Conservatorismo di ieri e di oggi
di Danilo Breschi (Università degli Studi Internazionali, Roma)
Rispetto ad almeno un decennio fa parlare oggi di conservatorismo non è più un tabù. Il motivo principale, direi fondamentale, non è nemmeno di ordine politico contingente, ma storico-culturale. Siamo di fronte a una svolta epocale. O almeno così pare. A detta di tutti, o quasi, in Occidente si è concluso il lungo secondo dopoguerra. In questo senso, soprattutto: la nuova generazione non ha prospettive migliori della precedente. Non accadeva, appunto, dalla fine della Seconda guerra mondiale. Molti esperti di economia ci dicono che i figli sono attualmente più poveri dei genitori. Non solo: paiono destinati a restarlo. Più in generale, allargando lo sguardo a ogni ambito della vita collettiva, molti osservatori concordano nel sostenere che con il profilarsi del nuovo millennio e i primi concreti effetti della globalizzazione si assiste ormai a una inversione delle aspettative. Decrescenti, non più crescenti. Ne risulta una radicale messa in discussione dell’idea di progresso, oggi meno persuasiva, con una conseguente ripresa di attenzione nei confronti del passato. Tra nostalgia passiva, paralizzante, e più o meno concrete azioni di recupero, di ripristino. Meno progressisti, più conservatori dunque. In politica, ma non solo.
Qui intendo parlare del conservatore bene inteso. Definito con sufficiente discernimento storico e filosofico. Partiamo dunque dalla storia per transitare subito, fluidamente, alla filosofia. E viceversa. Ne deriva che in questa sede mi limito a equiparare l’aggettivo (sostantivato) al sostantivo. Conservatore come sostenitore del conservatorismo. Un tutt’uno tra postura personale e posizione pubblica. Il personale è politico. E viceversa. Lo faccio per esigenze di esposizione entro spazi brevi, ma anche perché la nostra epoca in qualche misura esige questa connessione biunivoca.
Parto da una premessa di carattere storico e politologico. Il conservatorismo appartiene alla famiglia dei liberalismi. Il liberalismo è un ceppo, da cui sorge il tronco e si sviluppano numerose ramificazioni. Le culture politiche della modernità occidentale che sono giunte, esauste o moribonde, alla soglia del terzo millennio sono maturate con le tre grandi rivoluzioni di fine Settecento. Limitandoci all’Europa, dalla Rivoluzione francese esce un liberalismo che si confronta con la reazione tradizionalista e l’altra rivoluzione che nasce al di qua dell’Atlantico, ossia quella industriale. Dall’incontro-scontro con la prima nasce il conservatorismo, dall’incontro-scontro con la seconda scaturiscono, nello specifico contesto britannico, il cartismo prima, il laburismo poi. Nel Vecchio Continente, invece, riemerge la democrazia che, in parte, è figlia dell’incontro-scontro tra liberalismo e questione sociale, in parte sorge autonoma, come innesto dentro una preesistente tradizione repubblicana riemersa con forza a fine Settecento in autori assai influenti all’epoca. Uno su tutti: Rousseau. Il socialismo, dal canto suo, è parto di una democrazia pensata a misura della nuova questione sociale scatenata dalla rivoluzione industriale, che si diffonde nell’Europa d’inizio Ottocento. È espresso e rappresentato con crescente consapevolezza e veemenza da una nuova classe di lavoratori, il proletariato industriale. Questo, politicizzato tramite l’azione pedagogica di intellettuali di estrazione variamente borghese, recupera e radicalizza la tradizione democratica, che in determinati contesti è già riemersa grazie anche al contributo di un cristianesimo riformato puritano (vedi, ad esempio, levellers e diggers nel Seicento inglese).
Gli incroci sono ammessi. Nella misura in cui accentua il proprio antisocialismo il liberalismo vira verso un conservatorismo anche sociale, rigidamente classista. Là dove, invece, apre al socialismo, cercandovi un punto di conciliazione, il conservatorismo politico si combina con un cauto riformismo. A sua volta, il conservatorismo che ripudia il padre liberale e si affilia al tradizionalismo controrivoluzionario assume quella fisionomia misoneista e retrograda che è più nota, l’unica ed esclusiva secondo i suoi detrattori. Culto del passato; un passato che è cenere per alcuni, fuoco per altri. Mi fermo qui, per non deviare dal focus del tema.
