L’articolo di Robi Ronza propone alcune interessanti suggestioni che meritano un’attenta riflessione, soprattutto per chi, come me, è portatore di una visione e di un giudizio sensibilmente diversi sulla storia dell’integrazione europea, sul reale funzionamento delle istituzioni dell’Unione e sulle prospettive del processo di unificazione continentale. In particolare, proverò a sfatare alcuni miti, talmente radicati nella vulgata da sembrare verità indiscutibili.
La storia del processo di integrazione non può essere ridotta ad una contrapposizione tra, da una parte, élite politiche e apparati burocratici, e dall’altra, l’anelito democratico dei popoli europei, con conseguente tradimento della volontà originaria dei Padri fondatori. Per rendersene conto basterebbe riconsiderare proprio la genesi della Dichiarazione Schuman. All’epoca già si confrontavano due diverse concezioni di fondo rispetto alla costruzione europea. Una propugnava il perseguimento immediato di un’unione politica da fondare sulla spinta popolare. L’altra, più prudente ma probabilmente più realistica e percorribile, proponeva una visione funzionalista ed elitista, ovvero un percorso guidato dalle élite politiche degli Stati europei che, passo dopo passo, avrebbe dovuto portare ad una graduale integrazione di fattori economici e conseguentemente, a medio-lungo termine, di profili politici sempre più rilevanti.
Il raffinato stratega dell’approccio realista fu il grande europeista Jean Monnet, Padre tra i Padri, in quel momento a capo di una task-force di funzionari ed esperti del governo francese, che elaborò un documento in piena coerenza con la propria impostazione. Lo stesso Jean Monnet, che tempo dopo pronuncerà queste profetiche parole: «I nostri paesi sono diventati troppo piccoli per il mondo attuale, in rapporto ai mezzi tecnici moderni, in confronto all’America e alla Russia oggi, alla Cina e all’India domani. L’unità dei popoli europei negli Stati Uniti d’Europa è il mezzo per rialzare il loro livello di vita e mantenere la pace».
Dunque, nessuna contrapposizione o inesistenti tradimenti, ma la scelta dell’unica strada realisticamente percorribile, in cui alcuni Stati democratici decisero di mettere in comune crescenti quote della loro sovranità. Di per sé un atto “rivoluzionario”, se solo pensiamo alla pesantissima storia dei loro rapporti, nel passato remoto e in quello prossimo.
In questo quadro, era ovvio che gli organi dominanti delle istituzioni comunitarie avrebbero dovuto essere la Commissione e il Consiglio. Non corrisponde al vero che la prima avrebbe dovuto essere solo un organo tecnico-amministrativo (la scelta del nome è legata solo alla costatazione che non si stava costruendo uno Stato alternativo, con un Governo e un Parlamento), come appunto dimostra l’attribuzione alla Commissione del potere di iniziativa: in quel momento una grande conquista in senso “europeista” perché appannaggio di un organo sovranazionale e non di quello diretta espressione dei governi. Oggi la struttura e i poteri della Commissione, nonché i suoi meccanismi di funzionamento, sono strettamente legati alla dimensione delle competenze dell’Unione europea, sempre crescenti e sempre più complesse, basti pensare a tutte le questioni connesse alla disciplina di bilancio dei singoli Stati, premessa obbligata per dare solidità alla moneta unica.
Per lungo tempo l’Assemblea rappresentativa ha ricoperto un ruolo secondario ma, dapprima con l’introduzione, a partire dalle elezioni del 1979, del suffragio popolare diretto, e successivamente con l’evoluzione dei Trattati da Maastricht a Lisbona, il Parlamento europeo ha cambiato natura e ha assunto molteplici poteri e funzioni, diventando a tutti gli effetti un protagonista della forma di governo dell’Unione europea e della sua attività legislativa.
Si tenga presente che tutti questi passaggi del processo di integrazione sono sempre stati il frutto di amplissime discussioni tra le istituzioni di Paesi democratici, e le conseguenti decisioni sono state ratificate secondo le procedure previste dalle rispettive Costituzioni. I due referendum, francese e olandese, sul Trattato costituzionale stanno proprio lì a dimostrarlo.
Oggi l’Unione europea si trova di fronte ad un bivio storico: proseguire il suo percorso verso un salto di qualità che assuma pienamente la prospettiva federalista, con istituzioni sovranazionali in grado di prendere velocemente ed efficacemente cruciali decisioni valide su tutto il territorio dell’Unione, oppure preferire rintanarsi in una visione dell’Europa che postuli la prevalenza del metodo intergovernativo, ovvero provvedimenti presi in virtù degli accordi tra i governi nazionali, raggiunti di volta in volta quando i problemi si presentano.
Ecco, con le prossime elezioni per il Parlamento europeo i cittadini del Continente hanno un’importante occasione per contribuire a decidere quale strada dovrà imboccare l’Unione, riformando, anche radicalmente, i propri Trattati. L’auspicio è che lo facciano con la maggiore consapevolezza possibile.