“La libertà di educazione è uno dei cardini attorno ai quali ruotano altre libertà sociali, economiche, politiche”. È la riflessione che Paolo Terenzi pone all’inizio del suo saggio La libertà di educazione. L’Italia, in proposito, non è messa male.
L’art. 30 della Costituzione dà ai genitori il diritto di scegliere la forma di educazione che, in base al loro discernimento e all’intima loro conoscenza dei propri figli, ritengano meglio contribuisca alla loro crescita. Gli artt. 33 e 34 riservano alla Repubblica il compito di dettare le norme generali sull’istruzione, istituiscono scuole statali per tutti gli ordini e gradi, ma statuiscono il libero insegnamento dell’arte e della scienza, e riconoscono il diritto di enti e privati di istituire scuole e istituti di educazione ponendo la fatidica condizione che ciò sia “senza oneri per lo Stato”.
Il pieno riconoscimento della parità tra scuole statali e non statali arriva con la legge sull’autonomia scolastica grazie alla modifica del Titolo V della Costituzione. Il decreto 65/2017 istituisce il sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita ai 6 anni, ma per la piena implementazione della legge sulla parità il cammino è ancora lungo. Tant’è che, dall’approvazione della legge 62 sulla parità scolastica, le scuole paritarie hanno perso quasi il 40% degli iscritti (contro un 3,4 % della scuola statale). La condizione “senza oneri per lo Stato” implica che le scuole paritarie debbano essere a pagamento. In realtà neanche quelle statali sono gratuite, sono pagate dalla fiscalità generale: si calcola che lo Stato spenda circa 7.000 € per studente in una scuola secondaria statale.
Terenzi fa proprio il cambiamento radicale, atteso da tanti anni, per cui lo Stato eroghi alle famiglie che optano per una scuola paritaria un contributo di istruzione che possa raggiungere una percentuale significativa di quanto lo Stato spende come costo medio per ogni studente. C’è da notare, però, che chi avanza questa proposta non indica come lo Stato potrebbe concretamente risparmiare tale somma, cosa che presuppone una flessibilità sulla spesa di cui lo Stato non dispone.
Con tutto ciò non si capisce come l’Italia, nella classifica di libertà scolastica pubblicata nel 1999 dall’OIDEL, sia piazzata al trentatreesimo posto, dietro la Costa d’Avorio. Ci sono altre classifiche da considerare, quelle del PISA (Program for International Students Assessment) dell’OCSE. Nel 2018 (l’ultimo anno di cui sono disponibili i dati) gli studenti italiani sono, in lettura e comprensione del testo, inferiori alla media dei Paesi OCSE, e nettamente inferiori per matematica e scienza. L’uscita precoce dal sistema di istruzione e formazione vede l’Italia non solo ben superiore alla media, ma aumentata negli ultimi due anni, attestandosi, nel 2018, al 14,5%. Infine, l’Italia risulta al terzo posto in Europa per quantità di lavoratori con competenze inferiori rispetto alla mansione ricoperta e al settimo posto rispetto ai lavoratori con competenze superiori al ruolo ricoperto.
“Basta leggere i risultati dei test Invalsi” – scrive Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 28 luglio) – “per rendersi conto che stiamo segando il ramo su cui siamo seduti: stiamo dilapidando, prima ancora di averlo formato, un grande capitale umano”. La libertà di educazione è sicuramente una condizione indispensabile ma ci sono altri elementi da considerare se vogliamo che l’Italia abbia un sistema educativo all’altezza della posizione dell’Italia nel mondo. Non è questione di numero degli insegnanti né dell’entità delle loro retribuzioni: è il sistema che va cambiato radicalmente. Va da sé che, trattandosi di un’autentica rivoluzione, non potrà essere adottata tutta insieme per tutto il sistema scolastico.
Quella che si propone è la sperimentazione di una rivoluzione, da introdurre gradualmente: senza però confondere gradualità con esitazione ed incertezza. L’obiettivo è quello di avere scuole pagate interamente dallo Stato, cioè in perfetta adesione agli artt. 33 e 34 della Costituzione, ma totalmente autonome nella gestione dell’istruzione: separando cioè la funzione “redistributiva” dello Stato, intesa come impegno a far sì che tutti possano avere accesso alle stesse opportunità educative, dalla funzione di “produrre” istruzione. Allo Stato rimangono le funzioni di regolazione e di finanziamento, mentre perde la produzione dell’istruzione, che viene svolta da scuole pubbliche autonome.