Questa premessa sotto forma di abbozzato albero genealogico serve a sgombrare il campo dalle solite controversie sulla reale o presunta autonomia del conservatorismo come filosofia politica. Intende rispondere a chi lo riduce ad una mera questione di psicologia individuale. Al contrario, il conservatorismo è un’ideologia politica collettiva, favorita e alimentata da uno stile esistenziale del singolo. Ciò non significa che l’una e l’altro possano procedere separati. Con fatica maggiore e probabile paralisi, anzitutto sul piano pratico, e a prezzo della propria credibilità pubblica. Il conservatorismo, al pari, se non più, di altre famiglie politiche, richiede coerenza tra dire e fare, tra il chi si è e il come si opera.
Veniamo al titolo. Parafrasando Leo Longanesi, potremmo chiederci se abbia un qualche senso definirsi conservatori in un mondo di cui nulla è da conservare. Sempre sulla falsariga dello stile caustico dello scrittore romagnolo, potremmo replicare a una simile domanda affermando che è proprio del niente, della radicale negazione eretta a filosofia di vita e sistema sociale, che dobbiamo sbarazzarci. Il nichilismo è proprio ciò che non va conservato di questo nostro tempo. Conservatore sarebbe pertanto l’anti-nichilista per eccellenza. Questo è un primo punto fermo da mettere a referto, per consegnarlo a riflessione e discussione dei lettori di queste mie brevi considerazioni.
Dal suddetto primo punto discende almeno un corollario. Se il nichilismo è amore del nulla, e se, per dirla con l’Antonio Rosmini dei Princìpi della scienza morale, «l’amore del nulla implica l’odio dell’essere reale dal quale si fugge», allora il conservatorismo in quanto anti-nichilismo può dirsi posizione filosofica dotata di una qualche consistenza e, conseguentemente, degna di una pur minima considerazione, stante il fatto che il realismo ne costituisce un tratto distintivo e positivo. Il conservatore, filosoficamente parlando, è colui il quale si palesa come intimamente persuaso dall’idea che esista qualcosa fuori e dentro di noi, una sostanza già data che ci oltrepassa, ma al tempo stesso ci fonda e istituisce. Vengono alla mente i magnifici versi di Clemente Rebora: «Se a me fusto è l’eterno, / Fronda la storia e patria il fiore, / Pur vorrei maturar da radice / La mia linfa nel vivido tutto / E con alterno vigore felice / Suggere il sole e prodigar il frutto». Citazione poetica che racchiude buona parte di un’antropologia conservatrice.
A chiarirlo meglio ci soccorre Georg Simmel, nei termini utilizzati a suo tempo da Mongardini e Maniscalco nel loro tentativo di chiarificazione del «principio conservatore». Occorre infatti considerare la contrapposizione esistente tra la vita e le forme. La vita è creatrice di forme, le genera incessantemente. Conservare è atto che riguarda la vita, non le forme. Il mutamento avversato non è pertanto quello inerente alla stessa essenza della vita, generatrice incessante di forme nuove. Sono bensì queste ultime ad essere sottoposte, una a una, al vaglio critico del conservatore, che discrimina forme nuove da accogliere e forme nuove da respingere. D’altronde, se così non fosse, la posizione conservatrice sarebbe tanto impossibile quanto impensabile. Se già era faticosa la sua collocazione politica e culturale nella veloce modernità ottocentesca, figuriamoci nell’odierna accelerazione postmoderna. Se il mutamento in quanto tale ne costituisse il nemico principale, di conservatorismo potremmo eventualmente parlare solo in termini di scelta anacronistica e impolitica. Né più né meno di un’attitudine esistenziale estetizzante. Per il conservatore non è un problema di mobilità e trasformazione, quanto di velocità e direzione. Moderare, rallentare, frenare sono declinazioni del verbo politico conservare.
Se impostiamo così il nostro ragionamento, risulta apparente il paradosso di un conservatore che, negli ultimi due secoli, ha mostrato di adeguarsi ai tempi che mutano. Non si tratta sempre e comunque di una resa incondizionata. Si piega, si torce e si deforma, il conservatore, sottoposto com’è alla pressione del divenire sociale, ma il tratto che lo contraddistingue è il “conservare innovando”. È resiliente. Non potrebbe essere altrimenti, essendo egli rispettoso della vita, la quale è sì evoluzione ma anche conservazione della propria struttura originariamente generativa. Il conservatore non accoglie però tutte le forme inedite introdotte con il trascorrere del tempo, perché alcune di esse sono nocive quando non distruttive nei confronti della struttura feconda della vita stessa. Si noti: introduzioni quasi sempre umane, dunque alteranti il processo vitale. Modifiche benefiche o nocive? Questo è il problema. Il conservatore, come Prezzolini ha ben sintetizzato, «non è contrario alle novità perché nuove; ma non scambia l’ignoranza degli innovatori per novità». Sa che la storia è intreccio di continuità e discontinuità. Predilige la prima e vigila sulla seconda.
