«A volere che una repubblica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio», perché tutti i principii delle repubbliche hanno in sé «qualche bontà», raccomandava Machiavelli, attento a impedire il declino dei corpi politici indotto dallo svolgersi del tempo.
Si aggiunga alle osservazioni di Machiavelli la distinzione di Montesquieu delle forme di governo in base sia alla loro natura – la struttura particolare – che al loro principio – le passioni umane che fanno muovere la struttura –, e si coglierà al meglio il senso dell’affermazione di Robi Ronza che «l’attuale Unione europea è caratterizzata da colossali limiti» tra cui «il fatto di essere stata costruita senza dare adeguata rilevanza all’essenza dell’Europa e prescindendo da qualsiasi positiva attenzione alla sua storia plurimillenaria e ai suoi straordinari frutti».
Ma cosa è da intendersi per «l’essenza» dell’Europa e per «gli straordinari frutti della sua storia plurimillenaria»? Una risposta può rinvenirsi nella sua civiltà quale si è venuta sviluppando in un processo plurimillenario di civilisation, ovvero di affrancamento dalla primigenia barbarie, i cui frutti riposano nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000) e nel Preambolo del Trattato di Lisbona (2007). Che sono, vale la pena di ricordarli con Ronza: la dignità umana, i diritti inviolabili e inalienabili della persona, la libertà, l’uguaglianza e la solidarietà, la democrazia e lo Stato di diritto – valori tanto faticosamente conquistati quanto attualmente lasciati alla mercé di sovranismi, nazionalismi, autoritarismi di ritorno, “illiberalismi democratici”, populismi “capocratici”, razzismi, xenofobie e forme d’inciviltà di vario genere.
Eppure i padri fondatori dell’Unione europea intendevano costruire una casa comune proprio per salvare la civiltà dalla barbarie dei totalitarismi. Come Altiero Spinelli, che apre il Manifesto di Ventotene dichiarando che «la civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà». Come Ernesto Rossi, il quale afferma che «un’Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto». Come anche il loro mentore Luigi Einaudi, il quale predica gli Stati Uniti d’Europa per debellare una volta per tutte il «mito funesto» della sovranità assoluta degli Stati che è il «vero generatore delle guerre» che imbarbariscono uomini e popoli. O come Robert Schuman, che apre la sua fondamentale Dichiarazione del 1950 con l’asserzione che «il contributo che un'Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche».
Del resto è la dicotomia civiltà-libertà vs barbarie-dispotismo che ha fornito all’Europa la cifra della sua auto-identificazione fin dalle guerre persiane, allorché la Grecia si scontrò vittoriosamente con l’Impero persiano. Ma risalendo ancora addietro nella storia fino al tempo a-temporale del mito, ecco apparire Europa come portatrice di civiltà. Racconta il mito di come Zeus, sotto le sembianze di un bellissimo e mansueto toro bianco, rapisse la giovane principessa fenicia Europa mentre raccoglieva fiori sulla spiaggia insieme alle sue ancelle e la conducesse a Creta, dove la possedette generando dei figli, tra cui Minosse, il fondatore della pre-ellenica civiltà cretese-minoica. E di come Cadmo, andato in Grecia alla ricerca della sorella Europa, fondasse Tebe, la prima importante città dell’Ellade, e vi introducesse l’alfabeto fenicio da dove si sarebbe sviluppato quello greco. Stando al mito, la civiltà sarebbe dunque il «principio» dell’Europa, cui ritirarla per rigenerarla prima della sua definitiva decadenza.
Un altro mito potrebbe essere di aiuto a salvare l’Europa da se stessa. È quello di Enea, ricordato da Thomas Stearns Eliot nel memorabile discorso What is a Classic? pronunciato alla Virgil Society di Londra il 16 ottobre 1944, nel pieno dello scontro bellico tra totalitarismo e democrazia. Posto che un classico appare nella storia solo quando una civiltà, una lingua e una letteratura sono mature ed è matura anche la sua stessa mente nella padronanza della lingua e nella consapevolezza della storia, Eliot celebrava Virgilio come «il classico di tutta l’Europa» e lo poneva al «centro della civiltà europea» quale rappresentante dei «tanti valori fondamentali dell’Europa» già vivi e attivi nell’Impero romano augusteo, di cui egli era appunto il cantore nonché l’interprete quale ponte tra la civiltà greca e il Cristianesimo. Così Eliot vedeva in Enea, il progenitore di Roma attraverso la sua diretta discendenza, più che «il simbolo di Roma». Vi vedeva il fondatore della civiltà europea, esprimendo il suo pensiero con un parallellismo: «come Enea sta a Roma, così l’antica Roma sta all’Europa». Finché altrove avrebbe scritto che «per quanto attiene alla civiltà europea, siamo tutti ancora cittadini dell'impero romano».
Eliot non esplicitava quali fossero i «tanti valori fondamentali dell’Europa» anticipati nell’Impero romano, ma è lecito supporre che consistessero in alcune peculiarità specifiche quali: la pax augustea; il multiculturalismo; l’inclusività; l’accoglienza dello straniero, che si rivela fruttuosa soprattutto quando lo straniero si chiama Enea (straniero all’Italia) o Europa (straniera alla Grecia); lo ius gentium e non la forza per regolare i rapporti con lo straniero; l’universalità del diritto romano; il foedus con i diversi popoli, sul modello del foedus originario tra i Troiani e i Latini; la tolleranza; la cittadinanza universale, concessa da Caracalla nel 212 a tutti i residenti nell’Impero; l’universalità della lingua latina, da cui deriva il nome stesso di civiltà, declinato similmente non solo da tutte le lingue neolatine ma anche dalle lingue anglosassoni e germaniche, perfino da alcune lingue slave: civiltà, civilisation, civilización, civilização, Civilisation, civilization, cywilizacja, civilizace, tsivilizatsiya, ecc., derivano da civilitas, derivante a sua volta da civilis, tutto ciò che attiene al cives e alla civitas. È l’appartenenza alla Civitas romana la ragione della fierezza con cui il cittadino romano dichiarava cives romanus sum.
Nell’Europa dei governi, che ha usurpato il progetto iniziale dell’Europa dei popoli, spira forse il vento dell’appartenenza? Eppure, nonostante i suoi fallimenti e la susseguente delusione che ha innescato forze centrifughe, le grida di guerra lanciate dai tanti nemici dell’Occidente dovrebbe rinsaldare l’appartenenza all’Unione Europea, che oltretutto rischia di rimanere estromessa dal nuovo ordine multipolare che si sta disegnando se non si consolida in una Federazione capace di resistere alle pericolose pressioni esterne.
Ma ritirare l’Europa verso i suoi “mitici” principii non è sufficiente a darle lunga vita. Occorre qualcosa in più, quel qualcosa che aveva già individuato e raccomandato Montesquieu: «Il governo è come tutte le cose del mondo: per conservarlo bisogna amarlo». Insieme a interventi strutturali in una prospettiva federalista, l’Europa ha bisogno di amore. Ha bisogno che i suoi cittadini, consapevoli della sua essenza in «una certa forma di civiltà» che contraddistingue l’uomo europeo, come diceva Federico Chabod nel 1944, in sincrono con Eliot, dichiarino con fierezza cives europaeus sum.