Post scriptum su un conservatorismo da ripensare
di Danilo Breschi (Università degli Studi Internazionali, Roma)
Ringrazio coloro che hanno voluto leggere e commentare il mio articolo, nonché la direzione della rivista “Lisander” per l’invito a scriverlo. Ho provato a dire la mia sulle eventuali possibilità odierne, in termini di significato teorico e di attuabilità pratica, per una proposta politica di tipo conservatore. Nel farlo, ovviamente, occorreva partire da una definizione minima. Anzitutto cosa sia stato il conservatorismo in passato, per capire se e cosa possa essere oggigiorno. Su questo, molti interventi hanno spiegato più e meglio di me. Mi limito pertanto a chiarire ulteriormente qualche aspetto del mio ragionamento alla luce del dibattito che ha suscitato. Visto l’elevato numero di commenti, diversi tra loro e tutti di particolare interesse, questa mia replica necessiterà di qualche riga in più. Una premessa: anche in questo articolo, memore di quanto richiesto nell’invito iniziale, il mio ragionamento si muove sul piano delle culture politiche e non delle dottrine (o ideologie) politiche. La cultura, come la coltivazione, deve tener conto del contesto che muta, dal clima delle stagioni alla qualità di una terra più e più volte dissodata e seminata. Opera all’aria aperta, per così dire. La dottrina distilla in laboratorio, invece. Continuo pertanto a concentrarmi sulla cultura, e non sulla dottrina, politica conservatrice, conscio che la prima è più capiente e contiene anche la seconda.
Com’è stato inoltre notato, prendo le mosse da una tesi per certi versi discutibile: il conservatorismo sarebbe imparentato strettamente con il liberalismo. A mio avviso, ne costituirebbe addirittura una versione particolare, presente sin dall’inizio. Sì, in senso stretto e con riferimento alla comparsa del nome, il liberalismo così denominato non compare che a partire dal secondo decennio dell’Ottocento. Seguendo i suggerimenti di Friedrich A. von Hayek, molti ritengono che sia lecito parlare di un vero e proprio movimento liberale soltanto dopo la Restaurazione. Come numerosi commenti hanno ben colto, la mia idea è che, in quanto ideologia politica, il liberalismo abbia già una sua fisionomia piuttosto definita tra la fine del Seicento e i primi tre quarti del Settecento, muovendosi nello scambio intellettuale triangolare tra Regno Unito, colonie britanniche del Nord America (poi Repubblica federale degli Stati Uniti d’America) e Francia illuministica (con contributi sparsi provenienti dal resto del continente europeo, toccato dal movimento cosmopolitico dei Lumi). Da John Locke ai Founding Fathers, passando certamente per il “whiggismo” del Sei-Settecento inglese, si forma un tipo di liberalismo che, di fronte soprattutto agli esiti della Rivoluzione francese, esita e si ritrae rispetto ad alcune premesse teoriche originarie. In particolare, rifugge e ripudia il desiderio, che catturò e travolse i rivoluzionari francesi, di abbattere il vecchio ordine e di rifare tutto da capo sulla base di idee astratte, partorite da una razionalità elaborata “a tavolino”. Il progetto che soggioga il domani ai desiderata di una ragione disincarnata. Questo è il momento in cui liberalismo e conservatorismo si divaricano. O meglio: è il liberalismo che si biforca (costruttivismo oppure ordine spontaneo). Dovrebbe apparire chiaro che una tale evoluzione dipende dalle differenze nell’ispirazione, nella traiettoria e nel risultato tra la rivoluzione americana e quella francese. Entra appunto in gioco il contesto storico (e geografico). Sotto questo aspetto credo che l’analisi e l’ipotesi interpretativa proposte da Hannah Arendt nel suo On Revolution (1963) conservino intatte una loro feconda validità.