Ovviamente una simile postura intellettuale presuppone la convinzione profonda, radicata fino a farsi inconfutabile, che la dimensione umana non esaurisca l’orizzonte del possibile. In altre parole, il conservatorismo può anche non contemplare l’esistenza di un Dio secondo la rivelazione cristiana, ebraica o musulmana, ma si basa in modo altrettanto fermo sulla credenza che l’umano non è misura di tutte le cose. Come evidenziava Tiziano Bonazzi nella voce appositamente dedicatavi dal Dizionario di politica diretto da Bobbio Matteucci, il conservatorismo «parte dalla coscienza di un limite intrinseco all’uomo, lontano e allontanabile, ma sempre presente». La finitezza umana è l’a priori del vero conservatore.
Ne consegue che il liberalismo è la famiglia politica da cui il conservatorismo, a mio avviso, discende. Il pensiero di autori come Constant e Tocqueville lo conferma. Per non parlare di Burke, deputato whig e padre riconosciuto del conservatorismo. Soprattutto ne sarebbero testimonianza origine e finalità dell’epoca-contesto storico entro cui il termine-concetto “conservatorismo” è nato, con il relativo aggettivo sostantivato introdotto a significare una posizione politico-ideologica. Mi riferisco ovviamente all’età della Restaurazione e ancor più precisamente al 1818, anno in cui Chateaubriand cominciò a pubblicare in Francia la rivista “Le Conservateur”. Con il 1814-15 si restaurava la monarchia, ma non l’Ancien Régime. Un esame anche superficiale della cosiddetta Charte octroyée, con cui Luigi XVIII ricostruiva il regno dei Borbone, conferma quanto sto dicendo. La monarchia o era quantomeno costituzionale o non poteva più essere. La volontà divina dovette ben presto affiancarsi a quella popolare, per cercare di sopravvivere. Pian piano si spense, nell’indifferenza pressoché generale di un Ottocento (gradatamente sempre più euro-atlantico) che, per dirla con Croce, andava a tutta democrazia. Le monarchie da costituzionali diventarono più o meno parlamentari. Dopo essersi schiantate nel primo conflitto mondiale, cedettero volenti o nolenti il posto alle repubbliche. Queste ultime, specie se succedute a monarchie imperiali, non sempre azzeccarono i primi passi istituzionali per mettersi subito in moto, stabili e durevoli. Per molte ci fu infatti la terribile parentesi totalitaria, in parte esito di un passaggio troppo brusco da monarchie semi-assolute a regimi popolari in cerca di sovranità solida ma controllata dal basso. In molti casi la tirannide carismatica fu il dirottamento effettuato da élite armate uscite dalla Grande guerra in nome della rivoluzione, con conseguente interruzione e corruzione del processo di transizione democratica. Fu tra le due guerre mondiali che il conservatorismo, presente all’epoca sotto forma di liberalismo antibolscevico e anticomunista, si compromise al punto tale da perdere molta credibilità. L’alleanza, più o meno temporanea, più o meno convinta, fu fatale. Il secondo dopoguerra lasciò campo aperto al progressismo. Da conservare non parevano esserci altro che macerie e nefandezze. Meglio nasconderle, se non rimuoverle. Tutto ciò che era il passato sapeva di compromesso con l’autoritarismo nazifascista. Dagli anni Sessanta il vento della modernizzazione soffiò possente e il “novitismo”, la frenetica ricerca della novità per la novità, trionfò. Il domani non poteva che essere radioso, per definizione. E fu così che la libertà del liberalismo prese forme lontane dalle preoccupazioni conservatrici. Libertà come diritti individuali di liberazione dalle forme e dai modi del passato.
