"Perché non sono un conservatore". Ragioni liberali
di Flavio Felice (Università del Molise)
Nel bel saggio di Danilo Breschi sul Conservatorismo di ieri e di oggi emergono alcuni importanti spunti che interrogano il teorico e lo storico del pensiero politico intorno ad alcune vertenze fondamentali. In primo luogo, ha senso definirsi conservatori in un’epoca in cui appare davvero arduo trovare qualcosa di sano da tramandare ai nostri figli? Qualcosa che caratterizzi il presente politico, economico e culturale che giudichiamo così sano da augurare alle generazioni che seguiranno la nostra? In secondo luogo, nel caso ci fosse, come evitare che, insieme agli aspetti apprezzabili, il bene che percepiamo custodito in una qualche tradizione non si trascini dietro anche gli aspetti di un presente e di un passato tutt’altro che conformi alla dignità della persona umana? Infine, esiste un dispositivo logico che ci consenta di comprendere, senza ombra di dubbio e in maniera infallibile, il senso del corso della storia, la direzione e, di conseguenza, le forze da dispiegare e quelle da reprimere affinché il treno della storia giunga a meta sicura, attraversando i campi dovuti e sostando alle stazioni giuste?
Queste sono le domande che mi suscita la lettura del profondo articolo di Breschi e sono anche le domande che da sempre mi pongo ogni qualvolta mi capiti di riflettere sulla categoria del conservatorismo, non potendo non simpatizzare con la perentoria e nota ammissione di Friedrich von Hayek: «non sono un conservatore»; in questo caso il premio Nobel per l’economia rispondeva a coloro che identificavano il punto di vista liberale, free market oriented, con una prospettiva conservatrice che si opporrebbe invece alla visione progressista della storia.
A partire da alcuni elementi del profilo conservatore tracciato da Breschi, vorrei proporre una breve riflessione, con la quale rendere ragione della mia difficoltà a definirmi tanto conservatore quanto progressista, rivalutando il termine liberale, per quanto ormai sappiamo come tale termine abbia assunto tanti e tali significati da apparire quasi inutilizzabile, soprattutto in seguito al guazzabuglio concettuale apportato dal cosiddetto post-liberalismo. In tal senso, considerando le dispute nominalistiche tra le più dispendiose di energie, noiose e inconcludenti rispetto al fine di esplicitare improbabili confini concettuali, preferisco andare direttamente ai contenuti di una prospettiva che, personalmente, chiamerei liberale o popolare, in termini sturziani, ma non mi scandalizzerei affatto se qualcuno la definisse in altro modo.
Scrive Breschi: «Conservatore sarebbe pertanto l’anti-nichilista per eccellenza (…) il conservatorismo in quanto anti-nichilismo può dirsi posizione filosofica dotata di una qualche consistenza e, conseguentemente, degna di una pur minima considerazione, stante il fatto che il realismo ne costituisce un tratto distintivo e positivo». È questa un’interpretazione del conservatorismo che va evidentemente nella direzione di quel liberalismo classico nei confronti del quale dichiaro la mia prossimità ideale, sebbene il riferimento al nichilismo potrebbe complicare la discussione. Dipende, infatti, da che cosa intendiamo per nichilismo. Sappiamo tutti che esistono accezioni insostenibili e inaccettabili di nichilismo. Tuttavia, se, come ha teorizzato Dario Antiseri, per nichilismo intendiamo l’impossibilità a parte hominis di costruire un senso assoluto della vita dei singoli e dell’intera storia umana; se per nichilismo intendiamo un nihil di senso assoluto costruito con mani umane, allora, scrive Antiseri, «il nichilismo è una concezione razionalmente sostenibile e umanamente ricca: sorgente di tolleranza e insieme riconquista della spazio del sacro».
Inteso in tal senso, condivido la posizione di Breschi, il conservatorismo è anti-nichilista, nella misura in cui il nulla da cui rifugge è la pretesa costruttivistica e assolutistica di chi non solo pretende di conoscere il destino ultimo della storia, ma, soprattutto, in nome di tale pretesa, si sente investito del sacro dovere di imporlo agli altri, anche con lacrime e sangue. Ed è proprio questo il cuore della prospettiva liberale, non saprei dire quanto e se autenticamente conservatrice, ma di certo molto vicina alla postura conservatrice esposta da Breschi, allorché afferma: «La finitezza umana è l’a priori del vero conservatore».
Per tale ragione, la prospettiva liberale che incontra la postura conservatrice esposta da Breschi, ma non necessariamente tutte le forme di conservatorismo, assume i contorni di una teoria sociale del contingente, che nega i presupposti ideologici dello storicismo, tanto progressista quanto reazionario, e sposa un’idea dell’ordine di tipo spontaneo e della storia di matrice processuale. Con particolare riferimento all’idea di ordine sociale, vorrei far riferimento alla riflessione del teologo e politologo Michael Novak, che incrocia l’analisi di Hayek circa la distinzione tra il tipo di ordine detto catallaxy, che si fonda su norme giuridiche generali e astratte, ossia sulla ratio, e quello chiamato taxis, che invece poggia su norme organizzative dipendenti e subordinate alla voluntas di chi governa e decide i fini.