Diversi miei commentatori hanno tirato in ballo, e a ragion veduta, Hayek. A mio avviso, il pensatore austriaco naturalizzato britannico è più un conservatore che un liberale (oppure un liberal-conservatore piuttosto che un liberal-liberista, per dirla in gergo politologico italico), almeno se visto con occhi e secondo parametri ideologici europei continentali, mentre è più liberale che conservatore se visto nel contesto in cui ha espresso la propria maturità intellettuale, ovvero l’area angloamericana. È in questo ambito geografico e storico che si può intendere al meglio la relazione stretta, parentale, tra liberalismo e conservatorismo. Più precisamente: riscontrare il fatto (storico) che il secondo sia una determinata versione del primo. Thomas Jefferson e gli autori dei Federalist Papers, per limitarci a questi, sono perfetta espressione di un conservatorismo liberale (o liberalismo conservatore) che, reimportato al di qua dell’Atlantico, ha trovato difficoltà a inserirsi perché il suolo europeo era stato nel frattempo travolto e sconvolto dagli esiti della Rivoluzione francese, ma anche da una Restaurazione che accarezzò a lungo il sogno reazionario del «contrario della rivoluzione» (Joseph de Maistre), ossia del ritorno all’antico regime. Non è quindi un caso che Edmund Burke sia stato dapprima un convinto sostenitore dei diritti dei coloni inglesi del Nord America e, poco dopo, un severo critico dei rivoluzionari in Francia. Nessuna contraddizione nel suo “whiggismo” di nuovo conio, matrice di quel conservatorismo strettamente imparentato al liberalismo a cui faccio riferimento.
Passo a un altro punto. Merita soffermarsi un attimo su questa considerazione a firma di Roger Scruton: «quando parliamo di tradizione, non ci riferiamo a regole e convenzioni arbitrarie. Ci riferiamo piuttosto a risposte che sono state trovate a domande senza tempo». Ma quali sono queste tradizioni, specie se parliamo dei nostri tempi che possono essere definiti davvero postmoderni nella misura in cui giungono al termine del processo di disincantamento del mondo? Credo possano essere rinvenute nella persistente validità dei proverbi popolari, deposito di millenaria saggezza. Il fatto che non vengano più, o sempre meno, trasmessi oralmente da una generazione all’altra non significa che a essi non si possa, e debba, ricorrere ancor oggi in modo proficuo. Sono i “pregiudizi” nell’accezione data loro da Burke.
Concordo poi con Raimondo Cubeddu sul fatto che «l’obiettivo a cui dovrebbe tendere un vero e sano conservatorismo è l’intransigente difesa della libertà individuale» e che un simile compito lo apparenti strettamente al liberalismo. Resta da chiedersi come realizzare una tale difesa. Ed è su questo che semmai emergono le differenze tra le due famiglie politico-ideologiche, che si fanno anche profonde se consideriamo quelle correnti che oggi si usa chiamare “neoliberismo” e “postliberalismo”. I conservatori, almeno per come da me intesi, non perorano la causa del ritorno agli “dèi forti” (Strong Gods), per usare un’espressione messa in circolazione nel dibattito americano da Russell Ronald Reno e N.S. Lyons (uno pseudonimo), tesi su cui Flavio Felice ha di recente formulato interessanti riflessioni critiche. Anzitutto perché un siffatto ritorno appare del tutto improbabile, anacronistico, e non c’è conservatorismo senza un intelligente sentimento del tempo che trascorre, di come e quanto irreversibilmente si trasforma. Il conservatore non trascura mai la praticabilità di un’azione. Questa è data dal grado di persistenza di alcuni perché, dei fini piuttosto che dei mezzi con i quali noi umani costruiamo convivenza. Fini e perché diffusi a livello di società civile, emergenti cioè dal basso e non introdotti artificialmente dall’alto. Il conservatore cerca le tracce di ciò che permane e non può non permanere finché esiste ed esisterà l’essere umano e quel che denominiamo come la sua “natura”. Inoltre, sempre da un punto di vista genuinamente conservatore, non può essere ammesso e praticato ciò che appare come un programma e dunque una pianificazione, con tanto di intervento dall’alto. Il ritorno all’ordine sa di presunzione fatale (Hayek). Anche qui si ripete la confusione tra reazionari e conservatori. Posizioni e opzioni entrambe possibili, ma distinte. Per capirlo, basterebbe esaminare la parabola di un politico e pensatore come Donoso Cortés, da liberale moderato a reazionario estremo. Fatale gli fu il Quarantotto. Il reazionario vuole restaurare, il conservatore no. Semmai punta alla manutenzione. Cerca sempre di salvare il bambino dallo spurgo delle acque sporche, che non sempre e necessariamente così sporche sono. Invece, citando Aleksandr Herzen, potremmo dire che il reazionario vuole uccidere il bambino per nutrire un vecchio in via di estinzione. In altre parole, il conservatore critica chi, nel cambiare, distrugge anche ciò che di buono c’era. È dunque diverso dal reazionario, autentico utopista a rovescio. Lo è nella misura in cui il conservatore non ritiene possibile né auspicabile ripristinare lo status quo ante. Il verbo politico “conservare” significa ben altro.