Vediamo dunque il rapporto tra conservatorismo e diritti. I diritti possono essere intesi come pretese che innescano una lotta di rivendicazione da parte di gruppi, nutriti o sparuti, affinché siano legittimati dal legislatore. Il conservatore bene inteso predilige e soprattutto antepone le pretese verso se stesso a quelle verso gli altri, Stato compreso. Di qui una prevalente avversione verso fenomeni contemporanei la cui ideologia motrice potrebbe essere individuata nel cosiddetto “dirittismo”, ossia la richiesta di trasformazione di ogni desiderio, anche il più particolaristico ed estemporaneo, in diritto riconosciuto e tutelato dalla legge. Il buon conservatore non può pensare il diritto rettamente inteso se non abbinato a un corrispettivo dovere. Si può qui citare un autore non immediatamente ascrivibile al versante conservatore, Gustavo Zagrebelsky: «una cosa è il dovere come soggezione al potere; un’altra cosa è il dovere come risposta a una chiamata di responsabilità nei confronti della condizione dei propri contemporanei e nei confronti di coloro che dovranno poter venire dopo di noi». Gli fa eco altra figura di intellettuale non conservatore, Luciano Violante, il quale oltre dieci anni fa ha sostenuto con forza la seguente, eloquente formula: «il dovere di avere doveri», titolo di un suo saggio del 2014.
In entrambi i casi non si fa che recuperare un’etica aristocratico-repubblicana, antica come le virtù cardinali che vengono sottintese. E con le virtù il conservatorismo non può non avere a che fare. Condotta personale e azione politica si coniugano soprattutto grazie ad una di queste virtù, la prudenza. Nella filosofia platonica è detta “saggezza” e si configura come l’attributo specifico dell’anima razionale. L’azione prudente è quella non dettata da impulsi o passioni, ma da una ragione che pondera interessi e obblighi morali. Senza un discernimento tra bene e male, considerati oggettivi e universali, insomma naturali, diventa difficile sostenere una politica che si voglia conservatrice. Cicerone resta maestro per il conservatore. Anche un liberale di orientamento progressista come John Stuart Mill sentiva di dover affermare che «le leggi non miglioreranno mai se non esisteranno numerose persone i cui sentimenti morali sono migliori delle leggi esistenti». Cos’è questo, se non un richiamo alle virtù antiche?
Non è tanto il progresso a costituire l’avversario principale del conservatorismo, che semmai contesta il progressismo. È piuttosto il giuspositivismo a essergli ostile. La crisi dell’idea di natura e, con essa, del giusnaturalismo ha messo in difficoltà l’argomentazione conservatrice. La natura come matrice e motrice già da sempre data, che oltre un certo limite resta fonte inattingibile e immodificabile, consente al padre liberalismo e al figlio conservatorismo di esprimere la loro essenza, ciò da cui e per cui sono nati, ossia introdurre e mantenere il limite e la misura. Anti-assolutismo, anti-illimitatezza: ecco cosa accomuna il figlio conservatore al padre liberale. Il cugino socialista, specie se marxista, vuole una nuova assolutezza, portata a termine dal progresso delle macchine, per l’emancipazione totale e definitiva dalla fatica e dallo sfruttamento, resi superflui, irrazionali, diseconomici. D’altro canto, in tempi di dismisura globalizzante e tecnocrazie transumaniste l’anti-assolutismo liberal-conservatore riacquista significato e un’indubbia attrattiva. Preservare, recuperare, riparare, incanalare, equilibrare: sono tutti sinonimi del verbo politico conservare. Indicazioni metodologiche per pratiche pubbliche.
Conservatorismo non è sinonimo di avversione pregiudiziale al progresso, anche perché quest’ultimo gli ricorda il padre liberale. Il discorso conservatore può aver buon gioco nei confronti del progressista, nella misura in cui è sia storicamente sia fisiologicamente ormai assodato che non ha alcuna validità la convinzione implicita nel progressismo per cui l’oggi è senz’altro migliore dello ieri, il domani dell’oggi. Progressismo come sclerotizzazione ideologica dell’idea di progresso. Non tutto il nuovo è positivo. Il crollo del Muro di Berlino, che simbolicamente ha riassunto la fine del sogno rivoluzionario comunista, ha svolto in tal senso un ruolo decisivo. È stata confutazione epocale e per questo una cesura nella storia. Ha depotenziato, se non neutralizzato, l’entusiasmo del progressismo politico. Non si stava di certo meglio quando si stava peggio (zarismo), ma non è sufficiente la promessa del meglio per sopportare troppo a lungo un peggio attuale analogo a quello passato, se non persino più pesante (comunismo sovietico). Si constata clamorosamente che non tutto procede in modo lineare e ascendente, per sola forza di volontà umana, tutta e solo umana. Nel 1989 è tramontata e tramortita l’idea della società perfetta, capace di emendare per sempre l’uomo rispetto ai propri limiti, alla necessità di vincoli dentro e fuori di sé. La democrazia diretta moderna si è rivelata totalitaria. L’eguaglianza per non soffocare la libertà non può che attuarsi sotto forma di interventi correttivi, sempre circoscritti e calibrati, da parte di governi dai poteri divisi e limitati, periodicamente sottoposti a giudizio e revisione dal basso. All’eguaglianza ci si approssima per difetto, se una società si vuole anzitutto libera. Di conseguenza, con il crollo dell’Unione Sovietica, il socialismo ha visto sfiorire il suo lato massimalista, rifiorire quello riformista, gradualista. Con ciò lo zio liberalismo è apparso improvvisamente il miglior padre adottivo di un socialismo che, divenuto orfano, ha provato a riproporsi come figliol prodigo.
