L’articolo di Corrado Clini è del tutto condivisibile sia nella prima parte, ove evidenzia l’inarrestabile aumento delle emissioni clima-alteranti e quindi l’inefficacia delle politiche sin qua seguite, che nella seconda ove avanza proposte di riforma, al fine di aggiornare obiettivi e misure del Green Deal europea. Al di là della possibilità o meno che esse siano approvate in un’Unione europea sempre più segnata da nazionalismi energetici, sta il fatto che nel giro di poco tempo – dacché Clini ha scritto il suo articolo – lo scenario energetico globale è stato sconvolto dal ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump. Un ritorno che segna un assoluto punto di discontinuità nelle politiche americane e di conseguenza, data la rilevanza degli Stati Uniti nell’aritmetica energetica e climatica globale, nei sistemi energetici globali.
È cambiata anche la narrazione dominante, il politicamente corretto, riguardo quel che si dovrebbe fare, sostenendo quel che in cuor loro molti analisti, organismi, imprese, condividevano senza il coraggio di affermarlo. Insomma, in un batter d’occhio si è detto il contrario di quel che sin lì si era sostenuto. Assolutamente eclatanti e esemplificative sono le parole del vicepresidente della compagnia petrolifera BP che ha dichiarato con senso liberatorio «We love exploration» nell’upstream petrolifero dopo che poco tempo prima la stessa BP aveva sostenuto di voler bloccare le esplorazioni di greggio per ridurre la produzione del 40% entro fine decennio. La sua crescita è divenuta invece l’asse portante della nuova strategia dell’impresa londinese. La questione centrale che ora appare essere messa fortemente in discussione è la possibilità di conseguire obiettivi troppo ambiziosi in tempi troppo stretti, a iniziare dal raggiungimento a metà secolo delle emissioni “net-zero”: con ogni emissione residua che viene annullata dalla rimozione di emissioni dall’atmosfera.
Quel che comporterebbe – all’interno di una complessiva ristrutturazione del sistema energetico ed economico mondiale – l’eliminazione sostanziale delle fonti fossili che ancora oggi soddisfano invece oltre l’80% dei consumi energetici mondiali solo in leggera riduzione rispetto alla quota che detenevano una quarantina di anni fa. Questo dovrebbe avvenire a vantaggio delle risorse rinnovabili, in quella che viene indicata come transizione energetica, definita come «follia» dal segretario all’energia americano Chris Wright. Il predominio delle fossili non è l’esito della follia umana o del potere dei petrolieri, ma, innanzi tutto, del continuo aumento della domanda di energia nel mondo che è cresciuta nel 2024 del 2,2% contro l’1,3% annuo del decennio 2013-2023 che proviene innanzi tutto dai paesi poveri a iniziare dall’Africa. Un continente demograficamente giovane con una popolazione prevista aumentare sul totale mondiale dall’attuale 18 al 25 per cento a metà secolo, ove circa 600 milioni di persone vivono senza elettricità e circa 1 miliardo non dispone di combustibili puliti per cucinare. Le biomasse tradizionali forniscono ancora circa la metà del consumo energetico del continente.
Al crescere della popolazione africana – o di altre parti povere del mondo – cresce quella che richiede cibo, acqua, riparo, calore, luce, trasporti, e lavoro attivando nuova domanda per energia sicura e accessibile. Senza sviluppo economico la migrazione diverrà un problema ancor più grave mentre peggioreranno le condizioni ambientali del Pianeta. Perché è lo sviluppo economico e non la povertà che è in grado di migliorarle. Ebbene questa domanda addizionale non può che essere soddisfatta nel breve termine dalle fonti fossili più che dalle risorse rinnovabili (finalizzate per altro prevalentemente alla produzione dell’elettricità, un quinto dei consumi energetici). Risorse che sono per giunta additive rispetto alle fossili più che sostitutive, con un’unità calorica incrementale che non sostituisce un’unità calorica tradizionale, me le si somma. Come del resto avvenuto in tutte le passate transizioni: dalla legna al carbone, al petrolio, al gas naturale. Così che al record che nel 2024 hanno segnato le rinnovabili si è associato un record in termini assoluti delle fonti fossili, con 8,8 miliardi di tonnellate di consumi di carbone (raddoppiato da inizio secolo), 104 mil. bbl/g di petrolio, e 4.200 miliardi metri cubi di gas naturale così che il target di innalzamento della temperatura di 1,5°C è stato ufficialmente superato nel 2024. E con percentuali ancora maggiori in Europa come evidenziato da Clini.
Gli annunci e Executive Order a cascata decise da Donald Trump hanno creato grande incertezza specie riguardo l’imposizione di tariffe e dazi sulle importazioni di petrolio e gas con impatti difficili da pre-determinare anche in ragione delle possibili ritorsioni dei paesi esportatori interessati. Sta di fatto che si è stimato che quel che Trump ha deciso dal suo insediamento potrebbe aumentare di 4 miliardi di tonnellate le emissioni clima alteranti rispetto al percorso prima previsto. Alla mutevolezza della politica deve poi aggiungersi il crescente prevalere nei decisori di un maggior senso di realismo sugli obiettivi, costi, tempi della transizione energetica rispetto all’ottimismo post Accordo di Parigi riconoscendo che un aumento della temperatura di 1,5 o 2 C° sia inevitabile. Tutto questo ha portato all’aspetto dirimente che il clima stia divenendo un tema sempre meno prioritario nell’agenda dei governi, rispetto ad altre questioni, come la difesa, a cui può assimilarsi la sicurezza energetica. Pensiamo al piano proposto dalla Commissione per la difesa europea per 800 miliardi di euro fuori dal patto di stabilità o a quello delle Germania di 500 miliardi per infrastrutture e difesa. Mentre l’impatto negativo delle politiche climatiche sull’intera competitività europea, diversamente da quel sostenuto nel rapporto Draghi, ha portato la Commissione a rivedere al ribasso tempi e livelli degli obiettivi.
In assenza di interventi correttivi l’economia europea, che già paga prezzi dell’energia superiori di due o tre volte rispetto a quelli americani, subirebbe un collasso in termini di crescita anche alla luce del protezionismo adottato da Trump che colpirà l’intera economia mondiale, inclusi gli Stati Uniti.