Il possibile, ci insegna l’ontologia, è sempre più ampio e più ricco del reale. Anzi, è la condizione stessa del reale, in fondo più reale del reale stesso. Per fortuna. L’articolo di Paolo Terenzi descrive un possibile che, finora, non si è mai tradotto in atto. Vuol dire che riguarda un possibile, cioè un dover essere che sarebbe buona cosa ci fosse, ma che la politica italiana non ha mai finora ritenuto doveroso concretizzare, a tutti i livelli a cui si riferisce: culturale, istituzionale, ordinamentale, sociale e politico.
Il possibile della politica, per la verità, non è quello dell’ontologia o della pedagogia. È soltanto quello autorizzato dal kratos, dai rapporti di forza e di potere esistenti nel governo dello Stato. Ciò significa, dunque, che, finora, per le ragioni più varie, le forze politiche, sociali ed economiche dominanti che hanno governato il nostro paese non hanno ritenuto di dover ottemperare al principio della libertà di educazione riaffermato sia all’art. 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo statuita dall’Onu nel 1948, sia alle risoluzioni del Parlamento europeo del 1984 e del 2012.
Hanno vinto «le ragioni della forza». Proprio per questo, tuttavia, bisogna insistere sulla «forza delle ragioni» del possibile. Queste devono continuare a fare la talpa di marxiana memoria, ovvero scavare, scavare, e scavare ancora più in profondità e in larghezza nei pensieri comuni e nei più consolidati criteri di giudizio e di azione, per poter un giorno riaffiorare e rendere possibile il politicamente fino ad ora impossibile.
Questi sono i duri dati di fatto. Disarmanti, però. In 170 anni di unità d’Italia, infatti, un possibile culturale e sociale così sensato e universalmente ribadito come quello di cui stiamo discutendo non ha mai trovato il modo di essere concretizzato. Con una perfidia ancora maggiore: solo 52 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, e in particolare dell’art. 33, commi 3 e 4, il parlamento italiano ha approvato la legge 10 marzo 2000, n. 62, Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all'istruzione. La si è, e forse giustamente, visto il peso dei trascorsi storici su questo tema, spesso esaltata come una svolta importante. In effetti, afferma senza reticenze il principio della piena parità giuridica esistente tra scuola statale e non statale paritaria. Un segno indubbio che lo stato italiano è liberale, non autoritario. Che, quindi, estende l’area del lecito. Non la comprime.
La norma, tuttavia, è astenica. Si guarda bene dall’affrontare la partita decisiva della parità economica tra scuole statali e scuole non statali paritarie che dovrebbe essere connaturale a quella giuridica. Invece rimandata a tempi migliori. Ma se le scuole non statali paritarie sono pubbliche e svolgono un servizio pubblico che la Repubblica riconosce, governa nella gestione e controlla nei suoi esiti al pari delle statali, per quali ragioni diverse dal mero Potere uno studente e la sua famiglia continuano ad essere penalizzati sul piano economico nel caso intendano frequentarle?
La risposta non può essere ragionieristica. Tanto più che, in astratto, seguendo la logica dei costi standard, finanziare uno studente nella libera scelta di frequentare una scuola non statale paritaria è più conveniente non solo per le stesse finanze statali.
Dunque, il problema non è del possibile economico, ma soprattutto di quello antropologico, culturale e di mentalità. Solo agendo su questi piani senza rassegnazioni si potrà sperare di far prevalere, un giorno, «la forza delle ragioni della libertà di scelta educativa» sulle «ragioni della forza tipica di ogni kratos politico e sociale» storicamente determinato che tende semplicemente ad autoconservarsi.
Problema antropologico. Nella modernità, era già stato identificato con precisione da Rousseau, con la pubblicazione del suo Emilio (1762). Avvertì come grave pericolo l’educazione delle giovani generazioni impostata sulla cosiddetta «educazione del cittadino». Cittadino francese, come poi istituzionalizzerà il sistema napoleonico. O cittadino italiano, come accadde con il neonato Regno d’Italia. «Fatta l’Italia, bisognava fare gli Italiani» (M. D’Azeglio, 1867). Scuola ed esercito, coscrizione militare e coscrizione scolastica come le vie più immediate ed efficaci per formare il «nuovo cittadino» allora della nazione italiana ora dell’Europa e, tra breve, perfino del mondo. Rousseau ribadì che l’educazione avrebbe potuto essere pedagogica, e non da kratos politico-sociale, solo se avesse posto al centro la massima maturazione possibile dell’intera persona concreta di ciascuno. Ogni Emilio, infatti, ciascuno nella sua diversità, è quell’intero assoluto che non può essere adoperato come parte, mezzo, strumento per nulla di diverso dallo svolgimento ottimale di sé stesso nelle relazioni con gli altri, sia esso questo qualcosa di diverso la grandezza della nazione o dell’economia. Solo se si riconosce che l’educazione deve mirare sempre come suo fine al miglior «dover essere integrale di ciascuno» si avranno, come conseguenza, anche ottimi cittadini di ogni nazione, dell’Europa e del mondo. Pensare e praticare il contrario o anche immaginare di far coincidere l’educazione dell’uomo e quella del cittadino significava abbracciare la via dell’antipedagogia che, diceva sempre Rousseau, avrebbe poi impedito un buon Contratto sociale (1762).
