Papa Francesco negli ultimi anni ha parlato spesso di una «terza guerra mondiale a pezzi» che si starebbe svolgendo sotto gli occhi disattenti e incuranti del mondo. I numerosi conflitti che silenziosamente mietono decine di migliaia di vittime ogni anno aumentano sempre di più. Viviamo oggi in un contesto geopolitico in cui giorno dopo giorno la tensione e la possibilità di un’escalation militare su scala globale crescono spaventosamente. La narrazione che di questi conflitti spesso fanno i media internazionali tende a raccontarli come scontri su scala regionale e tra di loro indipendenti. Questa narrazione, però, non riesce a dare una risposta esauriente alle domande sul perché negli ultimi anni, in maniera sempre maggiore, interi popoli si trovano trascinati in guerra. Vi è forse un filo rosso che collega la guerra in Ucraina, il conflitto israelo-palestinese, i colpi di stato in Sahel e le tensioni tra Cina e Taiwan?
Nel febbraio 1945 Franklin Delano Roosevelt, Winston Churchill e Iosif Stalin si incontrarono nella penisola di Crimea a Yalta per decidere degli assetti mondiali che avrebbero dovuto instaurarsi alla fine del secondo conflitto mondiale che di lì a qualche mese si sarebbe concluso. Questa conferenza riuniva i rappresentati delle tre potenze mondiali che avevano, con enormi sacrifici, sconfitto la Germania nazista e posto fine al suo potere in Europa. È solo a partire da questa conferenza che si possono comprendere gli equilibri mondiali che hanno segnato tutta la storia della seconda metà del Novecento. Le potenze, infatti, si riunirono per spartirsi il mondo e creare quindi delle proprie sfere di influenza. Questa non è una peculiarità propria della conferenza di Yalta, bensì la naturale conseguenza di ogni trattato di pace. Nelle paci di Vestfalia del 1648, di Vienna del 1815 e di Parigi del 1918 troviamo lo stesso principio: i vincitori non solo dettano le condizioni ai vinti, ma cercano un accordo tra loro che possa garantire ad ognuno un’area di potere esclusivo che sia alla base della pace per i decenni successivi. Gli equilibri fissati a Yalta, però, in particolare con la fine dell’Impero britannico e l’implosione dell’Unione sovietica sono progressivamente venuti meno. La Gran Bretagna si trova oggigiorno relegata a potenza di media grandezza con una politica interna altalenante e una Brexit che l’ha sganciata dall’Unione europea lasciandola isolata. Gli Stati Uniti - in particolare sotto l’amministrazione Trump – hanno iniziato a riflettere sul loro ruolo di garanti della sicurezza delle democrazie sparse nel globo, ma anche la loro stessa partecipazione all’Alleanza atlantica. La Russia, infine, dopo lo shock del 1991 sta cercando di tornare ad essere un player globale innanzitutto riacquistando influenza su quelli che erano sotto l’URSS gli Stati che costituivano la cintura di sicurezza tra la Russia e il mondo esterno.
Se si osserva quindi la cartina geografica, si vede che vi è una lunga dorsale instabile che collega ogni conflitto nel mondo. Questa linea di tensione parte dai Paesi baltici, in cui da mesi si stanno scavando trincee per farsi trovare preparati ad una possibile invasione russa e che stanno supportando in maniera fondamentale Kiev (la sola Estonia sta dando a Kiev un aiuto pari al 3,55% del proprio Pil interno). Poco più a sud si trova la guerra in Ucraina: iniziato ufficialmente il 22 febbraio 2022, ma in corso dal 2014 e causa di più di 25mila morti in otto anni, questo conflitto è diventato un passaggio decisivo del futuro di Vladimir Putin. Iniziato come una Blitzkrieg, ma divenuto ben presto una guerra di trincea che richiama alla luce ricordi lontani della Prima guerra mondiale, questo conflitto vede coinvolti da una parte la Russia e le autarchie a lei alleate, in particolare Corea del Nord e Iran, e dall’altra l’Ucraina supportata economicamente e militarmente dai Paesi membri della NATO.
