Tra le posizioni critiche a cui il giovane Nietzsche è giunto nelle sue analisi del rapporto fra istituzioni e cultura – mi riferisco a Sull’avvenire delle nostre scuole e alla terza inattuale, Schopenhauer come educatore – c'è la constatazione che la cultura praticata negli Atenei, e di lì diffusa nella società, è solo scienza, sapere applicato, meramente orientato a uno scopo, funzionale allo Stato e al sistema di potere che in esso culmina: l’utilità. Utilità politica perché l’alta cultura plasma e fornisce al Paese l’hegeliano ceto universale dei funzionari, il cervello operativo dello Stato; utilità economica, perché la ricerca scientifica è direttamente produttiva per il capitalismo; utilità comunicativa, perché l’Università promuove una forma e uno stile culturale e sociale esemplato su modelli (stranieri) che generano conformismo; utilità scientifica, perché il sistema accademico produce e riproduce la metodologia della (inerte) misurazione, della (fredda) precisione e della (morta) erudizione.
Sarebbe assurdo ipotizzare un’immediata sovrapponibilità fra la situazione delle università tedesche del 1870 e di quelle italiane di centocinquanta anni dopo. Molto meno assurdo è invece il metodo inaugurato da Nietzsche: per capire un sistema educativo, e in particolare le sue articolazioni avanzate, si deve comprendere che cosa una società pensa di se stessa. Se per Voltaire il grado di civiltà di un Paese si evince dalle condizioni delle sue prigioni, per Nietzsche è l'università a rivelare la struttura profonda, materiale e spirituale, di una società e di uno Stato. La condizione degli Atenei, la loro conformazione e destinazione, non è quindi una questione tecnica, specialistica, settoriale: in quelle istituzioni emerge e si fa concreta l’immagine dell’uomo che una società elabora, e il futuro che essa si prefigge. Aspirazioni e contraddizioni del “sistema” plasmano le università: le università rispondono allo spirito del tempo.
Alla luce di questa posizione proviamo a interpretare l’università italiana di oggi, quale risulta dal ciclo di riforme che vanno dagli anni Ottanta del XX secolo (riforma Ruberti, 1990) alla riforma Berlinguer-Zecchino (1999) fino alla riforma Gelmini (2010) e alle sue successive modificazioni (fino a quelle prospettate da Bernini). Prima, seconda e terza repubblica sono da questo punto di vista in continuità fra loro: tutte le riforme sono fondate sull’assunto che l’università debba essere “utile”, al passo con i tempi, in grado di competere sulla scena internazionale. Su questi presupposti si è concessa agli Atenei un’autonomia fittizia che però non si estende né ai finanziamenti (dipendenti in larghissima misura dallo Stato, e sempre risicatissimi in termini percentuali e assoluti) né all’offerta didattica (sottoposta a controlli ministeriali al limite del vessatorio, in un trend di un'incontrollata invasività della dimensione burocratica nella vita universitaria). Si è consentito l’ingresso di privati a finanziare e orientare ricerca e didattica, ovviamente nella direzione di una immediata valorizzazione economica del sapere. Si è riformato l'insegnamento, centrandolo su un’informazione elementare impartita in modi manualistici al triennio, cui segue nel biennio specialistico uno sviluppo più circoscritto, anch’esso però ben lontano dal favorire nello studente uno spirito critico – il tutto avviene, infatti, all’insegna della fretta, dell’obbligo per lo studente di conseguire determinati crediti, da cui specularmente consegue l’obbligo per il docente di alleggerire i corsi, secondo modalità sempre più ripetitive e manualistiche, così che un barlume di capacità critico-genealogica, di messa in prospettiva del sapere, può essere sviluppata solo, e non sempre, nel triennio del dottorato, al quale peraltro accede una quota infima della massa studentesca.
Si è contemporaneamente proceduto a un disciplinamento ossessivo della ricerca, forzata a riprodursi entro positivistiche caselle epistemologiche rigidamente prefissate (il cui rispetto è obbligatorio per ottenere finanziamenti), e valutata per lo più ottusamente su basi quantitative estrinseche, pseudo-oggettive – di tale valutazione si è fatta la chiave delle carriere dei docenti, del finanziamento dei progetti di ricerca (la cui continua compilazione è divenuta la nuova furiosa e immaginifica occupazione del corpo insegnante) e anche delle strutture (a loro volta soggette a competizioni a livello mondiale, condotte su parametri discutibilissimi, fra l’alberghiero e il finanziario-occupazionale). Si è definitivamente sconfitto il ceto accademico – che ai nuovi trend non ha opposto alcuna gloriosa resistenza –, poiché i professori costretti, con emolumenti invariati, a un pauroso incremento delle prestazioni didattiche e burocratiche, a un'incessante ricerca di sedi in cui pubblicare i frutti dei loro frettolosi studi, privati di prestigio e di autorevolezza e anche di libertà scientifica in quanto ridotti a un ruolo impiegatizio, strutturalmente impossibilitati a esprimere un autentico e originale magistero, sono sovrastati dai rettori e dall’alta burocrazia universitaria, e arruolati dopo un defatigante percorso di guerra nel precariato, nel quale come in un perverso videogioco si moltiplicano trappole e difficoltà (con possibile relativa espulsione dal sistema accademico dopo qualche anno di lavoro sottopagato). Si è caricata l’università di una “terza missione” consistente nella disseminazione sociale della cultura, come se da questa divulgazione dipendesse la legittimazione dell’università davanti alla società.
