Le parole fanno male, sono violenza, violenza fisica. E proprio come la violenza fisica è stata limitata, anche il linguaggio dovrà essere limitato. In fin dei conti gli uomini sono fragili e vanno quindi protetti con le leggi. Alla radice del politicamente corretto, oltre a quelli già toccati negli articoli precedenti, noto questo ragionamento. Le lezioni classiche, liberal-democratiche sulla libertà di espressione (vedasi John Stuart Mill e Ronald Dworkin) sono essenzialmente dimenticate e sostituite da un post-strutturalismo per cui non valgono solo i fatti oggettivi (siamo tutti uguali davanti alla legge), ma quelli soggettivi (c’è qualcuno che è più avvantaggiato davanti alla legge in base al gruppo a cui culturalmente o socialmente appartiene).
Negli Stati Uniti, in cui ho voluto venire a studiare, la libertà di espressione è assicurata dal Primo Emendamento della Costituzione. Fino a un paio di decenni fa, la questione era molto chiara: libertà di espressione per tutti. Da qualche tempo, invece, il Primo Emendamento viene visto in conflitto con il Quattordicesimo Emendamento. Il Primo assicura libertà di espressione e di stampa, culto, e di assemblea. Il Quattordicesimo assicura che tutti i cittadini americani sono «protetti ugualmente dalle leggi» – il famoso Emendamento invocato in “Brown vs. Board of Education”, sulla segregazione razziale nelle scuole. La narrazione dominante è quella quindi di una tensione fra “libertà” di parola (Emendamento 1) e “uguaglianza” (Emendamento 14).
Il discorso dei post-strutturalisti si fonda sul concetto di “potere”, come già sottolineava il Prof. Sergio Belardinelli. Se da una parte ci sono le minoranze oppresse e dall’altra i suprematisti bianchi, alla fine più libertà si traduce in più disuguaglianza. Consentire la libertà di parola a tutti significa solo dare alle persone con più mezzi (e quindi più potenti, secondo i post-strutturalisti) la giustificazione per silenziare quelle con meno mezzi (meno potenti). Adottare una politica “neutrale” produce inevitabilmente vincitori e perdenti. I vincitori sono coloro che possono effettivamente godere della libertà di parola, i perdenti sono coloro che vengono silenziati dalla libertà di parola goduta dai più potenti; come dice McKinnon, la libertà di alcune persone fa male all'uguaglianza di altre persone. Addirittura, più libertà di espressione aumenterebbe la differenza di potere tra i gruppi che compongono la società. Infatti, per i progressisti, la via d’uscita da questo dilemma (Primo vs. Quattordicesimo Emendamento) è dimostrare che la libertà di parola silenzia certi gruppi di persone. Gli insulti non contribuiscono alla scoperta della verità o alla preparazione di un dialogo costruttivo, per cui sono dannosi e costituiscono un danno sociale.
Venendo alla discussione più concreta su come vengono gestite le limitazioni di libertà d’espressione nei campus, il tema del potere, di minoranze vs. maggioranze, e dell’inclusività, sono quelli più utilizzati per silenziare alcuni speaker, annullare conferenze e controllare meticolosamente chi andrà a parlare e su cosa. I report di FIRE (Foundation for Individual Rights and Expression) mettono i brividi. Fondata nel 1999, un anno dopo la pubblicazione del libro The Shadow University: The Betrayal of Liberty on America’s Campuses, gli autori del libro hanno cominciato a ricevere tantissime segnalazioni da studenti e professori delle politiche illiberali e di “double standards” adottate dalle amministrazioni dei campus. FIRE difende oggi la libertà di espressione nei campus iniziando procedimenti giudiziari contro il governo americano e contro le università ogni volta che viene violato il Primo Emendamento.
Il motivo principale per cui questa fondazione è diventata assai nota negli Stati Uniti – al punto che i suoi report sono stati citati dai giudici durante gli “hearings” contro MIT, UPenn (University of Pennsylvania) e Harvard, in merito alla questione delle manifestazioni pro-Hamas degli scorsi mesi – è la classifica annuale dei college in base alla libertà di espressione, chiamato “College free speech ranking”, e altri sondaggi condotti nei campus attinenti alla libertà di espressione. Per quanto riguarda questi ultimi, ci sono alcuni dati più preoccupanti di altri. Ad esempio, secondo le stime del 2024, il 49% degli studenti ha difficoltà a parlare in università di temi scottanti come aborto, “gun control”, “racial inequality”, e “transgender rights”. Il 27% degli studenti dice, invece, che usare la violenza per interrompere un evento nel campus è accettabile – il cosiddetto “deplatforming”, ossia il boicottaggio di eventi che si propongono di dar voce a particolari idee e informazioni.
Se per gli eventi si tratta solo di più di 1 su 4, più della metà (63%) dice che è accettabile silenziare uno speaker, sia esso un relatore a un evento o uno studente o un professore, in modo che non abbia la possibilità di parlare in campus – il cosiddetto “shout down”. E ancora, più della metà di studenti e professori (56%) ha paura che la propria reputazione venga danneggiata per ciò che hanno fatto o detto in università.