Nel frattempo, però, il progressismo scientifico-tecnologico non solo è rimasto in piedi, ma ha subìto un’overdose di entusiasmo. Delle due grandi rivoluzioni europee del tardo Settecento, quella industriale si è mostrata la più persistente e determinante. Proprio sul versante della critica alla tecnica il conservatorismo, filosofico e politico, ha riacquisito ampio credito. Non di rado, posizioni a prima vista conservatrici paiono riscontrabili anche “a sinistra”. Si veda tutto il tema dell’ambientalismo e della difesa della natura intesa come habitat non antropizzato, nei cui confronti il verbo conservare è diventato d’obbligo. Se il diciannovesimo secolo si è mosso all’insegna della conquista del selvaggio West, il ventunesimo (sotto questo profilo iniziato almeno dagli anni Settanta del Novecento, ma forse già dopo Hiroshima e Nagasaki) si agita in nome della preservazione, se non recupero, della wilderness, della tutela e conservazione delle varie diversità biologiche. A conferma del rimescolamento delle carte politico-ideologiche, presso certa sinistra si trova più conservatorismo ambientale che presso certa destra. Se ne deduce quindi che il progressismo oggigiorno arretra e, pentito, si converte al principio conservatore?
In certi casi sì, in altri il conservatorismo ambientale va inteso come un concetto tecnico e non politico che comporta scelte del tutto progressiste e all’insegna del mutamento delle forme di una modernità incrementata e implementata, non frenata e bilanciata da iniezioni di elementi tradizionali secondo un principio genuinamente conservatore. In questo caso, il recupero non ha niente a che fare con il conservare perché anzi vuole distruggere le scelte fatte fino ad oggi. Si tratta di stabilire se per un conservatore di oggi tutto il passato, indistintamente, è di segno positivo, oppure, dopo oltre due secoli di modernità galoppante, alcuni specifici pezzi di passato, prossimo piuttosto che remoto, sono da rimuovere, avallando l’azione trasformativa o distruttiva del processo di modernizzazione. Non è detto che gli ultimi sessant’anni siano in tutto e per tutto migliori dell’attuale presente. Se ragionasse così, il conservatore sarebbe meramente speculare al progressista. L’esatto rovescio. Sarebbe uno che afferma che ieri è sempre meglio di oggi. Ovviamente, così non è. E il vero conservatore lo sa. Possiede infatti un acuto senso della storicità del reale.
Resta infine da capire quanto possano essere compatibili la mela biologica e la fauna selvatica col bambino in provetta o partorito da utero in affitto. Sul piano materiale la tecnologia può senz’altro consentire un simile abbinamento. Rimane da discuterne sul piano morale e su quello della coerenza logica. Si invoca la natura naturans per alcuni ambiti, l’artificio tecnologico per altri, in nome di un ambientalismo integralmente antropocentrico. Contraddizione evidente, anche se dovremmo tutti renderci conto che quel che sovente chiamiamo natura è da secoli, spesso millenni, ambiente, ossia habitat antropizzato. Si veda il celebrato paesaggio italiano. D’altro canto, è allarmante la coerenza di chi invece teorizza ecologismi anti-umani, secondo cui l’homo sapiens sarebbe il virus da estirpare per una madre terra da salvare. In nessuno di questi casi si riscontra l’operare di un genuino principio conservatore.
Da queste considerazioni necessariamente brevi e rapsodiche si dovrebbe evincere quanto la proposta conservatrice sia da considerarsi risposta valida a una domanda politica, sociale e culturale destinata a crescere. Soprattutto in Europa. Una condizione di perdita, declinata in molteplici ambiti, connota le società del Vecchio Continente. Da un più si sta passando a un meno, sotto moltissimi profili, anche anagrafici, oltreché economici o di sicurezza, individuali, nazionali, internazionali. Ed è così che il passato d’improvviso appare più roseo del futuro e il sol dell’avvenire meno splendente del tramonto di ieri.