicati per la prima e per la seconda – libertà locali, associazioni, religione – non sono pertinenti.
La descrizione del potere che in America la maggioranza esercita sul pensiero è di straordinaria attualità. Quando la maggioranza si è «irrevocabilmente fissata su una questione», non ammette discussione e impone la propria verità con lo spettro della morte sociale che rende la vita invivibile: «La maggioranza traccia un cerchio formidabile intorno al pensiero. Nell’ambito di questi limiti, lo scrittore è libero; ma guai a lui se osa uscirne. Non ha da temere un auto-da-fè, ma è esposto ad avversioni di ogni genere e a persecuzioni quotidiane. La carriera politica gli è preclusa. Gli si rifiuta tutto, perfino la gloria. Prima di rendere pubbliche le sue opinioni, credeva di avere dei partigiani; gli sembra di non averne più, poiché coloro che la pensano come lui, senza avere il suo coraggio, tacciono e si allontanano. La tirannide [intellettuale] trascura il corpo e va dritta all’anima. Il padrone non dice più: tu penserai come me o morirai; dice: sei libero di non pensare come me; la tua vita, i tuoi beni, tutto ti resta; ma da questo giorno tu sei uno straniero tra noi. Conserverai i tuoi privilegi di cittadinanza, ma essi diverranno inutili, poiché quando ti avvicinerai ai tuoi simili, essi ti fuggiranno come un essere impuro; e, anche quelli che credono alla tua innocenza, ti abbandoneranno, poiché li si sfuggirebbe a loro volta. Va in pace, io ti lascio la vita, ma ti lascio una vita che è peggiore della morte» (Ibidem, pp. 302-303).
Vuoi per codardia, vuoi per opportunismo è “d’obbligo” per il singolo individuo come per la minoranza sottomettersi e conformarsi alla verità della maggioranza. È l’effetto di quel meccanismo sociale che negli anni Settanta del secolo scorso Elisabeth Noelle-Neumann ha chiamato “la spirale del silenzio”, sorretta e potenziata dal potere persuasivo dei mezzi di comunicazione di massa – allora la televisione, oggi internet e social media.
Ma Tocqueville non si fermava qui. Con maggiore acume individuava un motivo recondito del successo del dispotismo intellettuale della maggioranza: la tendenza all’asservimento volontario dell’uomo democratico-egualitario che potenzia l’imposizione dall’alto con il favore dal basso, la stessa che potenzia il dispotismo di nuova specie dell’amministrazione pubblica, assecondando il processo di centralizzazione suo proprio.
E descriveva la massa democratica come «una folla innumerevole di uomini simili ed uguali» (Ibidem, p. 812), ripiegati su se stessi e isolati l’uno dall’altro – anticipando in qualche modo la sindrome della “folla solitaria” di David Riesman di ieri e quelle odierne della “solitudine del cittadino globale” di Zygmunt Bauman, della “solitudine del social networker” di Carlo Mazzucchelli, o dello “stare insieme ma soli” di Sherry Turkle, tanto per citarne alcune.
Ora, è giocoforza che l’uomo-massa democratico-egualitario, sia insicuro e cerchi riparo nella maggioranza tributandole infallibilità, per poi trovarvi rassicurazione al prezzo della sua libertà: «In tempi d’uguaglianza, gli uomini non hanno fede gli uni negli altri per via della loro somiglianza; questa stessa somiglianza però, dà loro una fiducia pressocché illimitata nel giudizio del pubblico, giacché non è verosimile che, godendo tutti delle medesime conoscenze, la verità non stia dalla parte del numero maggiore» (Ibidem, p. 498).
Ma ben caro è il prezzo dell’usbergo. È la perdita forzosa della libertà intellettuale e spirituale, perché «la maggioranza non fa valere le proprie opinioni attraverso la persuasione, ma le impone e le fa penetrare negli animi attraverso una specie di gigantesca pressione dello spirito di tutti sull’intelligenza di ciascuno» (Ibidem). Non solo. È anche la perdita della libertà di scelta e di azione relativa alla propria esistenza, poiché è la maggioranza che seleziona i piaceri e indica la via della felicità (Ibidem, p. 812). È infine la perdita della propria individualità nel conformismo di massa, già insito negli uomini «simili ed uguali», ovvero conformi, della società democratica e indotto peraltro dallo spirito di gregge insito nell’uomo, come vogliono più pensatori di diverse discipline (da Nietzsche in filosofia a Robert Merton in finanza, a Everett Dean Martin in psicologia sociale, ecc.).
