«La libertà di educazione è uno slogan privo di significato se vengono a mancare i necessari sostegni istituzionali, e questo a sua volta richiede specifiche scelte politiche» (Glenn 2013, p. 90)
La relazione tra Stati nazionali ed istituzioni educative è una questione che attraversa la storia moderna e che si inserisce nella problematica più generale del ruolo dello Stato nella vita pubblica. Numerosi studiosi hanno osservato che la libertà di educazione è uno dei cardini attorno ai quali ruotano altre libertà sociali, economiche, politiche. Quello della libertà di educazione è anche un tema oggi molto dibattuto a livello internazionale (Varsori 2015; Koinzer, Nikolai Waldow 2017). L’espressione ha differenti significati, i più rilevanti in questa fase storica paiono essere due: il primo ha a che fare con la possibilità per i docenti di argomentare ed esprimere liberamente il proprio punto di vista su tematiche dibattute e controverse. Questo aspetto riguarda la scuola e anche l’università dove, come mostrano i dati del 2023 dell’Academic Freedom Index (AFI), ci sono 22 paesi nei quali la libertà accademica rispetto a 10 anni fa è diminuita, più in generale, la libertà accademica è in regresso per oltre il 50% della popolazione mondiale ovvero 4 miliardi di persone.
La libertà di educazione può indicare inoltre «due politiche che, per quanto molto diverse, sono inseparabili. La prima è il diritto dei genitori di scegliere, in base al loro discernimento e all’intima conoscenza dei propri figli, la forma di educazione che, secondo loro, può contribuire meglio alla crescita umana. La seconda è il diritto degli educatori di scegliere di lavorare in una scuola che rifletta le loro convinzioni personali e professionali sull’educazione, e di partecipare attivamente al mantenimento e allo sviluppo del carattere distintivo di una simile scuola» (Glenn 2013, p. 82). Uno Stato che non riconosce questi due diritti e che assume un atteggiamento monopolistico in ambito educativo tende a fare la stessa cosa anche negli altri ambiti della vita sociale. Luigi Einaudi (1962, pp. 26-27) individuava i caratteri del monopolio statale, di impronta napoleonica, che devono ancora essere superati: «Unica la fonte: lo Stato. Unico il valore degli studi: quello voluto dai poteri pubblici secondo la norma costituzionale. Unico è il valore dei titoli rilasciati ai giovani alla chiusura di ogni corso di studi: quello dichiarato dalla legge» (cfr. anche Einaudi, Valitutti 2009). Il monopolio statale nel campo dell’istruzione ha significative ripercussioni anche sul piano della libertà culturale: i meccanismi attuali che regolano il finanziamento delle scuole, di fatto finiscono per violare la libertà religiosa di quei genitori che, pur non riconoscendosi nella “religione” insegnata dalle scuole statali, sono tuttavia costretti a pagare attraverso la tassazione per avere i propri figli indottrinati da questa “religione”, oppure debbono pagare due volte per poter scegliere (Friedman, Friedman 2013; su questo tema cfr. anche De Rougemont 2005).
L’accentramento monopolistico dello Stato sull’educazione raggiunge il suo apice nell’esperienza dei regimi totalitari nei quali il tentativo di pianificare la totalità della vita sociale ha considerato l’irreggimentazione dell’educazione e della scuola un passaggio obbligato. Da questo punto di vista, non è un caso che il tema della libertà di educazione abbia riacquisito grande centralità in numerosi paesi dell’Est Europa usciti dal dominio della Unione Sovietica. Le nuove costituzioni di paesi come Estonia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia sancivano con decisione che la responsabilità educativa fa capo ai genitori e che questi dovrebbero essere nelle condizioni di decidere quale tipo di educazione dare ai loro figli.