Tutto ciò, quindi, avviene all’insegna della ricerca dell’utilità, della lotta contro la presunta tendenza dell’Accademia a chiudersi in una incomunicante torre d’avorio, e dello sforzo di aziendalizzare (ma anche di sovra-burocratizzare) gli Atenei, mentre in parallelo si leva il compianto per lo scarso numero dei laureati in Italia e per la scarsa affluenza di iscritti alle "utili" facoltà “STEM” (scienza, tecnica, ingegneria – in inglese – matematica), e cresce l’indifferenza o l’insofferenza per le forme di sapere storico-umanistico, che trovano ben poca accoglienza a livello nazionale e nessuna a livello europeo – il sapere non-STEM deve in ogni caso, per potere essere finanziato, essere immediatamente “applicabile” alla società, in quanto utile a ricomporla, governarla, motivarla, organizzarla.
Ne risulta che la cultura che l’università sa produrre e trasmettere è mediamente quella dell’esperto appena sgrossato e di non alto livello, in pochi casi dello specialista, in pochissimi dell’uomo (o della donna) di cultura, capace di possedere strumenti operativi ma anche di non dipenderne e anzi di padroneggiarli fino al punto di comprenderne genesi e finalità (e all’occorrenza di criticarli più o meno radicalmente). Ma c’è da chiedersi se questo incrocio di defatigante burocrazia e di aziendalismo sottofinanziato, di incessante e approssimativa competizione valutativa a tutti i livelli, di coazione carrieristica a ostacoli, di didattica sempre più facilitata, di ricerca sempre più affrettata, di divulgazione sempre più accondiscendente, sia di qualche utilità al Paese, o non sia piuttosto di danno (insomma, un costo, e non un beneficio).
Data la generale insoddisfazione che accompagna (salvo felici e occasionali eccezioni) l’esperienza universitaria, data la diffidenza (quando non l'indifferenza) della società e della politica verso il mondo accademico, dato che le eccellenze prodotte dal sistema – i talenti e le intelligenze non mancano, ovviamente – sono invogliate alla emigrazione (che spesso riesce con successo, e che è una perdita netta del sistema-Italia), sembra che la ricerca dell’utilità pubblica e privata attraverso il sapere universitario sia incerta, svogliata, confusa. Che non sia sorretta da un’idea, da un progetto, se non dall’ansia di rincorrere modelli stranieri, senza che si vogliano pagare i prezzi che questi comportano – la selettività competitiva orientale, paurosamente disciplinata, o i finanziamenti stratosferici (anche derivati dalle tasse altissime, oltre che dai donativi privati) di cui godono i pochi grandi atenei anglosassoni che fanno davvero egemonia mondiale (mentre la loro grande maggioranza si colloca a livelli modesti).
Insomma, se si deve giudicare il Paese dalla sua università, dalla sua immagine “colta”, emerge una realtà insicura, subalterna, che non sa che cosa vuole fare di sé, e che sta distruggendo proprio l’istituzione che dovrebbe esprimere il più alto grado di consapevolezza storica e scientifica della società. È proprio l’utile quello che manca all’Università. L’utile dell’efficienza, probabilmente, e certamente quello (altrettanto e più indispensabile) della critica, l’utile della produzione e dell’innovazione e l’utile della libertà scientifica che ha come "risultato della ricerca" l'apertura della mente pubblica, il fervore della viva circolazione delle idee: ovvero, la produzione di un sapere avanzato che fa avanzare una società, arricchendola di frutti culturali che col tempo, per via indiretta, nutrono tutti accrescendo la consapevolezza collettiva (soprattutto se le scuole, a loro volta, sono in grado di trasmetterli – il che al momento è pura fantasia, tranne le solite eroiche eccezioni). Detto altrimenti, l’università è oggi pensata e organizzata in modo tale da non saper esprimere, mediamente, un soffio di energia vitale che la metta in grado di fare qualcosa di diverso dall’assecondare un trend mondiale di strumentalizzazione del sapere, cioè di non essere soltanto parte del problema del nostro tempo, del nostro disorientamento, delle coazioni che ci sovrastano, ma di produrre anche qualche pur timida ipotesi di soluzione.
Per chiudere questa riflessione con un auspicio inattuale – e di improbabilissima attuazione –, si dovrebbe dire che ciò di cui l'università ha bisogno è di essere freno al procedere cieco dei processi e delle riforme che prendono a modello l'azienda o il ministero, e di sapere esprimere in questa resistenza anche un’energia progressiva, liberatoria. Di avere cioè il coraggio di recuperare vera autonomia dalla propria tradizione, dall'orgoglio della indipendenza critica del sapere e dalla consapevolezza che la più alta utilità sociale è l’esempio e l’esercizio della libertà dello spirito. Sarebbe in quel coraggio – nella rivendicazione di un vero autogoverno delle istituzioni culturali, che si pongano come la magistratura scientifica della nazione e come la sua riserva di consapevolezza storica – la vera utilità dell'università, per sé e per un Paese che sta dimenticando se stesso.