Allora al conservatore non resta che la resa al nuovo, o comunque l’accettazione più o meno passiva di ogni cambiamento? Intanto un conto è il cambiamento, altro conto la trasformazione. Non è un sofisma linguistico. La vita è mutazione, metamorfosi, con sue leggi precise e ricorrenti. La natura umana è tanto passiva, partecipe della vita intesa come zoé (ζωή), quanto attiva, ossia vita come bíos (βίος). Un conservatore tiene conto di entrambe, a meno non sia uno stupido, come invece riteneva John Stuart Mill, liberale progressista («I conservatori non sono necessariamente stupidi, ma le persone più stupide sono conservatori»). Emanuele Felice obietta che «un liberale progressista, così come un socialista democratico, o ancor più un ecologista, sa bene che non tutte le novità sono positive». Se ci muoviamo sul piano dei singoli individui, riscontriamo tale consapevolezza. A livello di culture politiche, però, si tratta di cogliere ed evidenziare l’inclinazione prevalente. Sul tema “novità”, quindi, l’ecologista scopre facilmente più punti di contatto con il conservatore che con il socialista democratico, maggiormente propenso all’elogio dell’inedito. Sempre Stuart Mill, anche in questo campione del liberalismo progressista e filo-socialista, affermava che «ogni vincolo in quanto vincolo è male», carezzando così l’utopia della liberazione integrale e della rifondazione ab imis di uomo e società. Anche quest’ultimo assunto segna nettamente la distanza tra un liberale progressista e un liberale conservatore, il quale è invece memore della lezione antica, dei Greci anzitutto, secondo cui la massima da seguire è «nulla di troppo» (μηδὲν ἄγαν; mēdén ágan). Simone Weil aveva ben compreso che «per i Greci il limite non era una catena ma una condizione di armonia» e che «solo chi rispetta la misura può abitare la libertà senza trasformarla in tirannia». Ecco un pezzo di quella tradizione, un tempo si sarebbe detta “classica” (greco-romana), di cui il conservatore è custode naturale. Sotto questo profilo Weil è probabilmente da annoverare tra gli esponenti di spicco del conservatorismo europeo novecentesco e la sua lettura può ancora oggi fungere da efficace orientamento.
