Azzardo ad aggiungere una riflessione al pregiatissimo articolo di Sergio Belardinelli dell’11 dicembre su Lisander. Quando usiamo il termine “politicamente corretto”, è corretto per chi? O a fronte di cosa? E pur avendo chiaro il riferimento, in base a quale criterio si afferma che un’entità o un’azione è corretta?
«L'espressione political correctness – si legge sul Cambridge Dictionary – designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di estrema attenzione al rispetto formale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone». Essa appare per la prima volta nel vocabolario marxista, subito dopo la Rivoluzione d’Ottobre, per indicare la stretta aderenza alla linea ideologica del partito. Un buon cittadino era colui che “correttamente” adottava i principi della parte politica. Successivamente, negli Stati Uniti degli anni Cinquanta e Sessanta, venne usato in termini dispregiativi nel dibattito tra comunisti e socialisti implicando un’accusa di eccessivo dogmatismo.
«Il termine "politicamente corretto" – ha affermato Herbert Kohl – è stato usato in modo sprezzante, per riferirsi a qualcuno la cui lealtà alla linea del Partito Comunista ha prevalso sulla compassione e ha portato a una cattiva politica. Era usato dai socialisti contro i comunisti e aveva lo scopo di separare i socialisti che credevano in idee morali egualitarie dai comunisti dogmatici che avrebbero sostenuto e difeso le posizioni del partito indipendentemente dalla loro sostanza morale». Negli anni Settanta, la Nuova Sinistra americana cominciò ad usare il termine in senso auto-ironico, o auto-critico, come strumento contro gli eccessi della propria ortodossia nelle rivendicazioni sociali sostenute. In un periodo in cui si formavano numerosi movimenti per la rivendicazione dei diritti e delle libertà, il “politicamente corretto” indicava un’estremizzazione.
Dal 1991 in poi il termine è stato usato sia dalla destra che dalla sinistra, per accusare l’altro di censura verso temi non graditi trattati dalla parte opposta. Ad esempio, se una parte attacca il pregiudizio razzista della parte avversaria, questa, accusandola di non essere “politicamente corretta” nell’uso di certi termini, ritenuti offensivi, ne strozza il tono crudo della denuncia. Quindi, quasi paradossalmente, il termine “correttezza” non è sintomo di univocità e di chiarezza in quanto dipende dal contesto in cui viene usato e dal tipo di ascoltatore. Per queste relatività il politically correct è aspramente criticato in quanto non è scevro di considerazioni di ordine morale: comunque la si metta, ci sono sempre un giudicante e un giudicato.
Uno degli esiti del politicamente corretto è l’opera di “correzione” che la parte, ritenutasi offesa da un linguaggio politicamente scorretto, attua attraverso ciò che è stato battezzato call-out culture o cancel culture. La cancel culture (cultura della cancellazione) è una definizione nata negli ultimi dieci anni usata per riferirsi a quel comportamento che ostracizza, boicotta ed emargina coloro che sono ritenuti colpevoli di azioni o parole non gradite (ovviamente dalla parte che decide poi di “cancellare” il soggetto imputato, sia esso una celebrità, un professionista o un politico).
Il politicamente scorretto, se non “corretto” da sé o dagli altri, rischia di essere “cancellato”, con tutto il biasimo reputazionale che i media attuali permettono. Provocatoriamente potremmo affermare che se si è corretti, sperando di aver colto il giusto riferimento contestuale del termine, rischiamo di essere accusati di ammorbidire le posizioni contrastanti con fine censorio. Se invece decidessimo di essere scorretti, per voler ben sottolineare alcuni aspetti del discorso, rischiamo di essere cancellati e banditi dal dibattito. A questo punto, qual è la correttezza corretta?
Interessante, a tal fine, la voce nella francese Encyclopédie des jurons (2006), la quale definisce il politicamente corretto come un fenomeno socio-linguistico assimilandolo alla ben più antica politesse, che potremmo tradurre con la parola “cortesia”. Ma quando un atteggiamento “cortese” è piaggeria e quando diplomazia? Nel primo caso, sempre i francesi, hanno trasformato la politesse in langue de bois, “la lingua di legno”, detta ironicamente anche xyloglossie, per definire un linguaggio finto, incantatorio, che non fornisce alcuna informazione utile.
In conclusione, l’aggettivo “corretto” non solo fa riferimento al soggetto giudicante, ma anche al contesto sociale e antropologico dell’azione o dell’oggetto giudicato. In altri termini, non solo assume le caratteristiche della soggettività tipica della δόξα (doxa) per la quale la conoscenza basata sulle opinioni non possiede la certezza obiettiva della verità, ma rischia anche di essere contradditorio laddove, inconsapevolmente o meno, la forma prevale sulla sostanza. Meglio dunque usare altri termini.