«La libertà e la democrazia hanno bisogno di verità», scrive Sergio Belardinelli, affermazione che mi sembra al cuore del suo intervento a proposito di cancel culture. Sono totalmente d’accordo. Con una piccola, ma secondo me decisiva, aggiunta: hanno bisogno della ricerca della verità. In effetti, la degradazione violenta delle politiche del riconoscimento ripropone con forza la questione del rapporto tra verità, identità e violenza in una forma, solo apparentemente nuova, che mi piace chiamare di “relativismo assolutista”. Si tratta di un modo per trasformare ogni opinione in un assoluto, senza mediazione, cancellando così, dentro una verità, la ricerca della verità. Vorrei approfondire la mia idea facendo due osservazioni, due tra le tante che il testo di Belardinelli potrebbe innescare, introducendo i concetti di limite e di rispetto.
L’elemento decisivo, a mio parere, è proprio la mancanza di mediazione. Da un certo punto di vista, la situazione denunciata da Belardinelli ha alla sua base una specie di regressione infantile, espressione di un bisogno di assoluto che non ha ancora imparato a confrontarsi con il mondo, con quella complessità che dovrebbe produrre una ragionevole consapevolezza dei limiti. Come scrive genialmente Bloch, «vuoto è l’inizio. Mi desto. Fin dal primo mattino siamo alla ricerca. Siamo pieni di brame, gridiamo. Non abbiamo quel che vogliamo» (Bloch 1994, I, p. 27). La quotidianità, per quanto addomesticata, porta sempre con sé il vuoto iniziale, quello dell’infanzia, quello per cui «un bambino afferra tutto per sapere quello che vuole» (Ibidem). Il trucco, l’entrare in società, consiste nel fatto che «impariamo ad aspettare» (Ibidem), articolando desiderio e immaginazione dentro il tempo. Mediando tra desiderio e realtà. Ed è proprio questa mediazione a dare corpo al desiderio, dandogli sostanza e concretezza, togliendolo dal vuoto iniziale. Da questo momento in poi, non tutto è lo stesso: ricerco ciò che desidero dentro il mondo delle possibilità. Si passa dal puro volere, dal volere ogni cosa perché ogni cosa ha un eguale valore in quanto sconosciuta, al volere qualcosa, entrando così in relazione, mediando desiderio e realtà.
Opportunamente, Belardinelli scrive che, a proposito della cancel culture, «siamo di fronte all’espressione di una volontà che non riconosce alto limite che se stessa», di una volontà che non riconosce, per l’appunto, limiti. Si tratta di un’autoaffermazione che non si mette in alcun modo in discussione, basata, sempre con le parole di Belardinelli, su «un uso isterico, vandalico del tema dell’identità». L’oggettivazione del desiderio e la costruzione di una identità non isterica e vandalica richiedono il passaggio dal vuoto infantile iniziale ad un confronto serrato, duro e continuo con la concretezza del reale che ci circonda, con le sue contraddizioni e le sue alternative. Perciò una volontà che dispiega se stessa senza ostacoli non è libera perché, in quanto mera autoaffermazione, non fa i conti con il mondo del possibile, con le alternative che esso porta con sé, con la fatica della scelta, della decisione responsabile a fronte di resistenze non eliminabili. Libertà è anche, e forse soprattutto, riconoscimento dei limiti che le danno senso.
In secondo luogo, vorrei sostenere – credo anche qui in sintonia con Belardinelli – che, non troppo paradossalmente, l’habitat che rende ragionevolmente possibile il riconoscimento delle diversità deve essere caratterizzato da una forte impronta universalista. La cancel culture e il politicamente corretto sono due ottimi esempi di come la dialettica del riconoscimento non sia in grado di fornire tale base universalista, per due motivi. Da un lato, attraverso le lotte per il riconoscimento, finisce con l’accentuare le particolarità identitarie, dando loro l’opportunità di affermarsi anche violentemente; dall’altro, come ben evidenziato da Nancy Fraser, mette inevitabilmente in secondo piano i diritti sociali non identitari e universalistici, soprattutto a discapito delle classi svantaggiate. Una delle caratteristiche più significative dell’individualismo moderno sta forse proprio nel suo carattere plurale e differenziato, nell’impossibilità di riconoscersi, come avveniva nel passato, in una identità sociale univoca e definitiva: ognuno di noi oggi ha il compito di costruire una propria precaria identità a partire da una molteplicità irrinunciabile di appartenenze, differenziate e, a volte, anche tra di loro in contraddizione. Piuttosto che dedicarsi al riconoscimento di una di tali appartenenze, sulla quale schiacciare la propria identità complessiva – io sono donna; io sono latino-americano; io sono omosessuale; ecc. –, molto meglio sarebbe attivare politiche che sostengano l’eguale opportunità di ognuno nel provare a comporre liberamente la propria identità, intesa come storia e biografia individuale. Questo permetterebbe, tra l’altro, la liberazione dall’identità stereotipata che l’essere minoranza porta con sé: essere liberamente omosessuali sarà possibile forse solo quando ognuno potrà esserlo a modo suo e, di conseguenza, non immediatamente “riconoscibile” dagli altri.
Credo che la nozione kantiana di rispetto possa fornire la base universalista necessaria. Il rispetto non si conquista a partire dal riconoscimento di una propria caratteristica decisiva, l’essere in un modo piuttosto che in un altro, ma è un atteggiamento dovuto indipendentemente dalle caratteristiche. In un certo senso, non ha oggetto, se non l’essere umano in quanto tale, indipendentemente dalle sue diversità. A partire dal fatto che ti rispetto, in generale, posso poi pensare di riconoscere, o meno, alcune tue specificità. Il riconoscimento è possibile, mentre il rispetto è dovuto. In questo modo, anche le lotte per il riconoscimento hanno la possibilità di darsi all’interno di una arena non neutra, che deve essere condivisa dai competitori. In un suo splendido aforisma, Adorno scrive: «sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza» (Adorno 1979, p. 230). Ed è proprio in questa direzione che, secondo me, il rispetto si mostra come un pre-requisito delle relazioni.
In conclusione: imparare dal passato senza distruggerlo, come facevano le civiltà antiche, può diventare uno degli strumenti di un universalismo democratico basato su una cultura dei limiti e del rispetto, capace di impegnarsi nella continua ricerca della verità. Un primo passo in questa direzione, oltre alla difesa dei fondamenti liberali della nostra democrazia – che sono un vero e proprio software di base dei nostri sistemi politici –, sta nel contrastare ogni semplificazione che possa produrre radicalizzazione, cioè identità che non accettano mediazioni. Se le epoche ingenue producono identità violente, anche epoche disperate e disorientate possono non essere da meno. Dobbiamo riuscire ad evitare queste derive.
Bibliografia
Adorno, Th. W. (1979), Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa, Einaudi, Torino.
Bloch, E. (1994), Il principio speranza, 3 voll., Garzanti, Milano.