Proseguendo ancora verso sud, si incontra il conflitto israeliano-palestinese. A seguito dell’attacco effettuato il 7 ottobre da parte di Hamas che ha causato 1400 morti, l’esercito israeliano ha invaso la Striscia di Gaza causando 30mila morti, in particolare tra la popolazione civile. Nelle operazioni volte a distruggere Hamas, gruppo terroristico sostenuto dall’Iran, sono stati attaccati anche obiettivi in Siria e nel Libano meridionale che hanno fatto aumentare la tensione in tutta la regione mediorientale. Collegato al conflitto in corso in Palestina vi è la questione degli Houti dello Yemen. Il gruppo armato – che si presume essere sostenuto dalla Repubblica iraniana – ha preso il controllo della parte occidentale del Paese e ha iniziato a minacciare il traffico mercantile nel Mar Rosso attraverso attacchi alle navi in transito con missili e droni kamikaze. Se ci si sposta verso ovest, precisamente nel Sahel, ossia la striscia di terra che va da Senegal e Mauritania fino al Corno d’Africa, vi si trova una regione che negli ultimi anni ha assistito a 11 colpi di Stato, di cui 7 hanno avuto successo. Questa zona è causa di due grossi problemi per il Vecchio continente: il terrorismo islamico e la crisi migratoria. A causa della debolezza di questi Stati e dell’instabilità della regione, molte zone sono controllate direttamente da gruppi terroristici islamici che hanno reso il Sahel il loro quartier generale. A causa delle guerre e della crisi climatica, un numero ingente di persone ha lasciato la propria terra dirigendosi verso il Mediterraneo con la speranza di arrivare un giorno in Europa.
Lasciando il continente africano e proseguendo verso l’Oriente si trovano due zone profondamente instabili: l’Iran e l’isola di Taiwan. Queste due zone interne sono caratterizzate dal fatto che si vede all’opera lo stesso principio: ad una crisi interna si risponde con una maggior aggressività in politica estera. La Repubblica islamica si trova oggi spaccata profondamente. Strati sempre maggiori di popolazione, in particolare quella femminile, iniziano a ribellarsi all’imposizione della sharia e alla teocrazia di Ali Khamenei. A seguito della morte di Mahsa Amini nel settembre 2022, numerose rivolte e proteste si sono scatenate nel Paese per chiedere maggiore libertà per le donne e la ricostruzione di uno Stato laico. Per sopperire a questa situazione e per ricompattare l’opinione pubblica interna, l’Iran sfrutta l’instabilità del Medio Oriente e il bisogno di aiuto militare della Russia. A quest’ultima ha iniziato a vendere in particolare i temibili droni-kamikaze Shahed-136. Per quanto riguarda il Sud-est asiatico, la Cina si trova ad affrontare la fine della sua perenne crescita finanziaria. In uno Stato che ha fatto della crescita economica il fulcro del patto che dall’inizio dell’era Mao lega il popolo cinese al Partito comunista, una forte crisi finanziaria potrebbe scardinare lo scambio che vede la libertà barattata per il benessere economico. Per uscire da questa situazione la Cina sta aumentando la pressione politica su Taiwan in diversi modi. Oltre che a esercitazioni militari sempre più aggressive, Pechino ha tentato di condizionare - senza successo - le elezioni presidenziali che hanno portato al potere nel gennaio di quest’anno il partito indipendentista legato alla persona di Lai Ching-Te.
