Le condizioni di un'Europa sussidiaria
di Federico Ottavio Reho (Wilfried Martens Centre for European Studies, Bruxelles)
In un suo lavoro di qualche anno fa, Giandomenico Majone, importante studioso dell'integrazione europea, liquidò l'idea che si potessero colmare le lacune democratiche dell'Unione europea rafforzando i poteri del Parlamento, la sua unica istituzione eletta direttamente dai cittadini. Si trattava, spiegò ai molti fautori di questa strada, della solita tendenza degli europeisti ortodossi ad offrire soluzioni procedurali a problemi sostanziali. Il suo ragionamento mi è tornato in mente leggendo il saggio di Robi Ronza che, se ho ben inteso, individua il problema centrale dell’Unione nella prevalenza, sin dalla metà degli anni ’80, dell'Europa dei trattati, dei governi e della tecnocratica e centralistica Commissione sulla, ben diversa, Europa “carolingia” della sovranità popolare e delle istituzioni democratiche, sognata dai padri fondatori. Secondo Ronza, a ciò si aggiungerebbe, sin dalle disgraziate dispute sull'opportunità di un riferimento alle radici cristiane del continente nella bozza di costituzione europea poi naufragata all’inizio di questo secolo, una sostanziale indifferenza al problema dell'identità storica dell’Europa e di come valorizzarla nel nuovo mondo, multipolare e competitivo, in cui ci è dato vivere.
Condivido in gran parte lo spirito e gli obiettivi del contributo di Ronza, ma non sono del tutto persuaso da alcune sue diagnosi e terapie. Mi pare innanzitutto che il vero punto di svolta nel percorso di integrazione non sia stata, com’egli ritiene, la dichiarazione di Stoccarda del 1983, ma già il fallimento, nel 1954, della Comunità europea di difesa, ovvero di un’iniziativa che prevedeva, all’art. 38 del suo trattato istitutivo, di attivare il potere costituente dei popoli europei per redigere una costituzione “federale o confederale”. Bloccata quella via eminentemente politica, l’integrazione s'incamminò su due sentieri assai più ostici per la democrazia: il funzionalismo ispirato dall’ingegnoso Jean Monnet e l’integrazione per via giudiziaria (“integration through law”, come la chiamarono gli studiosi americani che per primi se ne occuparono, a partire da Joseph Weiler).
Il metodo funzionalista è basato sulla progressiva condivisione della sovranità in un numero sempre più vasto di ambiti, a partire da quelli apparentemente meno controversi dell’economia e del mercato. Nei decenni, ha contribuito alle disfunzioni dell’Unione attuale, una specie di confederazione alla rovescia, debole nelle fondamentali materie di tradizionale competenza federale (per esempio la difesa, su cui ci si arrabatta solo ora che la guerra infuria in Europa orientale e in Medio Oriente), e pervasivamente intrusiva in ambiti che le federazioni compiute lasciano volentieri alla cura degli Stati membri (per esempio, la dettagliata regolamentazione economico-sociale e, in misura crescente, quella dei valori e degli stili di vita). L’integrazione per via giudiziaria fu invece resa possibile dalla costituzionalizzazione dei trattati operata dalle sentenze della Corte di giustizia europea sin dagli anni Sessanta. Come dimostrato dai recenti studi di Dieter Grimm, raffinato giurista ed ex giudice della Corte costituzionale tedesca, ciò genera un “eccesso di costituzionalizzazione” che restringe lo spazio di manovra delle istituzioni democratiche a livello sia nazionale che europeo, favorendo anche, indirettamente, lo straripamento delle competenze europee al di fuori delle materie e dei compiti ad esse riservati.
Conferire un diritto di iniziativa legislativa al Parlamento europeo, la soluzione istituzionale auspicata da Ronza, non cambierebbe in nulla questi problemi strutturali. Potrebbe anzi peggiorarli, visto l’approccio centralistico, di derivazione spinelliana, che caratterizza la maggioranza dei suoi membri (non a caso, uno dei più influenti raggruppamenti informali di parlamentari europei è intitolato proprio ad Altiero Spinelli, il cui federalismo “centralistico” ho avuto modo di criticare altrove). Più promettente mi parrebbe recuperare lo spirito e promuovere la pratica di un federalismo europeo anti-centralistico e sussidiario, quello che animò il meglio della tradizione cattolica e popolare nei primi decenni dell’integrazione continentale. Esso corrisponde al vero nocciolo duro di una concezione “carolingia” dell’Europa.
Una tale concezione riconosce, pur senza derive confessionali, che la matrice storica dell’unità sovranazionale europea fu l’esperienza della Res Publica Christiana, parzialmente istituzionalizzata proprio nell’impero carolingio. Senza quell’esperienza di comunione e di civiltà, da cui si svilupparono, come sue articolazioni interne, tutte le nazioni d’Europa, difficilmente l’Unione europea di oggi potrebbe essere più di una società di nazioni sovrane e indipendenti, alla stregua dell’ASEAN o del MERCOSUR. Un’Europa carolingia è poi anche necessariamente un’Europa sussidiaria, in cui l’Unione funge principalmente da paladina dell’integrità, dell’autonomia, dell’indipendenza e dell’identità dei suoi popoli, non da forza centralizzatrice e livellatrice. Questa, mi sembra, non quella delle quote di genere, è la vera Europa delle diversità. La sua realizzazione richiede che si trasferiscano ad istituzioni sovranazionali pienamente legittimate ad esercitarle un numero limitato di grandi competenze federali strategiche, tra cui senza dubbio la difesa e la politica estera, mantenendo invece quante più prerogative possibile nella disponibilità esclusiva dei livelli di governo inferiori, dai singoli stati membri alle regioni e alle comunità locali. Richiede anche che si correggano le storture create da oltre mezzo secolo di integrazione con metodo funzionalista e per via giudiziaria, riaprendo spazi di contestazione democratica a livello sia nazionale che sovranazionale, separando meglio le prerogative dell’Unione da quelle dei suoi stati membri e rafforzando le guarentigie giudiziarie, istituzionali e politiche a presidio di una sussidiarietà forte.
Dato che Lisander si propone di far dialogare cattolici e liberali, concludo osservando che l’Europa sussidiaria, da me descritta qui per sommi capi privilegiando una sensibilità cattolica, non sarebbe probabilmente dispiaciuta neppure al meglio del liberalismo classico novecentesco, dall’italiano Luigi Einaudi all’austro-britannico Friedrich von Hayek, al cui punto di vista ho dedicato qualche riflessione in passato. Entrambi si espressero a favore di una federazione europea, ma lo fecero all’insegna di un federalismo snello e decentralizzato, pensato per istituzionalizzare un grande mercato unico continentale animato da una concorrenza rigorosa. Un federalismo, anche qui, rispettoso di quelle autentiche diversità che l'adattabilità e la flessibilità del mercato riescono quasi sempre a soddisfare ben meglio dei processi politici anche democratici, tipicamente omologanti e maggioritari. Un federalismo da cui, ahimè, l’Unione europea negli ultimi anni si è sempre più discostata, mostrando tendenze all’interventismo, alla regolamentazione e persino alla pianificazione (si pensi al Green Deal) che, nel lungo periodo, rischiano di mettere a repentaglio il benessere degli europei, riducendo drasticamente la loro capacità di sperimentare, innovare e competere. In conclusione, mi pare dunque che le nostre speranze di porre l’Unione europea su basi più solide dopo le elezioni del prossimo giugno risiedano in parte proprio in una riscoperta del federalismo cattolico, di quello liberale, e soprattutto della profonda affinità e compatibilità tra di essi.