In tal senso, e in risposta all’interessante obiezione di Eugenio Capozzi, ribadisco che, a mio avviso, conservatorismo e moderatismo (come metodo), o gradualismo se si preferisce, stanno in relazione fruttuosa. Il conservatore sa bene che le novità sono digeribili solo quando sono graduali, altrimenti vengono vissute come un’aggressione e rigettate in blocco. Le proteste sociali sempre più frequenti e massicce che infiammano l’Europa occidentale, solitamente liquidate come populiste, segnalano esattamente il prodursi di questo meccanismo di difesa psicologica. Pertanto l’«Adelante con juicio» messo in bocca da Manzoni al personaggio (storicamente esistito) di Antonio Ferrer è per eccellenza un motto conservatore (e moderato). Ne consegue che, per fare un modesto esempio pratico, un autentico conservatore terrà oggigiorno alla preservazione e al rilancio dell’istruzione di tipo classico, che è in sé anche educazione alla personalità così come alla cittadinanza attiva. La conoscenza delle matrici culturali della nostra civiltà aiuta a contenere l’angoscia derivante da novità incessanti, poiché le inserisce in una trama già nota e suggerisce, per analogia, possibili strumenti di risposta. In tal caso, quindi, si tratta di conservare per rigenerare virtù essiccate, se non irrimediabilmente perdute. Al conservatore, di ieri e ancor più di oggi, si addice una postura mentale riassumibile nella celebre massima attribuita al principe d’Orange, Gugliemo detto il Taciturno: «Non è necessario sperare per intraprendere né riuscire per perseverare». È a tal proposito che le riflessioni di una personalità come quella di Ernst Jünger risultano ancora feconde per un conservatorismo all’altezza del ventunesimo secolo. Lo ha ben colto Leonardo Allodi nel suo intervento. Ma veniamo a un altro punto che circola sottotraccia in vari commenti e che necessita di un qualche pur minimo chiarimento.
Si dice, non solo nel contesto italiano: i conservatori stanno a destra. E con intento polemico: la destra è liberale per lo più a parole. Nei fatti tende ad essere illiberale. Si aggiunge: la destra, quando va bene e accetta, più o meno a malincuore, l’assetto democratico, proclama di voler imporre e far rispettare “legge e ordine”. Soffermiamoci un attimo ed esaminiamo questa locuzione, spesso ridotta a slogan. Legge in funzione dell’ordine, perché regni incontrastato a tutela e conservazione degli interessi costituiti? Oppure un ordine dettato dalla legge, generale e astratta perciò uguale per tutti, fondata su alcuni diritti di libertà individuali, universali, inalienabili e imprescrittibili? Insomma, un ordine della legge? Se è così, non stiamo forse parlando dello stesso principio cardine del liberalismo classico, ovvero del rule of law? Ordine sì, ma secondo legge, a cui sono sottoposti tutti indistintamente, governanti inclusi. D’altronde era Norberto Bobbio a ricordarci come la legge, quale ne sia l’origine, «resta nel tempo come un deposito della saggezza popolare e della sapienza civile che impedisce i bruschi mutamenti, le prevaricazioni dei potenti». Dal canto suo, Scruton ribadiva che la legge «esiste non per controllare l’individuo, ma per liberarlo». È senz’altro così nella tradizione britannica del common law, matrice preziosa di ogni conservatorismo bene inteso. Questo ricorrente riferimento all’Inghilterra potrebbe indicare quanto nell’Italia contemporanea, per com’è uscita dal boom economico e si è consolidata nella società dei consumi, risulti difficile veder attecchire una cultura, teorica e pratica, di stampo conservatore. E non è poi un caso che nemmeno il liberalismo sia tradizione politico-culturale fortemente radicata nella nostra penisola, che ha semmai conosciuto il nascere e diffondersi di varie e inedite forme di populismo, a destra come a sinistra.
Ancora a proposito del rapporto col liberalismo, ci sono almeno altri due punti da toccare al volo: i diritti e il futuro. La salvaguardia delle libertà implica tener conto anche di obblighi e vincoli sociali, senza i quali una comunità non si tiene, si sfalda. Si possono avere diritti solo se si hanno doveri. Aggiungiamo poi che gli uomini sono esseri morali e, come tali, hanno doveri di compassione e aiuto reciproco che vanno ben oltre la sfera dei diritti. Il terreno liberale è più fertile per l’individualismo, anche se quello conservatore non è, al riguardo, nettamente inospitale.