Novak osserva che generalmente l’umanità manifesta una specie di misticismo per l’ordine; nella coscienza religiosa dell’Occidente c’è un profondo e radicato bisogno di pensare alla storia come ad un campo unificato, all’interno del quale sarebbe celato il mistero del suo significato. Nella sua versione teista questa concezione storicista sembrerebbe affermare che c’è un Dio che dà forma e sostanza a tutte le cose della natura e della storia, di qui la ricerca del suo significato necessario, di uno scopo e di una direzione. Esiste anche una versione atea di detto storicismo; come nel caso precedente, anche qui alla storia viene attribuita una certa finalità, e gli individui acquistano una coscienza morale, di classe, etnica o nazionale, nella misura in cui si offrono a spingere il carro della storia. Chiunque opponga delle resistenze al presunto destino della storia, inevitabilmente, viene accusato di tradimento e complotto, degno, dunque, di una punizione esemplare.
Per Novak, le radici di un ordine sociale liberale, nel senso di una teoria sociale della contingenza, affondano nella capacità dell’uomo di fare “l’esperienza del nulla”, ossia di porsi domande su tutti i progetti della comunità, sull’ordine, sui fini, sui significati; è un nichilismo molto simile a quello teorizzato da Antiseri. Ora, non trovando sempre una risposta, la persona spesso è posta nella condizione di dover scegliere al buio, ed è in tale esperienza del limite, dell’ignoranza, del “nulla”, appunto, che rileviamo la manifestazione della coscienza e della trascendenza e la titolarità da parte della persona di diritti inalienabili.
Altrettanto esplicita è la critica di Novak alla nozione di storia, tipica delle prospettive progressiste o conservatrici/reazionarie, nel senso stigmatizzato dallo stesso Breschi, allorché il politologo americano ricorre alla nozione di “probabilità emergente”, elaborata dal teologo canadese Bernard Lonergan.
Chiunque ritenga che l’epoca attuale sia un’“epoca limite”, attribuisce al presente un preciso e necessario dover essere, verso il quale tutti gli uomini dovrebbero tendere. In definitiva, essere “dalla parte della storia” significa non opporsi alle spinte del progresso, che coincide fatalmente con le scelte operate da coloro i quali si presume siano investiti della virtù di saper cogliere con esattezza e purezza il fine, il significato ultimo della storia. Novak ricorre allo schema concettuale ideato dal gesuita americano e suo mentore Lonergan che prende il nome di probabilità emergente. Al centro di tale nozione troviamo la capacità delle persone di comprendere e l’idea popperiana che la scoperta scientifica procede mediante un processo nel quale lo scienziato, “inciampando” in un problema, formula una congettura in base alla quale tenta di falsificare l’asserzione fino a quel momento ritenuta solida. Ogni sorta di cose può accadere secondo uno “schema di ricorrenza”; le cose che possono accadere, pur non derivando dalla fredda necessità logica, non dipendono neppure interamente dal caso: una certa tipologia di eventi ricorre, infatti, con una determinata probabilità.
Solo nei casi apparentemente più semplici siamo in grado di dimostrare come le azioni libere dei singoli individui possano generare un ideale di ordine che non rispetti le loro intenzioni; un esempio di questo genere consisterebbe, secondo Hayek, nel modo in cui si formano i sentieri in una zona disabitata e accidentata. I movimenti umani in quella zona tendono a conformarsi a un modello ben definito che, pur essendo il risultato di decisioni deliberatamente prese da molte persone, non è stato consapevolmente progettato da nessuno.
Tornando alle domande iniziali, appare evidente che, per il sottoscritto, definirsi conservatore non significa nulla in sé, non rilevando nulla di particolarmente significativo del presente che meriti di essere conservato, almeno così com’è, in maniera statica. In secondo luogo, non credendo che la realtà possa essere divisa in maniera manicheistica in bene e in male, sono altresì consapevole del fatto che bene e male sono intrinsecamente intrecciati e che ogni tentativo di epurare definitivamente il male dalla storia fallisce miseramente, importando sempre nuovi mali contro cui vale la pena combattere; la civitas Dei e la civitas hominum sono le due disposizioni che albergano nel cuore di ciascuno e pretendere di instaurare un ordine politico, economico e culturale che abbia definitivamente sconfitto il male è solo l’ultima delle tentazioni del serpente: eritis sicut Deus scientes bonum et malum. Infine, a mo’ di corollario, ritengo che non si disponga di alcun apparato che ci consenta di conoscere il verso della storia e penso seriamente che tale verso non esista nella storia, ma che riposi nelle scelte di ciascuna persona; in caso contrario, la presunta necessità storica finirebbe per negare la concreta libertà umana che ritengo sia l’unica ragione per la quale valga la pena vivere.
Dunque, concordo con Breschi quando afferma che il conservatore che ragionasse così sarebbe meramente speculare al progressista: «Sarebbe uno che afferma che ieri è sempre meglio di oggi». In tal senso, non sono un conservatore poiché non ritengo che si possa mai dire “hic manebimus optime”. Innanzitutto, non esiste un qui, dal momento che il tempo è dinamico e, nell’istante stesso in cui pronuncio l’avverbio, dovrei già aggiornare la posizione; ma non esiste neppure uno stare, perché la nostra condizione nel mondo avviene nel tempo e, con il tempo, condivide la dimensione dinamica; infine, non esiste un ottimo, dal momento che la realtà è sempre un “bona mixta malis”.