E conformismo e gregarismo sono inevitabilmente facile preda di quello che Belardinelli chiama «emotivismo identitario» sulla scia dell’«emotivismo morale» di Alasdair MacIntyre, che oggi affetta anche la minoranza, che per difendersi dalla maggioranza ricorre ai suoi stessi strumenti di imposizione imperiosa e cade nei suoi stessi sentimenti di rabbia, odio, paura, disprezzo. Sì che, come sottolinea Belardinelli, «l’hate speech della destra nelle sue diverse declinazioni della politica pop del web» è speculare al «parallelo hate speech della ‘sinistra di Twitter’».
L’imperare odierno di questa “cultura della violenza iconoclasta” dell’ultima versione della New Left, che è andata radicalizzando il politically correct della fine degli anni Settanta del secolo scorso, diffondendosi dagli Stati Uniti in Europa con diversa incidenza tra Paese e Paese, confermerebbe il verificarsi del timore di Tocqueville per la regressione “animalesca” dell’uomo democratico per la perdita dell’uso del libero arbitrio: esso perderà poco alla volta la facoltà di pensare, di sentire e di agire da solo e, avverte, cadrà gradualmente «al di sotto del livello umano» (Ibidem, p. 814).
Ma sulle prime, nonostante il grande successo della Democrazia in America (1835-1840), l’allarme lanciato da Tocqueville a proposito dei rovinosi esiti del conformismo di massa fu raccolto solo da John Stuart Mill e restò inascoltato fin a quando il tocquevilliano Castoriadis (1989) non ha coniato la locuzione “conformismo generalizzato” per indicare la cifra dell’epoca attuale – dato che gli studi sul tema che si sono accumulati a partire dai pioneristici Le leggi dell’imitazione (1890) di Tarde e Psicologia delle folle (1985) di Le Bon, come Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921) di Freud, La ribellione delle masse (1929) di Ortega y Gasset, La personalità autoritaria (1950) di Adorno, Massa e potere (1960) di Canetti Apocalittici e integrati (1964) di Eco, La cultura del narcisismo (1979) di Lasch, Psicologia sociale (1984) di Moscovici, ecc., non sono d’ispirazione tocquevilliana.
L’ammirazione di Mill per Tocqueville non si concretizzò solo nelle vivide recensioni della Democrazia in America, ma si tradusse anche in ispirazione per il suo La libertà (1859). Vi si legge che il dispotismo sociale della maggioranza è ancora più temibile del dispotismo politico perché, pur senza ricorrere a sanzioni legali, «penetra molto più in profondità nelle minute circostanze della vita umana e riduce in schiavitù l’anima stessa», imponendo come regole di condotta le proprie idee e i propri sentimenti, ostacolando lo sviluppo e impedendo la formazione di «qualsiasi individualità che discordi dal proprio modo di essere, per costringere tutti i tipi di carattere a ricalcare il proprio modello» (Mill 2004, p. 68). Lamentando che «oggi gli individui si perdono nella folla» e che «l’unico potere degno di questo nome è quello delle masse, e non solo nelle transazioni pubbliche, ma anche nei rapporti morali e sociali della vita privata» (Ibidem, p. 155). A questo dispotismo contrapponeva i valori dell’individualità come «uno degli elementi essenziali al benessere umano» (Ibidem, p. 142) e della libertà come «sola fonte inesauribile e costante di progresso» (Ibidem, p. 161).