Veniamo al rapporto con l’avvenire proprio di una cultura politica che, per definizione, nutre profondo rispetto nei confronti del passato. Parlando a proposito di T.S. Eliot e il suo The Waste Land, Czeslaw Milosz ha scritto: «dove non c’è domani non può che entrare in scena il moralismo». Allora vale l’equivalenza “conservatori = moralisti”? Ma siamo davvero sicuri che per il vero conservatore non c’è domani? Oppure dovremmo dire che, per questi, «del doman non v’è certezza», citando il celebre verso della Canzona di Bacco. Il moralismo si addice maggiormente al reazionario. Questi constata l’impotenza della propria utopia rovesciata e secerne il proprio contemptus mundi, disprezzo del mondo. Il verbo dell’intellettuale come lamento istituzionalizzato. L’impressione allora è che nel dibattito culturale odierno abbondino assai più i reazionari dei conservatori. Un vario nostalgismo politico, a destra come a sinistra.
Vengo a un altro punto sollevato con tono arguto e simpaticamente provocatorio da Emanuele Felice nel suo commento. Stante le mie argomentazioni, egli sarebbe dunque un conservatore inconsapevole? Oppure, come forse giustamente sottolinea, il mio ragionamento pecca di un’omissione, peraltro grave, ossia non affronta il tema del conflitto? Credo che anche qui bisogna intendersi. Nell’accezione corrente, conservatore è colui che, appartenente alla classe dei privilegiati, a vario titolo e in vario modo, intende mantenere lo status quo e certamente non si cimenta nella lotta di emancipazione e/o miglioramento delle classi meno abbienti o che comunque non beneficiano dei vantaggi offerti dall’assetto socio-economico esistente. Sarebbero appunto avversari, più o meno acerrimi, del cambiamento secondo una logica di dominio di classe. Quindi tutti i conservatori, dalla Rivoluzione francese in poi, sarebbero i discendenti di coloro che ad essa per primi si sono opposti, quel clero e quell’aristocrazia di antico regime per nulla lambiti dalla filosofia dei Lumi. Ma è proprio qui il nodo della questione ed è per questo che diventa dirimente individuare e comprendere l’esatta genealogia del conservatorismo.
Se prendiamo come tema la difesa dello status quo coinvolgiamo, volenti o nolenti, consapevoli o meno, l’istituto della proprietà privata. Passata dalla forma parassitaria dell’aristocrazia e dell’alto clero a quella imprenditoriale della borghesia industriale (peraltro non ancora così centrale nel processo rivoluzionario francese, a dispetto della vulgata storiografica variamente marxista, superata sul piano scientifico ma oramai sedimentatasi nell’opinione comune), occorre far presente che la proprietà è cara tanto ai conservatori quanto ai liberali. Allora l’alternativa, teorica e storica, sarebbe stata (e continuerebbe a essere) tra liberali (e conservatori) da una parte, democratici e socialisti (poi comunisti), dall’altra. Sempre seguendo questa impostazione storiografica, a un certo punto, nel corso dell’Ottocento e poi nel Novecento, sono cresciute tra Europa (continentale e insulare) e America le correnti progressiste nel seno del liberalismo, così che tra le élite borghesi si è pensato, ora perché politicamente opportuno ora perché eticamente giusto, allargare il godimento della proprietà a chi ne era stato fino a quel momento escluso. Con maggiore o minore gradualità, a seconda delle circostanze di tempo e di luogo.
Ammesso che una tale ricostruzione storica rispecchi fedelmente come ovunque in Occidente le cose siano concretamente andate, resta aperta la questione su quanto resti oggi, nel 2025, del conservatorismo. Questione su cui si è incentrato il ragionamento del mio articolo, seguendo l’indicazione ricevuta dalla redazione di “Lisander”. Ebbene, a mio avviso, parlare oggi di conservatorismo nei termini or ora accennati risulta non solo sterile, ma anche fuorviante. Senza scomodare Christopher Lasch, Zygmunt Bauman, Jean-Claude Michéa o tanti altri acuti osservatori delle società occidentali sviluppatesi negli ultimi settant’anni, mi pare di poter dire senza tema di smentita che, se teniamo ferma l’accezione generica e corrente di “conservatorismo”, niente di più conservatrice è la borghesia liberale progressista (liberal). Se non a parole, lo è nei fatti. Basta una semplice ricognizione sull’estrazione sociale di chi si professa “di sinistra” (dunque sedicente anti-conservatore). Ma anche su chi, precedente elettore di partiti della sinistra, da anni ormai vota a destra in nome di un’aspettativa che primeggia su tutte le altre: conservare o recuperare condizioni di status borghese (piccolo, medio) precedentemente conquistate e ora gravemente minacciate, se non perdute.