Oltre che nella dialettica tra totalitarismi e democrazie, la libertà di educazione è una questione rilevante anche all’interno dei sistemi democratici. Per quanto riguarda l’Italia, nello specifico, la peculiare relazione che si è venuta a creare storicamente tra il nuovo Stato nazionale e la Chiesa Cattolica ha avuto ripercussioni rilevanti anche sul tema della libertà di educazione. Questa non è ovviamente la sede per addentrarsi in una disamina storica della fase lunga e complessa che partendo dall’Unità d’Italia – anzi, anche dagli anni precedenti (Rosmini 2015) – vede poi tappe fondamentali nel Non expedit, nella pubblicazione della Enciclica Il fermo proposito (1904), nel Patto Gentiloni (1913), nella nascita del Partito Popolare Italiano (1919), nella firma dei Patti Lateranensi (1929). Il ventennio portò una fascistizzazione della scuola e una sua trasformazione in uno strumento di socializzazione delle giovani generazioni alla ideologia politica dominante; in questo modo si ridussero drammaticamente sul piano culturale, spazi di autonomia, libertà e critica. La Riforma Gentile del 1923 disciplina anche i diversi tipi di scuole presenti in Italia, statali, parificate, private, e di fatto riconosce alle scuole elementari parificate un ruolo di supplenza rispetto alla scuola statale: dove lo Stato non è in grado di istituire una scuola, la scuola parificata può assolvere la stessa funzione. Come spesso accade, una concezione statalista si appella a un principio di sussidiarietà applicato al contrario. Seppure per motivi differenti, dunque, la libertà di educazione non ha mai avuto vita facile in Italia.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, in una fase storica costituente, la libertà di educazione è stata indicata come principio fondamentale nella Dichiarazione universale dei diritti umani che, all’art. 26, afferma: «i genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli». Un passaggio fondamentale in Italia è costituito della promulgazione della Costituzione italiana, che all’art. 30 stabilisce che «è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli», e all’art. 33 afferma formalmente la libertà di educazione. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole, la legge deve garantire ad esse «piena libertà a ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole statali». Tuttavia, la formula, che si trova sempre nell’art. 33, «senza oneri per lo stato», è stata oggetto di numerose e controverse interpretazioni. Questa espressione è stata impropriamente utilizzata dai detrattori della libertà di educazione in tante occasioni e per tanti anni. Del resto, come si accennava in precedenza, il caso italiano, in cui si mescolano pregiudiziali ideologiche, battaglie politiche, difesa di interessi di parte, ha una storia lunga e controversa (cfr. Ventura 1998, pp. 168-184). Da una parte, già nel secondo dopo guerra erano presenti nella scuola italiana numerose voci che, eredi di Don Bosco e di altri carismi educativi, rivendicavano il ruolo pubblico della scuola paritaria e la libertà di scelta per famiglie e insegnanti. Celebre, in questo senso, è uno slogan formulato in quegli anni da Don Luigi Giussani: «Mandateci in giro nudi, ma lasciateci la libertà di educare». Tuttavia, salvo lodevoli eccezioni, per decenni il cattolicesimo politico in Italia, in virtù di una diffusa subalternità culturale nei confronti del marxismo (analizzata da studiosi come Augusto del Noce 1994 e Gianfranco Morra 1979) non ha saputo mettere tra le priorità politiche una effettiva libertà di educazione.
Un orizzonte culturale caratterizzato da uno statalismo più o meno manifesto e dalla strenua difesa dello status quo, posizioni portate avanti dalla maggior parte dei partiti e dei sindacati degli insegnanti, ha avuto la meglio per tanti anni su istanze liberali e sussidiarie a scapito delle famiglie e della possibilità di scegliere il tipo di istruzione da offrire ai figli. Un fronte trasversale e piuttosto variegato a favore di una maggiore autonomia scolastica e della libertà di educazione si è creato a metà degli anni Novanta. Sono state promosse iniziative che hanno affrontato i temi a partire da valutazioni di tipo sociale, etico ed economico. Istanze portate avanti da soggetti laici della società civile e coordinamenti politici a cui facevano capo esponenti di molti partiti, hanno trovato punti di incontro con associazioni attive nel mondo cattolico e impegnate da tanti anni sul fronte della libertà di educazione. Durante la presidenza della Cei di Camillo Ruini è stato deliberata la costituzione, nel settembre 1996, del Centro Studi per la Scuola Cattolica e del Consiglio Nazionale della Scuola Cattolica. In quegli anni si è creato un terreno comune a favore di un sistema scolastico integrato in nome dell’equità sociale, della promozione della libertà, dell’antistatalismo. Un esempio di questo clima è il convegno organizzato nel luglio 1999 dalla Fondazione “Amici di Liberal” sul tema “Scuola libera”, convegno che segue altre iniziative analoghe proposte negli anni precedenti dallo stesso soggetto. Nell’ottobre 1999, Giovanni Paolo II riceve in udienza in Piazza San Pietro studenti, docenti e genitori della scuola cattolica ed afferma che «il principale nodo da sciogliere, per uscire da una situazione che si sta facendo sempre meno sostenibile, è indubbiamente quello del pieno riconoscimento della parità giuridica ed economica tra scuole statali e non statali, superando antiche resistenze estranee ai valori di fondo della tradizione culturale europea. I passi recentemente compiuti in questa direzione, pur apprezzabili per alcuni aspetti, restano purtroppo insufficienti». Un’indagine condotta dall’OIDEL (Organizzazione internazionale per l’insegnamento e l’educazione), pubblicata nel 1999, offriva un quadro analitico della situazione della scuola libera nei sistemi scolastici nel mondo. I risultati non erano certo incoraggianti per l’Italia che si piazzava al trentatreesimo posto dietro anche alla Costa d’Avorio.
