Europa sì, ma quale Europa? È questa la domanda che oggi viene negata e che invece occorre porsi. Che uno stabile legame politico tra i popoli europei sia tanto utile quanto inevitabile è ormai una cosa ovvia. Sarebbe sciocco negarlo. La questione è, piuttosto, un’altra: l’idea – finora perentoriamente presupposta – che all’unione politica dei popoli europei si possa e si debba giungere soltanto per sviluppo del processo avviato il 18 aprile 1951 con l’istituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), ovvero in forza di trattati internazionali, di patti sottoscritti fra Stati.
In effetti, se si va a rileggere la Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, che ne fu all’origine, ci si accorge che, pur se si invoca un trattato per il suo avvio, non si indica uno sviluppo per trattati, di accordi tra Stati, come via maestra per la costruzione dell’unità europea. Non è a questo cui miravano i grandi fondatori: oltre a Robert Schuman, Jean Monnet, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi. La loro prospettiva aveva al centro i popoli ed era quindi molto più vasta di quella a cui successivamente venne ridotta. Il loro riferimento storico era l’Europa carolingia, come conferma l’intitolazione a Carlo Magno e la proclamazione ad Aquisgrana del massimo premio che l’Ue patrocina, nonché il nome – Palais Charlemagne – della prima sede delle istituzioni europee a Bruxelles.
D’altro canto in contrasto, seppur timido, con la logica dello sviluppo per trattati fu l’immediata istituzione di un’Assemblea Comune della CECA: un’assemblea consultiva composta da 78 membri nominati all’interno dei Parlamenti dei sei Stati membri, che si riunì la prima volta il 10 settembre 1952. Quando poi nel 1957 si istituisce la Comunità europea, nasce anche l’Assemblea parlamentare europea, in quel tempo composta da 142 membri ancora nominati all’interno dei Parlamenti nazionali, che nel 1962 assume il nome di Parlamento europeo. Quest’ultimo dal 1979 viene eletto a suffragio universale diretto. Siamo quindi di fronte alla stranezza di organismi permanenti istituiti in forza di un trattato fra Stati che sono soggetti, seppur limitatamente, al controllo di un Parlamento eletto direttamente dai loro cittadini.
Nella Comunità europea le decisioni venivano prese, previa consultazione non vincolante del Parlamento, dal Consiglio su proposta della Commissione. Istituito nel 1974 come forum informale, ufficializzato nel 1992 e definito nel 2009 istituzione ufficiale dell’Unione europea, il Consiglio europeo – attualmente composto dai capi di Stato o di governo dei paesi dell'UE, dal suo presidente e dal presidente della Commissione europea – «definisce l’orientamento politico generale e le priorità dell’Unione».
La Commissione venne pensata – ciò è evidente anche dal suo nome – come organo tecnico incaricato di fornire documentazione e quindi di dar seguito alle decisioni del Consiglio, ma poi s’impose come organo di governo. Basti dire che oggi ha circa 25 mila dipendenti, più di 30 direzioni generali e 6 agenzie esecutive. Quale altra commissione al mondo può vantare un simile apparato? In effetti, essendoci un vuoto politico al centro delle istituzioni europee, la Commissione lo ha riempito dando origine ad una tecnocrazia che non ha paragoni nel globo.
A norma del comma 2 dell’art. 17 del trattato di Lisbona, «Un atto legislativo dell'Unione può essere adottato solo su proposta della Commissione, salvo che i trattati non dispongano diversamente. Gli altri atti sono adottati su proposta della Commissione se i trattati lo prevedono». È questa la pietra angolare dello sproporzionato potere della Commissione e della sua tendenza ad espanderlo. Malgrado il suo nome, la Commissione è insomma un ente non semplicemente tecnico ma di governo, che per di più ha in esclusiva il potere di iniziativa legislativa. Ciò limita in modo sostanziale il potere del Parlamento europeo, l’unica istituzione democraticamente eletta dell’Unione, e quindi la libertà dei popoli europei.