Se però le cose stanno così, conservatori sarebbero un po’ tutti, tanto gli outsider, che rimpiangono il bel tempo che fu (corrispondente alla seconda metà del Novecento), quanto gli insider, soltanto che questi ultimi si dividono tra coloro che vogliono aprire e includere (dunque “di sinistra”) e coloro che invece a tale esigenza restano sordi e indifferenti, quando non fermamente avversi (pertanto “di destra” o “di estrema destra”). Concordo con Luca Solari quando nel proprio commento ricorda che «un conservatore si oppone non al cambiamento, ma alla disgregazione del vivere civile», ovviamente con le risorse che ha a disposizione e tenuto conto delle circostanze nelle quali si trova a operare. Personalmente, mi resta difficile pensare che, filosoficamente e politicamente parlando, un conservatore del ventunesimo secolo, in Italia come in Europa, sia estraneo o avverso alla questione sociale. Direi che non può addirittura permetterselo, nella misura in cui il conservatorismo valorizza, per definizione, le comunità e la società civile (basta leggere Burke, il padrino di questa famiglia politica), e, giuste le parole di Scruton, «le società possono sopravvivere alle crisi più gravi solo facendo ricorso al capitale di sentimento patriottico che posseggono». Nel ventunesimo secolo, in Occidente, non si può tenere vivo il senso di appartenenza alla patria senza che questa abbia a cuore la divisione tra haves e have nots, nonché il suo potenziale altamente conflittuale. Il conservatorismo contemporaneo, memore anche degli errori commessi in passato (vedi il primo dopoguerra nell’Europa occidentale), lavora semmai preventivamente affinché il conflitto sociale non si infiammi fino al punto di degenerare in incendio. Insomma, chi conserva e che cosa? Ecco la domanda fondamentale da porsi, assieme a quest’altra: quanta mutazione può tollerare una società senza disunirsi? Quanta ed entro quali ritmi? I livelli di velocità in politica sono oltremodo importanti (di nuovo, la relazione intrinseca e dialettica col moderatismo). E poi: conservare soltanto interessi o anche, e soprattutto, valori, costumi, tradizioni e stili di vita? La risposta a quest’ultima domanda è altrettanto decisiva.
In conclusione, credo che avesse già tutto ben chiaro Leszek Kolakowski, quando si definiva «conservatore+liberale+socialista». Questa è la direzione verso cui personalmente mi sto orientando, in modo problematico, non dogmatico, tantomeno semplicistico. Non di mera sommatoria indistinta si tratta, infatti. Per ricorrere alle sottili distinzioni proposte da Agostino Carrino nel suo intervento, l’intento è semmai quello di innestare lo spirito conservatore dentro sensibilità che con esso sono compatibili. Come il cuore, anche la ragione fa circolare linfa vitale ovunque nell’organismo in modo differenziato. Fuor di metafora, credo che l’essere conservatore si esprima su varie facce di quel prisma che è l’esistenza umana, ma non su tutte. Intendo dire, prendendo a prestito le parole di Emmanuel Mounier, che «l’uomo, composito per definizione, non è solido che sotto forma di leghe». Si è conservatori, socialisti o liberali a seconda delle circostanze (intese al modo di José Ortega y Gasset: il luogo, il tempo, la cultura, la società). Con il cuore e con la ragione, tra loro alleati, si vive appieno. «Yo soy yo y mi circunstancia», diceva il pensatore spagnolo. Circostanze diacroniche e sincroniche. Le ibridazioni di cui parla giustamente Maurizio Serio, analizzando la morfogenesi del conservatorismo contemporaneo, possono (o dovrebbero?) muoversi in una direzione diversa rispetto a quella di una «reattività emotiva populista, nazionalista e sovranista». Lo stesso principio di autorità, indubbiamente centrale per la filosofia conservatrice, non è affatto antinomico rispetto a quello di libertà. Lo è solo