Dall’analisi appena fatta – sebbene solo abbozzata – si delinea uno scenario molto chiaro che ha bisogno di essere approfondito. Le grandi potenze che nel 1945 si erano accordate per spartirsi il mondo in zone d’influenza sono profondamente cambiate, mentre nuovi attori si sono affacciati ormai da tempo sulla scena mondiale. L’Africa è passata dall’essere continente sfruttato e insignificante, ad essere – secondo le previsioni di molto analisti – il continente attorno al quale si giocheranno gli equilibri mondiali del prossimo futuro. La sola Nigeria avrà nel 2050 la stessa popolazione dell’intera Unione europea. Già oggi l’Africa è il continente più giovane del mondo con un’età media di 18 anni.
Grazie alla sua potente crescita demografica e alla sua immensa disponibilità di materia prime, il continente nero è già al centro delle attenzioni di parecchie potenze mondiali. Lo testimoniano non solo la presenza militare di vari Stati stranieri come la Cina che possiede una base navale in Gibuti e la compagnia di contractors Wagner controllata dagli oligarchi russi; ma anche i numerosi contratti di cooperazione economica per lo sfruttamento del sottosuolo che vengono stipulati. È soprattutto la Cina – che estrae circa il 70% delle terre rare a livello mondiale – a commerciare con gli Stati africani in cambio della costruzione di infrastrutture. Anche l’Unione europea – sebbene in maniera minore – sta provando a stipulare partenariati con diversi protagonisti africani per non lasciare il monopolio dell’Africa a Pechino.
In Asia sono presenti gli unici due Stati al mondo che superano il miliardo di abitanti. Entrambi – assieme all’Iran – erano assenti alla conferenza di Yalta e oggi cercano tutti un riconoscimento del loro ruolo sulla scacchiera mondiale. A parte l’Iran che sta ancora lavando al suo progetto, sia Cina che India sono dotate anche delle armi nucleari che le rendono estremamente potenti a livello militare. In particolare, l’India si fa apri-fila di una «Terza Via», ossia un tentativo di creare un terzo polo composto da players di medie dimensioni in grado da risultare indipendente dalle due maxi-potenze rappresentate da Stati Uniti e Cina.
Tra coloro che mancavano quasi ottant’anni fa in Crimea vi è anche un ultimo attore, estremamente particolare e unico nel suo genere: l’Unione europea. Questo progetto politico innovativo nasce dall’intuizione di tre grandi figure politiche - Alcide de Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman –, che alla fine della Seconda guerra mondiale hanno deciso di iniziare un cammino comune che potesse offrire all’Europa pace e prosperità. L’unicità di questo modello sta nel fatto che esso è un accordo tra vincitori e vinti: solo così si poteva infatti costruire un progetto duraturo. Oggi l’Unione europea presenta al mondo intero un esempio di cooperazione interstatuale che non ha eguali nella storia. Il processo di integrazione europea ha fatto sì che l’UE non sia più solo un’unione economica, ma un soggetto desideroso di essere protagonista a 360 gradi sulla scena mondiale.
Per evitare che i conflitti di cui si è appena parlato conducano il mondo ad un terzo conflitto mondiale che non sarebbe più a pezzi bensì totale, è necessario che i nuovi protagonisti si accordino per formare un nuovo ordine globale che possa garantire la pace per i prossimi decenni. Ogni trattato di pace ha la sua durata, e molto probabilmente Yalta ha ormai raggiunto la sua fine. I conflitti sempre più numerosi che vedono coinvolti i nuovi player globali non sono altro che tentativi di ottenere un riconoscimento da parte della comunità internazionale e per affermare unilateralmente la propria sfera d’influenza. La globalizzazione e l’internazionalizzazione hanno reso inevitabile che gli interessi delle grandi potenze confliggessero anche a migliaia di chilometri di distanza. Se per ora questi nuovi players si stanno confrontando in maniera indiretta su campi da gioco esterni ai loro territori, è necessario che essi trovino un accordo prima che siano essi stessi a scontrarsi conducendo il mondo in un nuovo conflitto che nessuno desidera vedere. Ecco perché l’Unione europea, lungi dall’essere per il momento un vero e proprio attore politico abilitato all’uso di politica estera e difesa comuni rimane strategica, è la sola che nello scacchiere globale possa parlare non il linguaggio dello status quo ma quello del futuro.