Nel contesto ora delineato si è arrivati alla legge sulla autonomia scolastica (art. 21 della legge delega n. 59/1999, disciplinata dal DPR n. 275/99). L’autonomia scolastica è diventata poi principio fondamentale con la legge costituzionale n. 3/2001, che ha portato alla modifica del Titolo V della parte seconda della Costituzione (cfr. Bertagna 2014; Campione, Contu 2020) e poi alla legge n. 62 del 10 marzo 2000 - Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione, promossa dall’allora Ministro della Pubblica istruzione Luigi Berlinguer. Questa seconda legge, in particolare, ha rappresentato un passaggio fondamentale sia sul piano politico sia sul piano giuridico riconoscendo anche alla scuola non statale paritaria una funzione di servizio pubblico, analogamente a quanto si può dire per la scuola statale; benché i gestori siano differenti, in entrambi i casi si tratta di scuole pubbliche. Promuovere la libertà di educazione non significa dunque privilegiare una parte (scuola paritaria) a scapito di un’altra (scuola statale). L’obiettivo verso cui anche l’Italia dovrebbe muoversi è un reale sistema integrato in cui scuole che offrono un servizio pubblico – siano esse gestite dallo Stato o da altri soggetti – siano messe sullo stesso piano non solo dal punto di vista formale, ma anche dal punto di vista sostanziale (Versari 2009). Questo secondo aspetto è ancora quello più problematico. A livello regionale ci sono stati rilevanti tentativi di dare, per quanto possibile, piena attuazione alla parità scolastica – si pensi in particolare al caso della regione Lombardia –, ma a livello nazionale si attende ancora una piena implementazione della legge sulla parità. Qualche ulteriore passo è stato fatto, come il decreto 65/2017 - Istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita sino a sei anni, ma il percorso da fare è ancora lungo nonostante l’impegno della Agorà della Parità, gli appelli ai politici portati avanti, tra gli altri, da Dario Antiseri, che si batte strenuamente da tanti anni per la libertà di educazione e da Suor Anna Monia Alfieri alla quale è stato conferito l’Ambrogino d’Oro nel 2020 proprio per il suo impegno a favore della libertà di scelta educativa dei genitori (cfr. Antiseri, Alfieri 2018).
Richiami al principio della libertà di educazione sono emersi anche in sede europea. La risoluzione del Parlamento europeo del 4 ottobre 2012, che fa seguito ad una analoga risoluzione del 1984 – Libertà di insegnamento nella comunità europea – afferma per esempio che: «il godimento effettivo del diritto all’educazione è una condizione preliminare necessaria affinché ogni persona possa realizzarsi ed assumere il suo ruolo all’interno della società». Il mancato riconoscimento di una effettiva libertà di educazione è una delle cause che ha condotto negli anni anche a una riduzione numerica in Italia delle scuole paritarie e degli alunni che le frequentano. In particolare, dall’anno di approvazione della legge 62 sulla parità scolastica, il 2000, al 2022, le scuole paritarie hanno perso il 38,11% degli allievi, passati da 1.186.667 a 734.415 (cfr. Ferrario 2023). Nello stesso arco temporale, la scuola statale ha perso il 3,4% di iscritti. Dal 2010-2011 al 2021-2022, hanno chiuso i battenti 1.669 scuole paritarie (-12,12%), di cui 1.542 cattoliche (-16,46%) e 127 paritarie di gestori “laici” (-2,89%) (si veda anche il rapporto del Centro Studi per la Scuola Cattolica dal titolo Venti anni di scuola cattolica in cifre).
