Politicamente corretto e cancel culture: due entità distinte
di Sofia Ventura (Università di Bologna)
Il tema della cancel culture, nell’articolo di Sergio Belardinelli, è proposto, almeno a noi pare, come una estremizzazione della pratica del politicamente corretto. Tuttavia, non si può non osservare come molti aspetti di un linguaggio politicamente corretto, senza per forza cadere nei fondamentalismi, ad esempio quello grottesco e inservibile delle schwa, siano entrati nel sentire comune e così facendo abbiano mostrato come essere più rispettosi verso chi è diverso dalla maggioranza è possibile. Per il bene di tutti e della convivenza sociale. Tuttavia, la realtà della cancel culture a noi appare altro dal politicamente corretto, che si tratti di linguaggio o di dare spazio nella vita pubblica e nella sua rappresentazione alle minoranze, oltre che di riconoscere che metà della popolazione è composta da donne.
La cancel culture non necessariamente è in continuità con un atteggiamento, anche esasperato, di attenzione verso le minoranze e le diversità, ma costituisce un’ideologia vera e propria, indifferente alla realtà e ancorata ai propri assiomi. Essa mira a decostruire e ricostruire l’Occidente secondo quegli assiomi, maturati a fronte del fallimento del pensiero marxista, in un tentativo di sostituirlo o rivitalizzarlo, in un humus di avversione all’Occidente stesso. Specularmente, esalta ogni altro, compresa ogni altra civiltà, a prescindere dalla sua concreta storia. La cancel culture, per esempio, non si interessa allo schiavismo praticato per secoli, sino ad ora, nel mondo arabo, ma solo a comportamenti e parole del passato, decontestualizzati e interpretati in modo parziale e manipolatorio, che possano evocare “suprematismo bianco” o “mali assoluti’”similari, per distruggere figure della storia occidentale come Abraham Lincoln.
Ecco che, allora, diventa evidente che la cancel culture non ha come proprio oggetto la legittimazione della diversità e il rispetto dei diversi. Essa vagheggia, piuttosto, la costruzione di un mondo fittizio che annulli ogni coordinata temporale per inserire le nostre società occidentali in un universo distopico, dove in modo totalitario la visione distorta di alcuni valori occidentali è imposta autoritativamente. E l’imposizione avviene per il presente e per il passato, per cui il presente deve galleggiare nel nulla, o, meglio, nel liquido amniotico dei parti delle menti dei militanti della cancel culture.
È importante anche dire due parole su quella distorsione che questi ultimi fanno dei valori dell’Occidente. Universali nel pensiero occidentale, essi diventano particolari nella nuova ideologia, che li vuole validi solo per i bianchi (la mancata parità tra i sessi o il rispetto delle religioni non è richiesto ad altre civiltà o appartenenze, che vivano fuori o dentro i confini delle nazioni occidentali), peraltro in un tempo eterno, così da condannare tutto ciò che non li ha rispettati ancora prima che emergessero.
In questo ha ragione Belardinelli a richiamare l’«emotivismo morale» denunciato da Alasdair MacIntyre, proprio perché dietro tutto ciò non vi sono che pulsioni molto primitive che si vogliono imporre come punto di riferimento in sostituzione a ogni pensiero razionale, basato su un rapporto empirico con la realtà. E quando parliamo di pulsioni molto primitive facciamo in particolare riferimento a forse la più primordiale di tutte le emozioni, la rabbia. Infatti, è la rabbia, non l’altruismo e il sentimento positivo verso l’altro, che muove la cancel culture. E la rabbia è quella pulsione che porta a voler rimuovere radicalmente una situazione che si ritiene intollerabile per ristabilire la “giusta” situazione, con la violenza. E ciò che si ritiene intollerabile, da parte dei fanatici militanti della cancel culture, è che chi in qualunque punto del tempo (ma nello spazio del “male”, ovvero l’Occidente) si sia allontanato dal giusto agire e sentire possa essere men che disprezzato.
Per meglio evidenziare questo aspetto di fanatismo ideologico è utile fare riferimento, in conclusione, all’antisemitismo, un problema che di nuovo si è prepotentemente affacciato nelle nostre società. Le stesse università, in particolare americane, che si sono distinte per l’ideologia della cancel culture, oggi stanno dando corpo a un violento antisemitismo, con le parole ma, stando a numerose testimonianze, anche con più concreti e minacciosi comportamenti. Può apparire paradossale che le vittime del più spaventoso crimine compiuto da occidentali nel Ventesimo secolo non costituiscano un parametro per commisurare le proprie scelte di valore da parte di chi si pretende attento a ogni “prevaricazione” e ogni “soggezione”. Ma, in realtà, non lo è. In fondo, la Shoah è stato un crimine che l’Occidente ha compiuto verso una parte di sé, la componente ebraica, non verso altri, ai quali, in particolare, si possa applicare tutta la retorica post-coloniale. E gli ebrei, oggi, altro non sono che parte del mondo dei bianchi, hanno scelto consapevolmente di esserne parte e, anzi, hanno interpretato massimamente gli aspetti più caratterizzanti e deteriori di quel mondo, ovvero il capitalismo e la sua commistione col potere politico. Perché mai il loro sterminio di circa ottant’anni fa dovrebbe più interessare, tanto più che, oltre che capitalisti e banchieri, con la loro pretesa di diventare Stato hanno volutamente deciso di incarnare – abbandonando il loro ruolo di vittime – l’uomo bianco colonialista?
Non c’è orrore che non possa essere perdonato se perpetrato in nome della rivincita di ogni diversità sull’uomo bianco. Come dimostrano la “tolleranza” e i distinguo che sono seguiti, nel mondo occidentale, nelle sue università, nelle sue redazioni, nei suoi luoghi di cultura, all’orripilante massacro compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023 a danno di mille e duecento civili israeliani. E come dimostrano ancora le imbarazzanti dichiarazioni al Congresso delle presidenti di tre università della prestigiosa Ivy League, in prima linea nel movimento della cancel culture, che, interrogate all’inizio di dicembre sulle regole di condotta dei loro atenei per sapere se l’invocazione dello sterminio degli ebrei le violasse, hanno risposto evasivamente rinviando a “contestualizzazioni”. Si direbbe che la cancel culture possa giungere sino a cancellare la memoria dello sterminio degli ebrei o la significatività di quell’evento epocale perché non in sintonia con il nuovo apparato ideologico.
La cancel culture non ha nulla ha a che fare, dunque, con il rispetto dell’altro e per questo non può essere considerata una forma estrema del politicamente corretto. Semmai una distorsione radicale che ha prodotto un salto di “natura”, precipitando in un odio sterile e insensato. Bene dunque, ogni volta, distinguere.