nell’ottica di chi pensa, in modo riduzionista, la libertà in termini libertari, come emancipazione integrale e incessante (libertà = liberazione). Autorità e libertà: è questione di sapere come si declina il loro rapporto, questo sì necessario in politica come in ogni aspetto dell’umana convivenza. Certe buone pratiche “antiche”, presenti, ad esempio, nelle professionalità artigiane o sportive, nella scuola e ovunque esista la relazione maestro-allievo, testimoniano come l’esercizio dell’autorità aiutasse (e aiuti ancora) a crescere nella libertà, formando la propria personalità, scoprendo la propria vocazione. Insomma, si tratta nuovamente di capire se, riferendoci all’ibridazione con populismo, identitarismo e tecnocrazia, non stiamo in realtà parlando di reazionari sotto mentite spoglie. Ovvero di una posizione politico-culturale su alcuni punti limitrofa, ma che nell’insieme risulta nettamente distinta dal conservatorismo contemporaneo. Ripeto: si può essere conservatori e insieme liberali, senza tralasciare alcune ineludibili istanze del socialismo riformista e non collettivista. Di nuovo: si può esserlo in teoria come nella pratica.
Ciò detto, è proprio la coesistenza, ossia la dimensione politica, a richiedere pressoché a ogni cittadino delle nostre complesse società occidentali la combinazione tra più modi di essere, presupponendo la libertà come punto fermo. Ad esempio, notava Kolakowski, il pessimismo antropologico del conservatore va mitigato per non giustificare quelle ingiustizie che, a ben vedere, nemmeno il suo modo di essere e pensare può tollerare. Non per questo occorre scivolare nell’ottimismo aprioristico, altrettanto invalidante e deleterio. Il giusto ha sommo valore per il conservatore, al pari del buono e del bello. Sull’equità come valore e principio il conservatore contemporaneo dialoga apertamente con il socialista non collettivista. In fondo, usando una formula breve, che ovviamente semplifica ma risulta di immediata comprensione, potremmo sintetizzare come segue: per un conservatore lo Stato è meno presente che per un socialista, ma più presente rispetto a un liberale. Infine, parlando sempre di un moderato interventismo, se è sul piano giuridico, non più politico, che oggi si modellano le società di domani, non è forse del tutto vana una legislazione memore di «immaginazione morale e cose permanenti» (moral imagination e permanent things), per dirla con Russell Kirk. In ogni caso, sempre meglio restare cauti nel chiamare in causa partiti e leader politici: si corre il rischio di sottomettere Kosmos a Taxis. A tal proposito ha ragione Carrino, che qui si muove sulla scia di Kirk. Si finisce, paradosso ricorrente del conservatorismo in politica, per piegare l’equilibrio spontaneo endogeno a vantaggio di un ordine imposto esogeno. Costruttivismo che, cacciato dalla porta della teoria, rientra dalla finestra della pratica di governo.
Buona base di partenza per capire come e dove le tre posizioni (conservatrice, liberale, socialista) possano trovare punti di intersezione e combinazione sono proprio gli scritti del grande filosofo e dissidente polacco. Le pagine di Kolakowski offrono alcune indicazioni convincenti, così come non pochi passaggi dell’intervento di Antonio Allegra a commento del mio articolo. Aggiungo solo, per concludere, un paio di considerazioni. Primo: è procedendo in tale direzione che davvero si risponde all’esaurimento della dicotomia destra-sinistra, tante volte proclamato o lamentato, mai davvero preso sul serio. Secondo: è probabilmente la necessità di questa nostra epoca, l’urgenza di affrontare le sfide che essa ci sta scaraventando addosso da molti anni, a richiederci attraversamenti teorici inediti e a dettarci nuove sintesi operative. Anche sotto questo profilo dovremmo comprendere che il Novecento è finito già da un pezzo, ormai.