I discorsi che facciamo su transizione ecologica, cambiamenti climatici, degrado ambientale presuppongono tutti, anche quando non viene esplicitato direttamente, una concezione della natura e del rapporto che gli uomini intrattengono con essa. Commentando il saggio di Corrado Clini, lo ha mostrato chiaramente Francesco Galofaro. Detto approssimativamente con le sue parole, quale è il significato che la natura e la natura umana hanno oggi per ciascuno di noi? Questo il problema sul quale mi permetto di fare qualche, spero non inutile, considerazione, prendendo lo spunto dall’incipit di un celebra saggio di Georg Simmel, scritto nel 1911 e intitolato Concetto e tragedia della cultura.
«L’uomo – scrive Simmel – non si inserisce spontaneamente nella realtà naturale del mondo come l’animale, ma si scinde da essa e le si oppone con i propri fini, lotta usa la violenza e la subisce». Non c’è niente che l’uomo faccia, anche la soddisfazione dei bisogni più elementari (il mangiare, il bere, l’accoppiarsi, il vestirsi) che non sia impregnato di questa lotta. Occorre elaborare gli strumenti per vincere questa lotta, e l’elaborazione di questi strumenti si chiama cultura. La lancia per uccidere gli orsi, in modo da assicurarsi di che mangiare e coprirsi, la zappa o l’aratro per dissodare la terra, fino alle astronavi sono strumenti della cultura umana, le cui opere vanno a costituire quel grande artificio che è il mondo umano. Il primate che nel celebre film di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio agita l’osso facendolo ruotare sopra la propria testa prima che l’immagine sfumi nella rotazione di un’astronave costituisce in proposito un’immagine meravigliosa dell’uomo come fabbricatore di “strumenti”.
L’uomo non è dunque un animale qualsiasi, e sottolinearlo non è indice di “specismo” o di volontà di sopraffazione. In quanto uomini, non siamo come gli altri animali; siamo animali che debbono lottare, in senso molto lato, con la natura; siamo animali che costruiscono strumenti per vincerla e vincere così la nostra fame, la nostra sete ecc. A questo proposito, non è un caso che Aristotele nella sua Politica definisca gli schiavi «strumenti animati» che, come «animali domestici», aiutano a provvedere alle «necessità» della vita. La natura umana si configura insomma come un mix di natura e cultura. E poiché nessuno di questi termini si dà in forma “pura”, un’antropologia che voglia essere davvero adeguata alla realtà dovrebbe interpretarli in modo da evitare sia la Scilla della netta separazione tra natura e cultura, sia la Cariddi della riduzione di un termine all’altro.
Quanto alla natura, intesa come l’ambiente nel quale gli uomini vivono, è ovvio che per dirla con le parole di Galofaro, anche il senso che essa ha per noi è «culturale»: «dipende dal contesto e dai problemi che caratterizzano la nostra esperienza». Un campo di grano non è lo stesso per un pittore e per un contadino. Il nostro accesso alla natura è sempre mediato dalla nostra cultura. Di qui i limiti di certe politiche green internazionali che, anziché tener conto della dipendenza dal contesto del nostro modo di guardare alla natura, la considerano come se fosse un tutto omogeneo, una sorta di presupposto percepito da tutti allo stesso modo. Ma su questo specifico aspetto delle politiche green non mi dilungo, poiché lo hanno già fatto con molta più competenza di me coloro che, a partire dal saggio di Corrado Clini, sono già intervenuti su questo numero di Lisander.
Ritornando invece a natura e cultura, mi sembra che sia urgente elaborare una prospettiva che ci consenta di tematizzare, da un lato, l’essere umano guardando non soltanto al sistema delle sue “relazioni sociali”, e quindi dei valori culturali, ma anche alla sua naturalità; e dall’altro, la natura, considerandola non soltanto come qualcosa di “dato”, di “esterno”, bensì impregnato della cultura di chi la osserva e agente su di essa. In questo senso potremmo anche dire che l’ecosistema è qualcosa che riconduce l’uomo a un ambiente (naturale e culturale) che non dipende da lui, sul quale egli influisce, ma ne è anche influenzato, rappresentando in un certo senso la condizione e quindi il condizionamento della sua vita e della sua libertà. Non si può scindere la libertà dalle sue condizioni naturali o storico-sociali; allo stesso modo non si può immaginare un approccio alla natura che non trovi nella ragione, nella libertà, nella storia (concretamente unite, ma anche irriducibili l’una all’altra e quindi analiticamente separabili) il tramite, attraverso il quale la natura stessa, diciamo così, ci si schiude. Se vogliamo evitare le secche del riduzionismo “culturalista” o di quello “naturalista”, non abbiamo scelta: dobbiamo salvaguardare e riconciliare tutti i corni del dilemma. Per dirla con le parole di Giacomo Leopardi, «la natura vuol essere illuminata dalla ragione, non incendiata» (Zibaldone, n. 22). Ma anche la ragione vuol essere illuminata dalla natura; anche la libertà e la storia illuminano e vogliono essere a loro volta illuminate dalla ragione e dalla natura. Nessuno di questi termini – libertà, ragione, natura, storia –, pur avendo ciascuno una sua irriducibile specificità, si trova insomma allo stato “puro”.
Se è vero che la riflessione ecologica ripropone oggi il senso della natura come “limite” della nostra libertà; è pur vero che non credo sia possibile considerare per questo la natura un “soggetto”, né che si possa fare ricorso alla coercizione per affermare a tutti i costi politiche ecologiche che ne intendano salvaguardare i diritti. In modo più dimesso direi, hegelianamente, che la natura che ci circonda è certamente una natura “per noi”, qualcosa di cui possiamo disporre per i nostri scopi; ma è anche “natura in sé”, ossia qualcosa, il cui telos non si esaurisce nell’essere a nostra disposizione e che quindi, proprio per questo, chiede anche di essere rispettato. Non ho difficoltà insomma d estendere anche alla natura certi margini di non disponibilità. È in fondo anche questa una questione di responsabilità. Trovo invece pericoloso, oltre che stupido, certo ecologismo duro, per il quale gli uomini sarebbero semplicemente pericolosi sfruttatori di una natura sacralizzata. Non voglio istituire connessioni troppo sbrigative, ma il radicalismo di certe politiche green sembra riflettere proprio questa brutta filosofia.