L’inizio della svolta
Il segnale ufficiale di inizio della svolta verso lo sviluppo per trattati può essere considerata la dichiarazione solenne sull'Unione europea (detta anche dichiarazione di Stoccarda) adottata dai 10 capi di Stato e di governo delle allora Comunità europee a Stoccarda, il 17-19 giugno 1983. La dichiarazione accoglieva la proposta di incaricare i ministri degli Esteri dei Paesi membri di studiare uno sviluppo dell’integrazione europea, nota come “piano Genscher-Colombo”, avanzata il 6 novembre 1981 dai governi di Germania Ovest e Italia.
Da quel momento inizia un periodo cruciale della storia delle istituzioni europee caratterizzato dalla presenza del francese Jacques Delors al vertice della Commissione (1985-1995). Fu in quel decennio che la Commissione si consolidò nel ruolo de facto di governo della Comunità e poi Unione europea, e che con Maastricht venne imboccata stabilmente la via dello sviluppo per trattati e altrettanto stabilmente abbandonata quella del consenso popolare. Non si considerò che si stava passando da un accordo fra Stati ad un vero e proprio soggetto di diritto internazionale, per molti versi simile a uno Stato e che quindi il popolo e non i governi avevano titolo di costituirlo.
In democrazia la sovranità appartiene al popolo. I governi vengono eletti per governare, e non per nominare altri governi; né tanto meno per decidere di cedere ad altri quote della sovranità popolare in forza della quale detengono il potere. Era quindi ai popoli europei che si doveva proporre di dar vita all’Unione europea tramite un’assemblea costituente da essi eletta. Viceversa fu il Consiglio europeo a istituire ad hoc, nel 2001, un organo straordinario e temporaneo, chiamato Convenzione, che il 10 luglio 2003 propose il testo di una Costituzione europea. Questa però non ebbe seguito perché, sottoposta a referendum popolare in Francia e nei Paesi Bassi, venne respinta.
La Convenzione – che aveva come presidente il francese Valery Giscard d’Estaing e come vicepresidenti l’italiano Giuliano Amato e il belga Jean-Luc Dehaene – aveva esplicitamente deciso di elaborare una costituzione fondata sulla filosofia, in particolare sul pensiero di Kant e dei suoi eredi, prescindendo dalla storia. Osserviamo qui per inciso che anche le banconote dell’euro sono state disegnate all’insegna della censura della storia. Diversamente dalle valute nazionali che hanno sostituito, esse infatti non contengono alcun richiamo o immagine di personaggi storici, ma soltanto raffigurazioni schematiche di stili architettonici disegnate a prescindere da qualsiasi edificio esistente.
In tale clima, la Convenzione respinse la proposta di inserire nel documento un richiamo esplicito alle radici cristiane dell’Europa, e per questo anche alle altre sue radici, limitandosi ad inserire nel preambolo della Costituzione questa generica e anonima frase: «ispirandosi alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell'Europa, i cui valori, sempre presenti nel suo patrimonio, hanno ancorato nella vita della società il ruolo centrale della persona, dei suoi diritti inviolabili e inalienabili e il rispetto del diritto».
Caduta la Costituzione, con il trattato di Lisbona i governi degli Stati membri ne ripresero gran parte dei contenuti. Tra gli altri, inserirono nel suo preambolo la frase «Ispirandosi alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell'Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza e dello Stato di diritto», che, come si può notare, ricalca quasi esattamente ciò che in proposito era stato scritto nella Costituzione.
Molto interessante al riguardo è andarsi a rileggere Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam (Mondadori 2004), volume scritto a quattro mani da Marcello Pera e Joseph Ratzinger nel quale viene portata alla ribalta ciò che in quegli anni la politica si ostinava a censurare, ossia la fondamentale questione dell’essenza dell’Europa e del suo ruolo nel mondo.