E, acquisita per certa la libertà di stampa, rivendicava, contro ogni censura e contro ogni intolleranza, la libertà di pensiero e di espressione. Al punto da sostenere che l’intera umanità non ha maggiore giustificazione di mettere a tacere l’opinione opposta di un’unica persona di quanta non ne abbia quell’unica persona di mettere a tacere l’opinione dell’intera umanità (Ibidem, pp. 84-85). Perché tutte le opinioni, le vere, le false, le vere a metà, sono tutte utili al raggiungimento della verità in un contesto di dialogo e confronto. Infatti l’uomo non è infallibile e non esistono né verità assolute né certezze assolute, salvo che nella matematica, così che in qualsiasi materia in cui sia possibile una divergenza di opinioni, «la verità dipende da un bilancio finale fra due serie di ragioni contrastanti» (Ibidem, p. 112) – e qui tornano in mente le parole di Belardinelli quando propone il dialogo come antidoto della cancel culture: «È precisamente la coscienza della parzialità dei nostri discorsi a richiedere disponibilità al dialogo, alla comprensione reciproca, alla tolleranza nella speranza che questa disponibilità ci avvicini ancora di più alla verità».
In alcune pagine di Sulla libertà di Mill tornano in mente invece le parole di Milton quando nell’Areopagitica (1644) perorava la causa della libertà di stampa di fronte al Lungo Parlamento durante la Rivoluzione inglese, argomentando l’utilità di ogni opinione, anche falsa, ai fini del raggiungimento della verità, e la necessità della libera discussione. Le parole di Mill: «Ridurre al silenzio l’espressione di un’opinione è un male particolare, perché deruba la specie umana: deruba chi dissente ancor più di coloro che la condividono. Se l’opinione è giusta, li si priva dell’occasione di scambiare l’errore con la verità; se è sbagliata, perdono quell’impronta più viva della verità, che abbiamo quando ci si scontra con l’errore» (Ibidem, p. 85). E: «Abolire la libera discussione quando le opinioni sono vere è un male [perché] quando manca la discussione, non solo si dimenticano i fondamenti delle opinioni ma, troppo spesso, anche il significato stesso di un’opinione [e] al posto di un concetto lucido, di una convinzione viva, restano solo un po’ di frasi meccanicamente ripetute a memoria; la sua essenza intima si è persa, [è diventata] un dogma che ha perso per sempre la sua efficacia» (Ibidem, pp. 116-117 e 136).
Le parole di Milton: «Tutte le opinioni, gli errori persino, conosciuti, studiati e collazionati, sono di utilità e aiuto essenziali al conseguimento di ciò che è più vero, [perché] la verità è una fontana che scorre: se le sue acque non fluiscono in perpetua continuità, imputridiscono in uno stagno melmoso di conformismo e tradizione» (Milton 2002, p. 27 e p. 63). E: «Dio lasciò a nostro arbitrio il nutrimento delle menti, così che ogni uomo maturo potesse esercitare la propria capacità di scelta, [e pertanto] prima di ogni altra libertà datemi la libertà di conoscere, di esprimermi, e di discutere liberamente secondo coscienza» (Ibidem, p. 27 e p. 83).
Non immaginavano, né Milton né Mill, che il loro scambio di opinioni si prestava ad essere interpretato come “il mercato delle idee” in analogia al “mercato dei beni” (Holmes 1919; Coase 1974), dove il confronto tra le merci fa emergere le migliori per prezzo e qualità così come la libera discussione fa emergere le opinioni più “vere”.
Al dialogo necessitano tre cose: la ragione critica, la veridicità, il linguaggio. Ma oggi la ragione critica è schiacciata dal dispotismo della maggioranza, dal conformismo di massa e dall’emotività, per non dire della “neolingua” digitale, dal lessico isterilito, sincopato e simbolizzato. La veridicità è sfidata dalla post-verità, dalle fake news, dal deep fake e dal metaverso. Il linguaggio, già limitato, depauperato e distorto dal politically correct nella sua componente lessicale, è aggredito nelle sue altre componenti, le visive (simboli, segni, gesti, atteggiamenti, rappresentazioni, forme artistiche) e le intellettuali (scritture, narrazioni), dalla furia iconoclasta della cancel culture, che, non paga della purificazione della civiltà occidentale, vorrebbe, nelle sue frange estreme, abbatterla del tutto per costruire sulle sue macerie la Città di Dio, disinteressandosi delle Città degli uomini che popolano il resto del mondo.