L’Italia è un’economia di mercato, basata sulla concorrenza: perché deve essere diverso per la scuola? Se lo Stato finanzia tutte le scuole, non c’è concorrenza tra di esse né libertà di scelta per le famiglie. Bisogna invece che i fondi seguano gli studenti: saranno le scelte delle famiglie a finanziare le scuole. Lo Stato non avrà bisogno di mettere in piedi un sistema di valutazione delle scuole una per una, complicatissimo e soggetto ad arbitrarietà: dovrà invece fornire informazioni sul loro funzionamento, statistiche sugli studi successivi degli studenti che esse hanno diplomato, sul loro successo nel mercato del lavoro.
Ci sono modelli, come le Charter School americane e le Grant Maintained School inglesi, che ben si adattano a un progetto di sperimentazione. Punto di partenza è il riconoscimento dello Stato di diritto di uscire dal vecchio sistema: quelle che lo scelgono sono governate da un ente che si propone come gestore della scuola, e riceveranno un finanziamento pubblico proporzionale al numero degli studenti che hanno scelto quella scuola.
Chi è questo ente? Potrebbe essere un direttore scolastico che ha sempre sognato di poter gestire una scuola con i propri criteri, e che soffre perché non ha lo spazio di manovra per fare quello che vuole; potrebbe essere un comitato di genitori, formato da quelli che già mandano i loro figli a quella scuola, integrato da quelli che pensano di iscrivervi in futuro i loro figli; potrebbe accogliere esponenti di associazioni locali, disposte a sostenere un programma dettagliato di offerta formativa, di gestione delle risorse umane.
Questo della gestione delle risorse umane è il problema centrale. È impossibile che l’ente gestore si impegni in un programma, se non ha libertà nell’assunzione degli insegnanti – i quali dovranno essere presi tra coloro che hanno passato il concorso – e quindi anche possibilità di restituirli nel bacino di insegnanti diplomati da cui li aveva assunti, o in qualche altra area della pubblica amministrazione. A questi insegnanti si dovrà offrire un percorso di carriera individuale, sia di carriera che premiale. L’ente di gestione, che soddisfi le aspettative dei genitori e della comunità, raccoglierà facilmente le risorse necessarie a sostenere questa politica delle risorse umane.
Alla fine della fase di sperimentazione, le nuove scuole autonome saranno a tutti gli effetti assimilate a una fondazione privata che può fare contratti fuori dal sistema pubblico, applicando le offerte a un percorso professionale, e premiare regole del contratto di lavoro tra privati. Per evitare il rischio della concorrenza verso il basso, cioè del “diploma facile”, bisogna che gli esami siano nazionali, non sotto il controllo delle singole scuole: prove uguali per tutti e valutate in modo uguale per tutti. Come con i test Invalsi.
Alcuni obiettano che così nasceranno scuole rosse e scuole blu, scuole cattoliche e scuole islamiche, cattoliche e comuniste, con grave pregiudizio della coesione sociale. Il primo correttivo è un controllo pubblico sui comitati di gestione che partecipano alle elezioni e sui loro programmi. Inoltre, se ci saranno scuole rosse e blu, ci saranno anche quelle arcobaleno, comitati di gestione che vogliono scuole multietniche, multiculturali. E poi, se qualcuno vuole una scuola rossa, perché lo Stato deve impedirlo?
Uno dei difetti maggiori della scuola attuale è che, essendo priva di concorrenza, non prepara i ragazzi al mondo in cui dovranno vivere e lavorare. C’è perfino la possibilità che le scuole pubbliche autonome acquisiscano fondi da privati, o da individui per scopi filantropici, o da imprese per arricchire il capitale umano della comunità e, inoltre, per migliorare il proprio profilo ESG.
La libertà di educazione, di cui scrive Terenzi, è sicuramente un prerequisito indispensabile. Ma è l’autonomia, economica e progettuale, la condizione necessaria per una società fondata sulla concorrenza: che è una procedura per la scoperta, per chi vi studia e per chi vi insegna.
Per scrivere il presente contributo, l’Autore è ricorso ampiamente a La possibilità dell’autonomia, intervista al Prof. Andrea Ichino curata da Giorgio Calderoni e Gianni Saporetti.