La libertà di educazione è legata a un più generale disegno di riorganizzazione del ruolo dello Stato nella vita sociale, che, per diversi motivi (economici, culturali, politici), dovrebbe andare nella direzione di un superamento di un modello fondato sulla gestione diretta e quasi esclusiva dei servizi alla persona da parte dello stato stesso. Parimenti, superare questo modello, implica il ripensare anche le possibili interazioni tra lo Stato e le istituzioni formative. Si possono individuare a questo proposito quattro modelli (Ribolzi 1999: 232-233): lo Stato facilitatore, che si limita a rendere possibile l’accesso all’istruzione a chi ha i requisiti necessari; lo Stato interventista, che si coinvolge attivamente e fissa anche il contesto in cui il sistema formativo può operare; lo Stato valutativo, che non pone vincoli alle istituzioni e sposta il controllo sugli esiti, condizionando ad essi il finanziamento; lo Stato promotore, che, ispirato al principio di sussidiarietà, promuove la capacità di iniziativa, supportando le energie e le potenzialità delle famiglie e dei soggetti della società civile. In base a questi modelli, si può osservare che, in Italia, lo Stato abbia avuto in passato prevalentemente un ruolo interventista. Il rischio che si corre in questa soluzione è che lo Stato, fissando il contesto di riferimento ed esercitando un coinvolgimento attivo, finisca per essere un soggetto invadente e paternalistico. È possibile evitare un rischio di questo genere solo se si riconosce il ruolo essenziale di altri soggetti sociali accanto allo Stato (e al mercato), in primo luogo i genitori. In fondo, ritorna una domanda classica del pensiero liberale riproposta di recente: «Invece di una disputa senza fine su chi controlla le scuole, perché non restituire il controllo ai genitori?» (Tracinski 2022)
Uno Stato laico dovrebbe cercare di mettere i cittadini nelle condizioni migliori per la coltivazione della propria umanità e per il perseguimento di opzioni educative diversificate. Peraltro, la crescente importanza dei fattori culturali in ambito socio-economico richiede una riqualificazione dei sistemi scolastici che può essere favorita solo dalla compresenza di opzioni scolastiche alternative – si può parlare così di un pluralismo delle istituzioni, insieme ad un pluralismo nelle istituzioni. Offrire una reale possibilità di scelta, attraverso l’introduzione di strumenti tecnici adeguati, costituisce inoltre un intervento in favore di un’eguaglianza di opportunità che superi una peculiarità negativa della situazione del nostro paese. Per un’effettiva eguaglianza, tutti – e non solo alcuni, come avviene oggi – dovrebbero avere la possibilità di accedere a servizi qualificati. Si dice spesso che la scuola statale è gratuita (e dunque è per tutti) e che invece la scuola paritaria è a pagamento (e dunque è per pochi). Che la scuola statale sia gratuita significa semplicemente che è pagata da tutti i cittadini con le tasse e che ogni anno lo Stato spende circa 7.000 euro per studente in una scuola secondaria statale (secondo i dati più recenti pubblicati dal Miur sul costo medio per studente, ossia la spesa annua nelle istituzioni educative per studente) a fronte dei circa 500 euro che spende per uno studente della scuola secondaria paritaria (Ugolini 2023). A questo dato si aggiunge il fatto che le scuole paritarie sono escluse dalla quasi totalità dei finanziamenti e dei progetti del ministero (e la cosa vale anche per il Pnrr). Un cambiamento radicale, atteso da tanti anni, potrebbe essere che lo Stato eroghi alle famiglie, che optano per una scuola paritaria, un contributo di istruzione che possa raggiungere una percentuale significativa di quanto lo Stato spende come costo medio per ogni studente. Questo contributo potrebbe essere poi integrato anche con i finanziamenti degli enti locali di Regioni e Comuni fino a raggiungere l’intero costo standard di sostenibilità per allievo.
In questo modo si creerebbe un sistema imperniato su una concezione sussidiaria dello Stato: le scuole, anche in virtù della tendenza progressiva verso l’autonomia, potrebbero elaborare progetti educativi che poi proporrebbero a famiglie, giovani, attori della società civile. Una scuola più libera ed equa è anche una scuola che favorisce un processo virtuoso verso la qualità: le scuole sarebbero progressivamente stimolate a sviluppare una propria identità e a migliorare il servizio fornito. Una scuola della parità e dell’autonomia non nasce solo da direttive politiche, ma dal rapporto dinamico tra scuole, insegnanti, famiglie, studenti, società civile (Donati, Colozzi 2006). Il legame della scuola con la società civile e con il territorio può essere un cardine dei sistemi educativi nella società della conoscenza. La collaborazione con imprese, associazioni di categoria, fondazioni, privato sociale, associazioni potrebbe liberare energie umane ed economiche ed essere una risorsa decisiva per il cambio di marcia che ormai da troppi anni la scuola italiana attende. Una scuola autenticamente libera e più equa potrebbe tornare così ad essere uno dei volani della crescita personale e anche della crescita civile ed economica delle comunità locali e della nazione.
Riferimenti bibliografici
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