Ne va dunque della sopravvivenza della civiltà occidentale con tutti i suoi valori, tra cui la libertà di pensiero, parola e azione, conquistata nel corso della storia con “lacrime e sangue”, e che ora le viene impugnata contro. È la “guerra all’Occidente” denunciata da Douglas Murray (2022), che al momento provoca solo la sua “deriva” segnalata da Franco Cardini (2023), ma non per attacco esterno, bensì per auto-distruzione. È un “suicidio”, come dice Federico Rampini (2021).
Ma ne va anche del futuro dell’uomo, che senza linguaggio non ha pensiero e senza pensiero non è più un uomo. Il fenomeno, oggi suffragato da studi neurologici e cognitivisti, era stato ben illustrato da Orwell in 1984 (1949), una distopia totalitaria globale che nella parte di mondo occidentale chiamata Oceania era governata dal Grande Fratello con uno strumento più raffinato ed efficace della propaganda, dell’odio, del controllo, della paura, della tortura e della vaporizzazione esiziale: la neolingua – un inglese contratto e aggregato, ridotto a un numero sempre più esiguo di parole, le sole conformi alla Verità di Partito, stravolte dal loro significato originario, costruito al fine di «diminuire le possibilità del pensiero», dato che «il pensiero dipende dalle parole con cui è suscettibile di essere espresso» (Orwell 1989, pp. 315-316).
Contro la morte dell’uomo per estraniamento umano da imposta massificazione si era già levata Ayn Rand nella sua distopia totalitaria, Antifona (1938), con cui esortava i suoi contemporanei a non cadere nella trappola del dispotismo del collettivismo e a recuperare la propria individualità. Come esclama finalmente Prometeo, l’eroico protagonista ormai affrancatosi grazie alla scoperta della parola proibita “Io”: «Io sono. Io penso. Io voglio» (Rand 2018, p. 87). L’uomo è un essere razionale, che pensa e fa le scelte che ritiene necessarie alla sua sopravvivenza di essere umano: «Pensare vuol dire scegliere» (Rand 2016, III, p. 342). Ma tra le tante scelte possibili, come dice John Galt, l’eroico personaggio dell’altra sua distopia, La rivolta di Atlante (1957), «ha un’unica scelta base: pensare o non pensare» (Ibidem 2016, III, p. 394), ovvero essere un uomo o un robot (Ibidem, p. 443): «Ognuno ha la facoltà di scelta, ma non il potere di sfuggire alla necessità di scegliere. Se abdica al suo potere, abdica al suo stato di uomo» (p. 104).
Alla fine del Cinquecento, in un mondo sconvolto dalle guerre di religione e destabilizzata dalla scoperta di civiltà altre, un uomo decise di separarsi dal “peuple” – la massa non pensante e conformista – e di ritirarsi nel suo castello a pensare con giudizio critico in compagnia di Socrate, Seneca e Sesto Empirico, spinto dalla necessità di ritrovare, se mai possibile, una qualche verità sepolta sotto la stratificazione di consuetudini, false opinioni, credenze errate, idee condivise passivamente. Il suo nome era Michel de Montaigne. Iniziò il suo percorso di riscatto intellettuale partendo da se stesso, quale modello dell’uomo in sé – il suo motto ispiratore era il precetto delfico nosce te ipsum. Aveva trovato il coraggio di cercare la sua propria individualità.
Da qui si dovrebbe ripartire per fronteggiare le sfide della cancel culture: potenziare l’apprendimento della cultura umanistica per saper ascoltare la voce dei maestri della civiltà occidentale.
Bibliografia
Bauman, Z. (2014), La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano.
Cardini, F. (2023), La deriva dell’Occidente, Laterza, Roma-Bari.
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Coase, R. (1974), Market for Goods and Market for Ideas, in “American Economic Review”.
Holmes Jr., O.W. (1919), Abrams vs. United States.
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Rampini, F. (2021), Suicidio occidentale. Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori, Mondadori, Milano.
Rand, A. (2016), La rivolta di Atlante, 3 voll., Corbaccio, Milano.
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Riesman, D. (2009), La folla solitaria, Il Mulino, Bologna.
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