Per quanto riguarda i ranking, è bizzarro vedere come alcune tra le università più note (Ivy League) e da cui ci si aspetta rigore dal punto di vista della ricerca ma anche (assoluta) libertà accademica, in modo che ci sia un confronto di idee libero dai dogmi dominanti che sono ostacolo per l’innovazione, si classifichino in fondo. Su 248 università e college, tra le ultime otto troviamo il Darthmouth College (una piccola Ivy League situata in New Hampshire) che si classifica al 240° posto su 248, la Georgetown University (l’università più nota di Washington DC) che si classifica 245°. Penultima è la University of Pennsylvania (sesta università migliore degli Stati Uniti, e da non confondere con Penn State University), e ultima Harvard 248° su 248.
In cima alla classifica troviamo invece università che in Europa sono meno note. Al primo posto la Michigan Technological University, al secondo Auburn University situata in Alabama, al terzo posto la University of New Hampshire, all’ottavo posto la già più nota George Mason University (GMU), nota per essere un’università pubblica il cui dipartimento di economia è di inclinazione libertaria. La posizione delle università dipende dalle politiche di libertà di parola che si trovano tipicamente nella “carta” di ogni scuola, e dal numero dei casi giuridici iniziati da studenti e professori contro quella scuola ogni volta la libertà di espressione viene infranta.
Un tratto comune, ma non sufficiente, che caratterizza quali sono le università che proteggono e valorizzano la libertà di espressione, è l’adozione della “Chicago Statement of Academic Freedom” che fu scritta dalla University of Chicago nel 2014 proprio per far fronte ai primi segni di limitazione di libertà di espressione nei campus. L’adozione della Chicago Statement (o di “statements” molto simili) da parte di una università è un segnale chiaro, di chi valorizza e protegge la libertà di espressione. Seppur questa sia stata adottata da università molto note, non assicura un posizionamento più alto nella classifica sulla libertà di espressione. Ad esempio, tra le più note è stata adottata da Princeton e Columbia, che si classificano rispettivamente 187 su 248 e 214 su 248.
Una questione che viene fatta notare è la differenza di ranking tra università cosiddette pubbliche (le cosiddette “State University” o “University of”, come la Oregon State University che occupa il quarto posto su 248, e la University of Virginia che si piazza sesta) e private. Le università pubbliche sono tenute, almeno sulla carta, a rispettare il Primo Emendamento (quello sulla libertà di espressione), mentre le università private non sono legalmente soggette al Primo Emendamento. Questo mi è stato però smentito da alcuni attivisti di FIRE i quali non trovano questa correlazione determinante. Il fattore chiave, secondo loro, sta nella composizione ideologica di studenti e professori in ogni università. Le università che si classificano ultime sono le più propense ad ammettere nei campus speakers progressisti seppure altamente controversi, radicali, estremi, mentre sono prontissimi a non ammettere speakers conservatori, seppur moderati – il famoso “double standard” o “selective free speech”: «Students from schools in the bottom five were more biased toward allowing controversial liberal speakers on campus over conservative ones and were more accepting of students using disruptive and violent forms of protest to stop a campus speech».
Ho aspettato la fine di questo breve articolo per parlare della mia esperienza. Volevo prima riportare i dati oggettivi per non influenzare il giudizio di chi potrebbe leggere. Come ogni esperienza, la mia è soggettiva e forse per questo meno interessante. Mi trovo a studiare in North Carolina, alla Duke University che si piazza 124° su 248 nei ranking di FIRE ed è la settima università migliore negli Stati Uniti secondo US News. Per essere 124° chissà cosa ci si deve aspettare! Personalmente non ho mai avuto nessun problema con professori, studenti e amministrazioni quando (sempre) ho espresso idee controverse, più conservatrici del mainstream, più libertarie. Studiando “Political Theory” qui, nella maggior parte delle lezioni si finisce a parlare di valori, società, minoranze, oppressione, e il dibattito è sempre molto aperto. Non mi è mai capitato agli esami o durante le lezioni di sentirmi penalizzata per le posizioni che sostengo nello scritto e nel parlato. Al contrario, mi sono sempre sentita valorizzata proprio perché ho un punto di vista differente. Finché un ragionamento è accademicamente rigoroso e fondato, non è necessario che sia ideologico o ideologizzato.
Come dice un mio professore, molto di quello che si racconta sul free speech o sui movimenti woke sono “overblown”, esagerati. Certo, ci sono i “DEI training” obbligatori, quelli “anti-harassment”, cose che in Italia non ci si sognerebbe, credo, e in generale c’è più attenzione alle parole che si usano, ma non c’è un regime di polizia da parte di studenti, colleghi, o professori. Perlomeno, non è sicuramente la norma. Non voglio minimizzare la questione: è davanti agli occhi di tutti quanto sia preoccupante. Mi limito a dire che nei fatti, dall’altra parte dell’Oceano, non è la situazione Orwelliana che ci si potrebbe aspettare.
Risorse utilizzate
Chicago Statement of Academic Freedom, https://provost.uchicago.edu/sites/default/files/documents/reports/FOECommitteeReport.pdf
FIRE website (rankings and surveys), https://www.thefire.org