Proprio la tesi rousseauiana aiuta a spostare la questione dal piano del possibile antropologico a quello sociale, culturale e della mentalità. Nel 1848 il fratello gesuita di Massimo D’Azeglio scriveva che pretendere di ottenere l’unità del corpo sociale «col ridurre ogni parte sotto l’unico influsso del governo centrale» è inefficace ed «in questo appunto consiste l’enorme differenza tra il centralismo vizioso e l’armonia naturale della società: il centralismo toglie agli organi particolari la forza o autorità loro propria; all’opposto il governo armonico conserva le autorità particolari inducendole ad operare esse medesime per il bene comune» (P.L. Taparelli D’Azeglio 1963, p. 176). Aggiornando queste idee, nel 2001 la riforma costituzionale del Titolo V voluta dal centro sinistra introdusse, per la prima volta, nell’art. 118 della nostra Carta, i principi della sussidiarietà verticale ed orizzontale. Si riconosceva che non poteva e non doveva essere lo Stato a «creare», a «plasmare» la società, ma il contrario. Lo Stato doveva e poteva riconoscere e valorizzare i pensieri e le azioni delle «formazioni sociali» che articolano la società e che devono essere sempre più, in se stesse, autonome, cioè capaci di darsi da sé i fini che le rendano via via più vive e più responsabili verso i membri che le compongono: famiglie, scuole, enti locali, gruppi cooperativi e mutualistici, sindacati, imprese, partiti, comunità ecclesiali. Per questo, almeno dal 2001, «le scuole della Repubblica» non avrebbero più potuto, costituzionalmente, coincidere con «le scuole istituite dallo Stato», ma con tutte quelle comunque promosse in libertà e responsabilità da enti, famiglie e privati sulla base delle «norme generali» stabilite dallo Stato. Ogni «statalismo scolastico», dunque, avrebbe dovuto essere bandito.
In realtà, non è accaduto. Sull’onda di una tradizione che affonda le sue radici nel primo periodo unitario e che si è poi irrobustita con l’idealismo di destra (liberali, conservatori e fascisti) ma nondimeno con quello di sinistra tipico del comunismo italiano (Gramsci fu un acuto allievo di Gentile), infatti, si è continuato a sovrapporre il concetto di «pubblico» con quello di «statale». E si è continuato a dare per scontata l’idea che la vera scuola sarebbe quella costituita «dall’apparato amministrativo statale», irrobustitosi fino ad essere autoreferenziale dall’unità d’Italia ad oggi. Una scuola dove gli insegnanti, le norme amministrative, gli ordinamenti, la struttura gerarchico-centralistica, le regole sindacali esistono non per valorizzare meriti e diversità dei singoli studenti e delle loro famiglie, ma per adattare gli uni e le altre al disciplinamento stabilito dall’apparato. Come scrisse Pietro Scoppola nel 1985, infatti, «lo Stato gestendo in condizione di monopolio le risorse pubbliche per l’istruzione, è condannato fatalmente ad offrire un cattivo servizio, sottratto alla fine ad ogni criterio di efficienza e di funzionalità e dominato invece dalle logiche sindacali e corporative di coloro che operano nella scuola. Una scuola per gli insegnanti invece che per le giovani generazioni e per la società è, alla fine, il fatale punto di arrivo della rivendicazione del monopolio statale nell’utilizzazione delle risorse pubbliche per l’istruzione» (P. Scoppola 2008, pp. 176-177).
Eppure, a maggior ragione oggi, dopo decenni in cui, in nome dell’emancipazione dalle «formazioni sociali» di cui parla la Costituzione, si è esaltata la «disintermediazione» e in cui, ormai, nessuno appartiene più a niente salvo che alla proliferante autofagia di se stesso nel virtuale, sarebbe molto importante riattivare nelle famiglie il gusto «normale» dell’esercizio esistenziale e sociale della libertà e della responsabilità dell’educazione. Scoprire che solo insieme, nella libertà di educazione, studenti, genitori, docenti e attori sociali possono progettare e costruire la scuola come cosa loro, nella quale elaborare protagonisticamente non solo i propri possibili progetti di vita, ma anche, loro tramite, quelli di tutti. Sarebbe la strada migliore per ricostituire quel capitale di fiducia reciproca e di impegno solidale senza il quale nessun possibile sviluppo economico, sociale e culturale potrà mai darsi.
Riferimenti bibliografici
Taparelli D’Azeglio, P.L. (1963), Sulla libertà di associazione (inedito d’archivio «Civiltà cattolica»), in De Rosa, G., I Gesuiti in Sicilia e la rivoluzione del ’48, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura.
Scoppola P. (2008), La ‘nuova cristianità’ perduta, Studium, Roma 2008.