Le istituzioni europee e la caduta del muro di Berlino
Il tempo di Delors e delle sue Commissioni, oltre che dalla scelta di cui si diceva, fu anche caratterizzato dall’accadere di un fatto cruciale del quale non si volle tener conto: la caduta del muro di Berlino, il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra fredda. A seguito di questi eventi l’Europa ritrovò – anzi: riscoprì – la propria parte orientale riassumendo dimensioni delle quali ci si era dimenticati. A causa di ciò, tutto il lavoro preparatorio di quelli che sarebbero poi divenuti i trattati di Maastricht era da rivedere. Viceversa, si fece come se nulla fosse accaduto: all’ombra di un’imposizione assoluta del principio dell’«acquis communautaire» – peraltro puramente consuetudinario – ci si apprestò a costruire un’Unione secondo modelli definiti quando la Germania era divisa in due parti, come pure l’intera Europa, e nell’Europa occidentale si faceva come se l’Europa orientale non ci fosse.
In tale contesto, Delors lavorò imperterrito alla costruzione di un’Unione, poi varata a Maastricht il 7 febbraio 1992, da lui definita “federale” ma in effetti fondata sul modello centralistico dello Stato francese, nella quale tutti i poteri fondamentali – tramite competenze esclusive, competenze condivise e raccomandazioni – sono destinati a passare progressivamente nelle mani della Commissione, la quale detiene il monopolio dell’iniziativa legislativa, e lascia infine agli Stati membri funzioni esecutive e di adattamento sul modello di quelle delle prefetture francesi.
Sulla scia di quell’enorme e minuzioso trattato – 252 articoli ex-novo, 17 protocolli e 31 dichiarazioni – alcuni anni più tardi, il 17 ottobre 2007, verrà poi sottoscritto a Lisbona il vigente trattato dell’Unione europea. Frutto di tale pluridecennale e gigantesca macina diplomatica è l’attuale Unione europea non a caso caratterizzata da colossali limiti che riassumiamo qui di seguito. L’Unione:
· sconta il fatto di esser stata costruita senza dare adeguata rilevanza all’essenza dell’Europa e prescindendo da qualsiasi positiva attenzione alla sua storia plurimillenaria e ai suoi straordinari frutti;
· è, all’apparenza, un soggetto di diritto internazionale organizzato democraticamente, alla cui base c’è però non una Costituzione votata dal popolo, bensì dei trattati che non garantiscono né la distinzione certa e stabile dei poteri tra Stati membri e Federazione, né un’autentica democraticità dell’insieme;
· è stata pensata a misura dell’Europa occidentale e senza tener conto delle specificità dell’Europa orientale, che attengono non solo alla cultura ma anche alla storia più recente; in particolare, l’Europa orientale non partecipò alla vicenda coloniale e quindi non si sente coinvolta in tutto ciò che ne deriva fino ad oggi, comprese le immigrazioni dell’emisfero sud;
· non si fonda sulla sovranità popolare bensì su accordi tra Stati; questo fatto è in radicale contrasto con l’idea, affermatasi in Europa sin dal Diciannovesimo secolo, che la sovranità appartiene al popolo e che quindi sia il popolo il soggetto cui compete di legiferare costituzionalmente in tema di sovranità;
· ha di fatto un “governo”, costituito dalla Commissione, che si confronta in primo luogo con il Consiglio europeo, né l’una né l’altro essendo a ciò legittimati da un’elezione autenticamente democratica;
· non garantisce la tutela equilibrata dei diversi interessi geo-strategici – atlantico, baltico, danubiano e mediterraneo – che s’incrociano dentro l’Europa;
· è dotata di un Parlamento che, benché eletto democraticamente, non ha diritto di iniziativa politica ed è in sostanza soltanto una camera di revisione.
Sono questi, a mio avviso, alcuni dei problemi di fondo che dovrebbero emergere in occasione delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo.