Difendere l’ambiente o difendersi dall’ambiente?
di Francesco Galofaro (Università IULM, Milano)
L’intervento di Corrado Clini contrappone due diversi approcci al problema del cambiamento climatico. Il primo, quello della decarbonizzazione, corrisponde alle scelte attuali della UE e alla strategia che prevale negli accordi internazionali. Questa strategia rivelatasi vincente per Paesi, come la Cina, che hanno fatto della decarbonizzazione un volano di sviluppo, non sembra funzionare nell’Unione europea a causa della carenza di materie prime e della specificità dei processi produttivi.
In alternativa, Clini propone di investire nell’adattamento al mutamento climatico: un complesso di politiche che rispondono alle emergenze che sono ormai di routine a ogni cambio di stagione: inondazioni, frane, cicloni che richiedono un’opera di manutenzione del territorio e che potrebbero trainare lo sviluppo. Propone la de-cementificazione delle metropoli e la creazione di aree verdi in grado di assorbire l’eccesso di acque piovane.
Non sono un economista; mi occupo di comunicazione. Pertanto, mi scuso se le riflessioni che seguono potranno apparire come una banalizzazione. Il rispetto dell’ambiente è oggi un valore centrale nella comunicazione pubblica e d’impresa e, di pari passo, nella ricerca e negli insegnamenti universitari. La necessità di posizionarsi rispetto al tema dell’ambiente, quando non è accompagnata da una chiara riflessione sulla natura, porta talvolta a scelte discutibili: ad esempio, una nota marca di birra ha acquistato un’isola per trasformarla in un villaggio vacanze a emissione zero. Chiaramente, questa scelta aggiorna Robinson Crusoe, il mito autarchico del maschio borghese occidentale, all’epoca della catastrofe ecologica.
Similmente, anche l’approccio della UE al problema ambientale, criticato da Clini, ha spesso i tratti della comunicazione ideologica. Per esempio, a quanto pare il piano “ReArm” sarà finanziato in gran parte con fondi Next Generation EU e per la ricerca; a meno che non si stia pensando di produrre carri armati elettrici, l’ambiente non sembra più una priorità.
Tralasciando la guerra, le cui ragioni trascendono la Ragione, la Commissione europea sembra sfruttare la mitologia ecologista per giustificare scelte che hanno più a che fare con l’innovazione di processo e di prodotto che con la tutela dell’ambiente. Se l’Unione europea applicasse alle automobili le stesse norme di efficienza che richiede per produrre un tostapane, dovrebbe vietare ogni genere di prodotto ingombrante, pesante e inefficiente dal punto di vista dei consumi, come i SUV. Al contrario, le aziende europee possono continuare a produrre auto inquinanti, associandosi con i produttori di auto elettriche mondiali per “far media”. Il rischio è che si generi così un classico “effetto perverso”, favorendo in realtà l’innovazione tecnologica al di fuori dalla UE, in Cina e negli USA.
In realtà, scelte politiche che intendano trascendere le mere esigenze della comunicazione pubblica richiedono un supplemento di riflessione sul significato che la Natura ha oggi per ciascuno di noi. In particolare, a causa del mutamento climatico, delle catastrofi a esso connesse, dell’inquinamento e delle sue ricadute in termini medici, dalle malattie polmonari al cancro, la “Natura” è vista oggi come un soggetto che ci minaccia attivamente; negli anni Ottanta, al contrario, la natura era pensata come un oggetto fragile, da preservare.
Per fare un esempio, all’epoca risalgono slogan quali «mangia sano, torna alla natura»; «Come natura crea, Cirio conserva». Alla natura era attribuito un valore positivo; preservandola, la cultura se ne sarebbe appropriata. La natura era rappresentata come un cristallo, da conservare in una teca: erano gli anni del WWF, fondato dal recentemente scomparso Fulco Pratesi. Già all’epoca, il semiologo Paolo Fabbri gli rimproverava amichevolmente una certa staticità dell’idea di natura soggiacente alle oasi e ai parchi naturali. Non si deve dimenticare, infatti, che la natura è viva e si trasforma. Se diviene stabile, è solo perché muore.
Nei decenni successivi il nostro modo di concepire l’ambiente è molto cambiato. Se un tempo l’ambiente era ciò che si doveva difendere, oggi ci si deve difendere dall’ambiente. Così come l’acido ialuronico difende la pelle dall’invecchiamento e le labbra dalla disidratazione, gli olii essenziali difendono dalle allergie mentre frutta, verdura e yogurt prevengono i tumori. Una vasta gamma di prodotti racconta una natura impazzita, divenuta una minaccia; il mondo della vita, il teatro della nostra esperienza, è un luogo distopico, denso di insidie, dal quale proteggersi.
La trasformazione della Natura da oggetto a soggetto si trova anche nell’enciclica Laudato sì di Papa Francesco, che può essere letta come un tentativo di modificare la concezione occidentale della natura. Come nota l’antropologo Philippe Descola, sotto le ceneri della secolarizzazione covano le radici cristiane del naturalismo occidentale. La natura è stata considerata un dono di Dio, per il quale essere grati e del quale si è disposto come meglio si è creduto. Tuttavia, richiamandosi al Cantico delle creature, l’enciclica di Bergoglio sottolinea il carattere animato della natura: la terra non è un regalo; è una madre. L’interazione con la natura richiede pertanto responsabilità, dato che qualunque attività umana non fa che modificarla.
C’è dell’altro, tuttavia: la concezione di natura non è affatto così uniforme come le politiche ecologiche internazionali sembrerebbero presupporre. Un interessante dibattito sulla nozione di natura si è avuto, negli anni Dieci del nuovo millennio, tra l’etnologo Eduardo Viveiros de Castro, leader dei movimenti indios brasiliani, e il sociologo Bruno Latour. Al primo, che sacralizzava la natura riprendendo divinità tradizionali come la Pachamama, il secondo obiettava che Gaia è un essere ibrido, tecno-organico, fatto di oceani e di cavi sottomarini di comunicazione, di foreste e di gasdotti che le attraversano. Dal dibattito emergono concezioni difformi della relazione tra natura e cultura. Per la prima, la Terra è una dea profanata dalla civiltà occidentale, dalla tecnica, dall’organizzazione sociale; per la seconda, la visione di una Terra “pura e incontaminata” è ingenua: il luogo dove viviamo è sempre una terra umanizzata. Le differenze tra le rispettive visioni di Viveiros de Castro e Latour sono comprensibili: il senso che la natura ha per noi dipende dal contesto e dai problemi che caratterizzano la nostra esperienza. In parole povere, la nozione di natura è culturale.
Il motivo principale della disaffezione e della sfiducia verso le politiche europee può essere individuato proprio in una certa rigidità che non tiene conto del contesto: in questo modo, appaiono distanti dall’esperienza quotidiana dei cittadini. Nel caso della tutela ambientale, il tipo di problemi con cui ciascuno di noi a che fare non è omogeneo, ma dipende in gran parte dal luogo dove viviamo.
Non opporrei, dunque, decarbonizzazione e adattamento al mutamento climatico in senso assoluto; probabilmente, non era questo l’intento di Clini. La Cina, caso virtuoso di decarbonizzazione secondo i dati proposti da Clini, è in realtà un esempio anche dal punto di vista delle politiche di adattamento, come la riforestazione. Nel 2019 ero in Cina per motivi accademici; ricordo ancora la sorpresa che provai mentre il mio treno ad alta velocità sfrecciava in un tappeto di giovani alberi appena piantati che si estendeva oltre l’ultimo orizzonte.
Distinguerei due diverse logiche di intervento sull’ambiente: quella della manipolazione e quella dell’aggiustamento. La prima logica vede la natura come un soggetto da manipolare secondo un programma piuttosto rigido e poco articolabile a seconda delle esigenze del territorio; per la seconda logica, mentre noi agiamo su di lei, la natura retroagisce su di noi. Per usare un’immagine, è come se una coppia imparasse a danzare, correggendosi e adattandosi reciprocamente.
Il mutamento nella concezione di natura da oggetto a soggetto consiglia caldamente l’adozione di questa seconda logica. Ad esempio, le politiche sull’auto elettrica diranno poco a chi risiede fuori città o in una valle montana, dove l’emergenza è, semmai, il canale che esonda, la casa allagata, la frana che blocca la strada, il vento anomalo che abbatte gli alberi: tutta la vasta varietà di disastri che caratterizzano l’apocalisse ecologica quotidiana.
D’altronde, le politiche di decarbonizzazione danno speranza a chi vive in città rassegnate all’inquinamento, i cui bambini soffrono di disturbi respiratori di ogni genere e in cui si discute dell’inevitabilità dei tumori. La città in cui vivo è una delle dieci più inquinate dell’Unione, ma possiede una sola linea della metropolitana. Qui occorrerebbe un maggiore incentivo allo sviluppo di mezzi di trasporto collettivo: bus, tram, metropolitane, treni. Probabilmente, dunque, più che cercare una formula generale, valida per tutta la UE, occorrerebbe stimolare politiche basate sul progetto, che intervengano sui problemi del territorio rispondendo all’analisi della situazione concreta.
A questo proposito, mi sia concessa un’ultima osservazione: nel suo intervento Clini chiama in causa la ricerca europea, finanziata dalla Commissione. Premiare la ricerca proveniente dai territori è richiesto dalla logica dell’aggiustamento reciproco tra natura e società. Purtroppo, a mio modo di vedere, il meccanismo di finanziamento della Commissione è molto distante da ciò che ci serve, perché premia pochissimi progetti su scala continentale. La stesura di ciascun progetto richiede una grande quantità di lavoro preliminare da parte di reti di soggetti pubblici, privati, enti di ricerca; lavoro che viene gettato nel cestino se il progetto non entra in graduatoria. Quando le probabilità che un progetto acceda ai finanziamenti sono inferiori al 10%, è chiaro che si scartano arbitrariamente progetti di altissima qualità. Si tratta di un sistema tremendamente inefficiente che, senza nulla togliere alle ricerche vincenti, appare basato sullo spreco di idee e di lavoro.