Utopie, fallimenti, rimescolamenti: un approccio realista all’Unione europea
di Lorenzo Castellani (Luiss Guido Carli)
Lo scritto di Robi Ronza sulla formazione dell’Unione europea e la genesi dei suoi poteri ben rappresenta i fraintendimenti, le promesse mancate, l’afflato a tratti utopistico, i nodi mai affrontati che hanno portato alla costruzione di una polity sovranazionale che non ha pari nella storia istituzionale, ma che al tempo stesso combatte quotidianamente con le proprie contraddizioni e asimmetrie. Il livello di complessità della costruzione europea è oramai tale che nessuno, nelle élite politiche, sembra voler tentare di mettere ordine.
Fino a qualche anno fa la discussione intorno alle istituzioni europee era piuttosto fervente sia a livello politico che accademico. Fino a prima della pandemia e delle guerre, nel dibattito politico e accademico si confrontavano almeno tre diversi modelli d’intendere l’Unione europea, con varie sfumature in ognuno dei tre a seconda della sensibilità politica. C’era una idea euroscettica, la quale puntava sulla confederazione degli Stati, il mantenimento del mercato unico, la fine dell’unione monetaria, l’arresto del processo di integrazione e la sua regressione soprattutto per quanto concerneva la superiorità del diritto europeo. C’era una idea centrista d’Europa, quelle prevalente nell’establishment e nel parlamento europeo, secondo cui l’integrazione funzionale, quindi economica e amministrativa, doveva procedere ad ogni costo con l’intento di arrivare ad una unione politica federale in cui la sovranità degli Stati sarebbe stato progressivamente diluita in quella europea. Il mantenimento del mercato e della moneta unica senza dimenticare i principi di sussidiarietà e federalistici avrebbero dovuto far parte di questo equilibrio federalista. C’era poi un’idea di sinistra, meno rilevante sul piano politico ma forte nella discussione, incentrata sugli stessi obiettivi dei centristi, ma con un approccio più dirigista e redistributivo sul piano economico, di promozione e affermazione di certi diritti civili dal centro dell’Unione europea, uno sforzo teso ad organizzare un super-Stato socialdemocratico europeo.
Per molti aspetti, tutti e tre i modelli sono falliti e, al tempo stesso, si sono affermati. Il progetto euroscettico è fallito perché gran parte di queste forze, una volta giunte al governo, non sono state capaci di far retrocedere l’integrazione europea e hanno rinunciato agli obiettivi politici più audaci come la messa in discussione della moneta unica. Non solo, come si è soliti dire, queste forze sono state “istituzionalizzate”, quindi neutralizzate nel loro intento radicale, ma spesso hanno esse stesse chiesto un maggiore interventismo europeo, accettando i piani di rilancio economico dell’Unione e lavorando per una maggior collaborazione nella difesa dei confini di fronte alle ondate migratorie. In questa fase nessuno mette più seriamente in discussione l’esistenza dell’Unione europea, la superiorità del suo diritto o della moneta unica per quei paesi che ne fanno parte. Tuttavia, al tempo stesso, gli euroscettici sono stati in grado di frenare, su alcuni punti, tanto il proseguo dell’integrazione politica europea quanto gli eccessi più dirigisti di Bruxelles, come nel caso del green deal.
Il progetto centrista è fallito perché nessuno oggi vuole più seriamente sedersi a discutere di una costituzione europea. Esso sconta un eccesso di utopismo, la pretesa che all’integrazione economica e burocratica potesse seguire quella politica con una certa naturalezza. Ogni politico di governo oggi riconosce che non ci sono le condizioni per una rifondazione politica, in senso federale, dell’Unione europea. I centristi hanno giocato più in difesa dell’esistente negli ultimi anni rinunciando a spostare in avanti la discussione per l’oggettiva resistenza dell’elettorato. Hanno evitato delle catastrofi, dal loro punto di vista, come l’uscita di qualche paese dall’area euro, ma hanno dovuto subire e accettare, ad esempio, la Brexit e realizzare che superare davvero il metodo intergovernativo è allo stato attuale impossibile così come difficile è il rafforzamento della politica economica comune che non passi per una via amministrativa e tecnocratica. Da questo punto di vista il Next Generation EU può essere considerato un successo per i centristi con più competenze indirizzate dal centro e un budget europeo accresciuto, ma al tempo stesso non c’è abbastanza fiducia reciproca per passi in avanti come la creazione di un Tesoro europeo, l’emissione di eurobond o un rafforzamento del Parlamento europeo nei processi di governance. Se si guarda il bicchiere mezzo pieno da quella prospettiva: euro e mercato comune sono salvi dopo anni di crisi di legittimità, gli accordi di Schengen anche, un ulteriore allargamento ad altri paesi è ritenuto possibile, il controllo comune dei confini potrà avere degli avanzamenti, alcuni piani economici (Recovery plan, energia) su questioni che esorbitano l’interessa nazionale sono stati accettati dai governi nazionali.
