Un’Europa differenziata, federale e con un’anima
di Antonio Magliulo (Università di Firenze)
Nel suo interessante saggio, che apre il dibattito in corso, Robi Ronza pone la domanda giusta: “Europa sì, ma quale Europa?”. La tesi di Ronza è che l’Europa ha abbandonato la strada maestra tracciata dai padri fondatori, i quali avevano immaginato una comunità sovranazionale pienamente democratica. La deviazione sarebbe iniziata, simbolicamente, a Stoccarda nella riunione dei capi di stato e di governo del giugno 1983. Secondo Ronza, occorre spostare poteri e competenze dalla ipertrofica e burocratica Commissione al Parlamento democraticamente eletto dai cittadini europei. Solo così sarà possibile ridurre o colmare l’insostenibile deficit democratico.
Nel dibattito sono emersi molti e interessanti spunti di riflessione. Tra questi segnalo quello di Federico Ottavio Reho il quale, pur condividendo gli obiettivi del saggio di Ronza, prospetta un’altra analisi. La deviazione cruciale sarebbe avvenuta nel 1954 quando fallisce il progetto di creare una Comunità europea di difesa (CED) che avrebbe dotato l’Europa anche di una costituzione. Ostruita la via dell’unificazione politica, si segue quella dell’integrazione economica con le disfunzioni descritte da Ronza. Ma il problema oggi, secondo Reho, non è spostare poteri da una stanza all’altra dell’attico in cui sono collocate le istituzioni europee (Commissione e Parlamento) ma semmai trasferirli verso i piani bassi in cui abitano le istituzioni locali e nazionali, a stretto contatto coi cittadini. L’Europa soffre di un deficit di sussidiarietà, e non di democrazia. La soluzione è tornare allo spirito carolingio della Piccola Europa restituendo agli Stati nazionali una parte della sovranità perduta e trasferendo verso l’alto solo poche ed essenziali funzioni.
Come Ronza, anch’io penso che l’Europa debba ridurre o colmare il deficit democratico e non tanto sul piano formale o procedurale quanto favorendo e ricercando una maggiore legittimazione popolare e, come Reho, penso che il principio di sussidiarietà resti un cardine della costruzione europea anche se, come cercherò di argomentare nelle conclusioni, esso opera oggi nella direzione di richiedere un ulteriore trasferimento di sovranità verso l’alto.
A differenza dei due autori, non vedo però cesure o deviazioni nel cammino europeo ma semmai solo drammatiche battute d’arresto. La storia recente dell’Europa inizia negli anni Quaranta quando emergono tre distinte (e variegate) strategie di unificazione. Per i federalisti il primo passo da compiere è costruire istituzioni sovranazionali che possano gestire e governare la fase di apertura e integrazione dei mercati: prima la politica, poi l’economia. Gli internazionalisti temono invece che l’Europa possa diventare una fortezza chiusa in un mondo destinato a tornare aperto e guardano con maggiore simpatia alla ricostituzione di una comunità economica internazionale fondata su moneta aurea e libero scambio. Infine, i funzionalisti, pensano che il primo e unico passo possibile consista nell’attivazione di un processo di graduale integrazione economica nella certezza che esso condurrà nel tempo anche ad una forma di unificazione politica: prima l’economia, poi la politica.
Nel dopoguerra l’Europa sceglie – o è indotta a scegliere – un approccio funzionalista. Nel 1948 nasce l’OECE, l’organismo comunitario preposto a gestire i fondi del Piano Marshall e nel 1951 la CECA, la Comunità economica del carbone e dell’acciaio che rappresenta una prima forma, sia pure parziale o settoriale, di mercato comune. Quello europeo, è però un “funzionalismo federalista” che concepisce (correttamente) l’integrazione economica come via all’unificazione politica. Nella Dichiarazione letta a Parigi il 9 maggio 1950 da Robert Schuman, che costituisce il manifesto della CECA e dell’intera costruzione europea, si legge infatti: «La fusione delle produzioni di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea (…)». E, sulla scia della CECA, sono i funzionalisti francesi Schuman e Monnet che propongono la costituzione della CED. Lo scopo immediato è risolvere, in una cornice europea, il problema dell’inevitabile (e temuto) riarmo tedesco. De Gasperi capisce però che è anche l’occasione storica per compiere un primo decisivo passo sulla via dell’unificazione politica e riesce a far inserire nel Trattato istitutivo un articolo (l’art. 38) che prevede l’elezione di un’Assemblea ad hoc incaricata di approvare l’istituzione di una Comunità politica. De Gasperi capisce che, senza la partecipazione popolare, l’Europa sarà percepita nel tempo, soprattutto dalle nuove generazioni, sono sue parole, come «uno strumento di imbarazzo ed oppressione». E si spende, fino alle ultime ore di vita, affinché l’Assemblea francese ratifichi il Trattato. Inutilmente. Il 30 agosto del 1954 l’Assemblea francese approva una mozione preliminare che di fatto rigetta il Trattato. La mozione è approvata col decisivo e convergente voto dei nazionalisti di destra e di sinistra. Ricorda Paolo Emilio Taviani, uno dei protagonisti di quelle giornate: «Subito dopo – mentre grida e invettive si levavano da ogni parte – i comunisti in piedi intonarono la Marsigliese; al canto si associarono, in posizione di attenti, i deputati dell’estrema destra».
