Il Prof. Paolo Terenzi nel suo articolo La libertà di educazione descrive ampiamente il problema strutturale della scuola italiana, una scuola monopolizzata dallo Stato che regolamenta l’intera materia scolastica, dalla formazione degli studenti alle scelte educative di insegnanti e professori e, naturalmente, anche di tutti noi. Uno Stato pedagogo, insomma. Ma c’è di più, c’è un problema ontologico alla base: lo Stato non dà e non può dare valore alla cultura, è la cultura che dà valore allo Stato. La cultura non può essere incatenata da circolari ministeriali, è per definizione libera da ogni etichettatura.
Lungi da me ricordare i secoli bui della storia antica e moderna, dove essa era mezzo di propaganda, riassunta in schemi e slogan. Controllare l’educazione è da sempre una delle prime azioni che una dittatura compie, perché quando controlli la formazione, controlli le persone, trasformandole in burattini. Ora, nel nostro Paese, che si professa una liberal-democrazia, non ci aspetteremmo forse di avere anche libertà educativa? E non è il compito di un paese libero educare alla libertà? Tornerò più avanti con una risposta a queste domande. Prima, però, guardiamo il problema da un punto di vista differente, il mio, quello dei giovani.
Prendiamo una classe di quinta superiore, ipotizzando un liceo a maggio: manca poco alla maturità. C’è l’ansia del programma, tanti argomenti ancora da studiare in vista del grande esame che però, dati 2023 alla mano, promuove il 99.8% degli ammessi. Sono tutti preparati? No, lasciateci il beneficio del dubbio. A pensarci, anzi, è un dato terrificante, significa che l’esame di maturità ormai è un esame che non vale più nulla. Che ci si impegni o meno, la promozione è praticamente garantita. Eppure si legge in continuazione che i giovani soffrono di ansia, lo studio li mette sotto pressione, li angoscia. Ma andiamo avanti, guardiamo allora all’ambiente che circonda gli studenti: professori e genitori. I primi dovrebbero forse essere più severi, bocciare di più? Anche, ma non è questo il punto. Hanno perso la loro missione. Pensiamo alla pandemia Covid-19, molti insegnanti hanno saputo esprimere il loro meglio portando la cultura anche in quelle case di studenti irraggiungibili, privi di un dispositivo tecnologico, di una connessione internet stabile o aventi famiglie in difficoltà. Altri, invece, più che educatori, si sono rivelati impiegati ministeriali preoccupati soltanto dei loro diritti sindacali.
La crisi pandemica ha messo chiaramente in luce che l’insegnante non è un impiegato che ricopre un posto fisso ma un uomo di cultura libero, capace di educare. Non mi piacciono le generalizzazioni, ma è purtroppo un dato di fatto che le competenze e la qualità dell’insegnamento in Italia sono in crisi da tempo. Quest’anno il 49% degli studenti dell’ultimo anno delle superiori, i maturandi, non ha raggiunto alle prove Invalsi il livello base in italiano. E ancora, dei maturandi promossi la scorsa estate, metà era insufficiente in matematica. Cari professori, ma com’è possibile aver promosso praticamente tutti dinnanzi a questi risultati disastrosi? Sarà colpa del discepolo ma, forse, anche del maestro. Una domanda, poi, sorge spontanea di fronte ad una scuola che regala diplomi, dove sono i genitori dei ragazzi e delle ragazze? Perché non vediamo una indignazione generale verso questo sistema scolastico che da decenni, non soltanto dalla pandemia, è un mero diplomificio? E qui si chiude il cerchio di un problema che è tutto Made in Italy.
La verità è che anche gran parte dei genitori contribuisce a sabotare il sistema. Perché se i professori vogliono rimandare un alunno, ci si va a lamentare dalla preside, o se non basta si fa ricorso al Tar. Perché molti sono più preoccupati del bel voto in pagella che non dell’effettiva preparazione. E tutti insieme, nei gruppi WhatsApp, si lamentano del professore che dà troppi compiti o di quello che ha messo troppi 4 in classe senza capire che il brutto voto è anch’esso un momento formativo. Ha ragione Paolo Sorrentino quando afferma in un monologo sulla scuola che consiglio a tutti di ascoltare, sconsolato, “Dio occupati tu dell’educazione. Dei genitori”.
Vi ho ritratto questo bel quadro perché si può discutere molto di come migliorare il sistema scolastico, di come applicare la legge n. 62 del 2000 per renderlo paritario davvero o di come renderlo più competente. Si può discutere di come liberare il sistema, liberare l’educazione ma non lo si può fare finché regna questo circolo vizioso, finché non siamo educati alla libertà. Che i giovani si avviino dalla stessa linea di partenza per poi crescere liberi e diseguali, sosteneva Luigi Einaudi. Abbiamo la forza e il coraggio di accettare oggi questa premessa? Riusciamo a scardinare il concetto per cui il merito e la selezione non sono strumenti di disuguaglianza ma leve per migliorare le competenze? Riusciamo a capire che non c’è nulla di male nel non iscriversi all’università ma scegliere di andare a lavorare? O che una bocciatura non è una umiliazione ma una occasione per rimediare e acquisire ancora e meglio conoscenze? O forse conviene andare all’università di malavoglia o esser promossi senza saper nulla? Stessa partenza e poi liberi e diseguali, questa la mia risposta. Per un mondo non omologato, plurale, dove ognuno fa ciò che è nelle sue corde. Contro il sei politico e contro il mostro del “tutti dieci in pagella”.
Perché il timore è che, finché concetti base come meritocrazia, selezione, cultura non saranno ben chiari nella mente di chi riscrive il sistema, continueremo ad essere ostaggi del susseguirsi di riforme poco concrete che mirano a danneggiare, anziché esaltare, la formazione. Qual è, allora, la ricetta che andrebbe implementata? La vera innovazione del sistema è descritta nel libro La scuola della libertà e del merito, di cui sono coautrice, ed è l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Perché si studia per sapere, non per prendere il “pezzo di carta”. Questa sarebbe la vera rivoluzione copernicana nell’approccio allo studio, alla scuola e anche un vero e proprio cambio di rotta nelle famiglie, forse finalmente più preoccupate di quanto i figli sanno e conoscono rispetto ai voti che prendono. Perché finché vige il valore legale del titolo di studio, la scuola, pubblica o privata indistintamente, è incardinata in questo schema contorto, nella mentalità che conta più sfornare diplomi che insegnare ed educare. Per non parlare poi di concorsi o del mondo del lavoro, dove spesso si assiste all’arroganza, alla pretesa di avere la luna da parte di chi ha sempre preso il massimo dei voti, vittima del credere che il pezzo di carta automaticamente dimostri il proprio valore. Ma non dilunghiamoci.
Merito, selezione, cultura. E libertà. Prima avremo ben chiaro il significato di queste parole e poi, certamente, potremo parlare di libertà di educazione, della scuola libera, l’unico sistema che ci possa far sperare che nel nostro Paese cresca una gioventù non sottomessa ad alcun dominio ma frutto di una libera espressione. Speriamo non sia una chimera impossibile da conquistare.