Il progetto della sinistra europea è fallito in primo luogo perché mai la destra e il centro hanno vinto elezioni nazionali come in questo ultimo quinquennio, un segno della debolezza dell’ideologia politica della sinistra. A cascata questi successi si portano dietro nuove debacle per la sinistra europea: si pensi agli insuccessi in molti paesi dell’ideologia dei diritti civili e dell’impossibilità di imporre i desiderata della sinistra agli stati membri; alla riscrittura del green deal di fronte alle bocciature del Parlamento europeo e alle resistenze dei governi nazionali; alla difficoltà di imporre qualunque politica sociale e di redistribuzione di stampo europeo.
Come si vede, dunque, l’intreccio istituzionale europeo dove piani locali, nazionali, sovranazionali e internazionali si mescolano e vincolano a vicenda non rende possibile per nessuno realizzare il proprio ideale di Europa. La realtà supera l’ideologia per tutti e talvolta mortifica la politica considerando che negli ultimi quindici anni l’esempio più muscolare dell’europeismo è considerato il “whatever it takes” pronunciato da Mario Draghi quando era banchiere centrale. Inoltre, la combinazione di pandemia, rallentamento della globalizzazione e nuove guerre ha costretto tutte le forze politiche a rivedere in qualche modo le priorità. In alcuni settori, come lo sviluppo tecnologico, l’energia e l’immigrazione, non si può fare a meno di un congiunto sforzo europeo, sforzo la cui forma è sempre diversa e contrattata a seconda delle aree di intervento, ma al tempo stesso è stato accettato che sono gli Stati nazionali ad attuare i piani e a co-finanziarli, a decidere come spendere i fondi europei, a mobilitare le forze armate e l’industria della difesa, a realizzare infrastrutture che devono connettersi tra loro, a pattugliare i confini, e soprattutto a riscuotere le tasse dei cittadini e a gestire il debito pubblico. Gli stessi vincoli di finanza pubblica sono stati forzati dai governi nazionali, si pensi alla sospensione del patto di stabilità e alla sua riforma, in modi che un tempo sarebbero stati definiti “irresponsabili” e “populisti”; la politica monetaria al contrario ha raggiunto una estensione, con i programmi della BCE, che va ben oltre i limiti formali dei Trattati europei. Che l’Unione Europea si indebolisca o si rafforzi nella sua capacità politica in una certa area ciò accade sempre attraverso un processo negoziale tra Stati-nazionali. Ne consegue che l’Unione Europea è un grande puzzle: alcuni pezzi possono incastrarsi a livello sovranazionali, altri restano custoditi nelle mani dei governi nazionali.
Quale futuro, dunque, per l’Europa? Non esiste una formula magica, aderente alle ideologie più diffuse e una possibile soluzione può forse essere fornita da un nuovo pensiero realista. Se gli eventi internazionali richiedono una certa dose di coordinamento e di azioni congiunte sia sul piano della difesa e della sicurezza che economico, il rafforzamento del mercato interno a causa del protezionismo altrui, allora nulla vieta che l’integrazione prosegua in questi settori ma resti più indietro in altri. Si pensi al vero federalismo americano: il police power, cioè di disegnare e attuare le politiche, risiede ancora negli Stati, mentre l’Unione federale nasceva per esigenze di difesa, di moneta e di bilancio. Nell’Unione europea si è invece diffusa, per i caratteri della cultura europea, la mania di normare e regolare quasi qualunque aspetto della vita dei cittadini talvolta con effetti controproducenti. Non è impensabile costituire degli euro bond per finanziare investimenti in difesa o nelle tecnologie strategiche, ma è assurdo pensare di regolare in modo complessivo diritti civili, istruzione, cultura, organizzazione amministrativa, welfare e ambiente dal centro dell’Unione. Questi sono attributi del police power, formatosi nella sanguinosa storia europea che afferisce allo Stato moderno, che devono rimanere nella dimensione locale e nazionale come suggerito anche dal principio di sussidiarietà codificato dai trattati. È questa ipotesi realistica essa stessa una utopia? La domanda resta aperta per future discussioni.