L’Europa, dopo la caduta della CED, riesce a rialzarsi e riprendere il cammino. Già l’anno dopo, nel 1955, la Conferenza di Messina rilancia la prospettiva di un mercato comune allargato. I Trattati, siglati a Roma il 25 marzo del 1957, si inscrivono ancora nella strategia di un “funzionalismo federalista”. La mèta è politica: «un’unione sempre più stretta tra i popoli europei». La via è economica: la costruzione di un mercato comune o unico in cui sia riconosciuta la libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali (le famose quattro libertà). Il mercato unico, poi definito interno, potrà dirsi ultimato, almeno formalmente, nel 1990, quarant’anni dopo la Dichiarazione Schuman.
La tappa successiva è la costruzione dell’Unione economica e monetaria, l’euro, che entrerà in circolazione (virtuale) nel 1999 e (reale) nel 2002. La decisione, assunta col Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, si inscrive ancora in una logica di “funzionalismo federalista”. Lo scopo è politico: rendere irreversibile il processo di integrazione europea nella fondata convinzione che il mercato unico per ben funzionare, e non disintegrarsi, ha bisogno di una solida unione monetaria e la moneta unica (l’euro) è la più robusta tra le unioni possibili (se ne avrà una drammatica conferma con la crisi del Sistema monetario europeo del settembre 1992). Lo strumento è economico: viene deciso che potranno accedere all’Unione economica e monetaria solo i paesi che rispetteranno cinque fondamentali parametri e tra questi due di finanza pubblica (relativi ai livelli di deficit e debito) codificati nel famigerato Patto di stabilità e crescita. La ragione sostanziale del Patto è che la stabilità finanziaria è una condizione necessaria sia per consentire alla Banca centrale europea di poter condurre una politica monetaria orientata al prioritario obiettivo della stabilità dei prezzi (cosa farebbe in presenza di tassi di inflazione troppo divergenti tra i diversi Paesi?) sia per consentire ai singoli Paesi di attuare manovre espansive in deficit nelle fasi di recessione (come potrebbero farlo in presenza di deficit eccessivi?).
Per alcuni anni sembrò che all’Europa non servisse altro, se non un mercato comune e una moneta unica. Poi, inatteso, arrivò lo tsunami della grande recessione del 2008. E mentre l’America di Obama si prodigava in aiuti pubblici a famiglie e imprese l’Unione europea pretese il ritorno a tappe forzate ai virtuosi livelli di indebitamento. Nel pieno di una grande crisi impose l’austerità. Si trattò di una nuova drammatica caduta: questa volta l’Europa violava uno dei suoi sacri principi fondativi negando solidarietà a Paesi (popoli) in difficoltà. Ma anche questa volta l’Europa seppe rialzarsi e riprendere il cammino e, in occasione della recente crisi pandemica, ha mostrato di aver imparato la lezione sospendendo immediatamente il Patto di stabilità e crescita e varando un piano straordinario di aiuti, denominato Next Generation EU, finanziato anche con l’emissione di titoli di debito comune. La crisi pandemica ha mostrato che l’Europa ha bisogno anche di una politica fiscale comune ma il Next Generation EU terminerà nel 2026. E poi?
Oggi l’Europa si trova di fronte alla sfida più grande: conciliare il duplice ma confliggente obiettivo dell’allargamento ad altri Paesi, a cominciare dall’Ucraina, e del rafforzamento della governance tra i 27 Paesi che già fanno parte dell’Unione europea. È realistico spalancare le porte a tutti e governare, con le attuali regole, un’Unione composta da 30 o 36 Paesi? È realistico immaginare l’approvazione, in tempi brevi, di una Costituzione che trasformi l’Unione in una reale Federazione? Sinceramente non penso.
La prospettiva più realistica sembra essere quella di un’Europa differenziata. Alcuni Paesi potrebbero decidere di restare solo nel mercato comune o interno che richiede comunque una riforma e un aggiornamento come proposto recentemente da Enrico Letta. Altri potrebbero decidere di stare anche nell’Unione economica e monetaria, che al momento comprende 20 Paesi. Infine, altri potrebbero decidere di costituire anche una Unione fiscale, come auspicato recentemente da Mario Draghi, ricorrendo al modello della cooperazione rafforzata o con altre forme.
È difficile stabilire se e a quali condizioni un’Europa differenziata o multilivello possa funzionare. Una condizione è però sicuramente necessaria: il riconoscimento e il rafforzamento della comune e aggiuntiva (rispetto a quelle locali) identità culturale. Le regole sono necessarie ma non sufficienti. Si può stare nel mercato interno anche senza l’euro, come dimostra l’esperienza inglese, ma rispettando le quattro libertà e quando l’Inghilterra ha preteso di regolare la libera circolazione degli altri cittadini europei è stata costretta ad uscire dall’Unione europea. Si può stare nell’Unione economica e monetaria anche senza disporre di un’Unione fiscale ma in futuro, salvo eventi catastrofici, sarà difficile che la Banca centrale possa salvare Paesi con finanze dissestate. Si può – a mio giudizio si deve – creare una vera Unione fiscale che affianchi la politica monetaria ma è necessario rafforzare il modello democratico di governance perché, come insegnano i rivoluzionari americani, “no taxation without representation”. Una nuova Piccola Europa potrebbe dar finalmente vita ad una vera Unione federale che, nel rispetto dei costitutivi principi di solidarietà e sussidiarietà, fornisca quei beni pubblici essenziali (dalla sicurezza all’energia) di cui tanto bisogno ha l’Europa e mantenendo le porte aperte a coloro che, accettando le regole condivise, ne volessero far parte. Come si vede, in ogni caso, è necessaria una coscienza europea.
Quale Europa, dunque? Un’Europa differenziata e federale che per restare unita, unita nella diversità, ha bisogno di un’anima e cioè di riconoscersi in una comune identità culturale.