E questo vale anche sul piano economico-finanziario. L’Europa può attingere a piene mani dalle teorie dell’economia sociale di mercato. Nei termini dei suoi padri fondatori, l’economia sociale di mercato è un ordine economico e sociale che si basa su un essere umano che fonda la sua libertà nella responsabilità. In un certo senso si fida delle persone, dà un margine di manovra e crea un ordine che non limita compulsivamente la libertà, ma protegge anche prevenendo ingiustizie e disordine sociale. A differenza del passato, le decisioni politiche oggi devono essere fatte in un contesto di interdipendenza globale. Questo rende la situazione molto più difficile. Tuttavia, da Konrad Adenauer e Ludwig Erhard abbiamo imparato che anche le sfide più difficili possono essere superate con successo.
Le economie a gestione centralizzata (dal nazifascismo al comunismo) sono state un grande fallimento non solo economico ma antropologico, umiliando la dignità e la libertà umana. Il mercato è l’unico strumento per l’allocazione delle risorse economiche conciliabile con la libertà e l’iniziativa della persona. Ma il mercato copre solo una parte delle relazioni sociali e deve essere governato da forti istituzioni. Su queste convinzioni, in Germania, negli anni appena precedenti il crollo del nazionalsocialismo si va affermando un nuovo pensiero, che è all’origine del solido sviluppo dell’economia tedesca, attuale motore economico del Vecchio Continente. Questo modello chiamato “Economia Sociale di Mercato” è sviluppato da un gruppo di pensatori raggruppati intorno all’Università di Friburgo, per cui si parla anche di Scuola di Friburgo. Ma è un filone di pensiero che si incrocia con altre importanti tradizioni intellettuali che esprimono vertici come Wilhelm Röpke e, da noi, Luigi Einaudi e Luigi Sturzo, tedeschi ed italiani che si riconobbero, negli anni, influenza reciproca e grande stima.
L’Economia Sociale di Mercato vede nella libera formazione dei prezzi sul mercato un cardine irrinunciabile di una economia sana, perché garantisce la più vantaggiosa allocazione delle risorse; e vede lo Stato limitato a fare da arbitro del processo economico, mai agendo da attore, se non in casi rari e circoscritti, sempre bilanciati da opportuni “contrappesi”. È un pensiero che si incrocia, in più punti, con il pensiero della Dottrina Sociale della Chiesa, oggi oggetto di rinnovata attenzione, e non solo di quella della Fondazione Sussidiarietà. Due tradizioni che mettono al centro l’uomo, i suoi valori, la sua dignità, con le sue più profonde esigenze morali e spirituali ma senza sacrificare l’esigenza a una economia sana e rigorosa. Due tradizioni di grande equilibrio che trovano entrambe una rinnovata attenzione proprio nei nostri anni in cui il fondamentalismo di mercato e la finanziarizzazione forsennata dell’economia ci hanno portato a questa crisi gravissima, apparentemente senza via d’uscita. Ma questo pensiero ci indica anche la via d’uscita.
Una via d’uscita che dopo la pandemia ed alla luce delle implicazioni dello scenario di conflitto attuale inevitabilmente porterà con sé la decisione della nascita di un debito comune europeo. La guerra apparentemente incipiente e la necessità di far fronte alla sfida congiunta demografica ed economica sono insomma le leve che la storia mette a disposizione del progetto europeo e della sua anima involuta per compiere il destino di una generazione. Le contraddizioni evidenziate da Robi Ronza nella sua analisi puntuale e veritiera non sono in discussione ciò nondimeno possono paradossalmente essere lo strumento di una nuova stagione di consapevolezza dei popoli europei e delle sue classi dirigenti.