Salvare la politica ambientale dalla politica industriale
di Carlo Stagnaro (Direttore ricerche e studi, Istituto Bruno Leoni)
Quella che Corrado Clini chiama «inversione delle priorità» nelle politiche climatiche europee nasce, in realtà, da un duplice difetto di visuale: di fronte alla sfida della decarbonizzazione, l’Unione europea ha fatto (e fa) fatica a mettere a fuoco il problema sia nella sua dimensione di breve termine, sia in quella di lungo termine.
Nel breve termine, Bruxelles ha sopravvalutato tanto il proprio ruolo quanto la propria capacità innovativa. L’unilateralismo climatico europeo nasce negli anni Novanta, quando l’Ue produceva il 15 per cento delle emissioni complessive e aveva emissioni pro capite circa doppie rispetto alla media globale. In quel momento, l’Unione si è illusa di poter forzare la mano ponendosi alla guida di una trasformazione su vasta scala. Le cose sono andate diversamente: l’Europa ha messo in atto politiche aggressive e ha (finora) pienamente raggiunto gli obiettivi, ma nel frattempo il mondo è cambiato in senso opposto a quello atteso, e in maniera perlopiù imprevedibile. Oggi il successo europeo ci ha reso una economia marginale nella produzione delle emissioni globali (che dipendono da noi per meno del 7 per cento), mentre su basi pro capite un europeo emette poco più della media globale, meno di un cinese e molto meno di un americano. Quindi, ci siamo trovati a proclamare la nostra leadership proprio nel momento in cui constatavamo l’assenza di follower. Non nel senso che altri paesi non si pongano il problema del clima – lo fanno praticamente tutti, inclusi Pechino e Washington – ma nel senso che seguono criteri e obiettivi che non necessariamente coincidono coi nostri.
La volontà di perseguire una politica di rapida decarbonizzazione basata su targets & timetables (il taglio delle emissioni dell’8 per cento entro il 2012, del 20 per cento entro il 2020, del 55 per cento entro il 2030 e del 100 per cento entro il 2050) ha determinato uno spostamento dell’enfasi politica dal risultato allo strumento. In altri termini, il capitale politico e finanziario investito sul clima si è interamente scaricato sul deployment delle tecnologie utili alla decarbonizzazione, e ciò ha lasciato sguarniti i due fronti che oggi rappresentano altrettante debolezze dell’economia europea. Da un lato, abbiamo sostanzialmente abdicato a giocare un ruolo nell’innovazione tecnologica, che infatti si è spostata sempre più verso gli Stati Uniti e verso la Cina. Oggi l’Europa è – contemporaneamente – la regione del pianeta che ha saputo tagliare maggiormente le proprie emissioni e che è maggiormente debitrice di innovazione importata, senza aver contribuito – se non in piccola parte – con innovazione indigena. Siamo attori della partita globale della decarbonizzazione, a cui abbiamo sostanzialmente contribuito con immensi capitali pubblici e privati, ma non ne siamo protagonisti. Dall’altro lato, avendo fatto dell’adozione delle tecnologie esistenti il centro della politica climatica, abbiamo trascurato l’importanza dell’adattamento ai cambiamenti climatici. Poiché però gli effetti di questi ultimi sono funzione delle concentrazioni di gas serra in atmosfera (e solo in seconda battuta delle emissioni) e poiché comunque gli incrementi emissivi in altre parti del mondo hanno più che compensato i nostri tagli, ci siamo trovati a pagare i costi del riscaldamento globale senza percepire i benefici della transizione energetica.
Da qui si comprende anche dove stia il difetto di messa a fuoco di lungo termine. Le politiche climatiche europee – sempre presentate come foriere di un doppio dividendo, ambientale ed economiche – hanno in realtà contribuito ad accelerare il declino del vecchio continente. Non, ovviamente, declino nel Pil pro capite, che è comunque aumentato (tranne che in Italia): declino, semmai, ben visibile nei tassi di crescita della produttività. Sarebbe ingenuo e scorretto imputare questo fenomeno alle sole politiche climatiche: come ben evidenzia il rapporto Draghi, la divaricazione tra Ue e Usa è dovuta soprattutto allo sviluppo dei settori Ict, che l’America ha prodotto e l’Europa soltanto importato. Ma sarebbe altrettanto ingenuo ignorare l’effetto di spiazzamento che i massicci investimenti (pubblici e privati) sulla decarbonizzazione – e in particolare su quel modo di concepire la decarbonizzazione – hanno avuto su tutti gli altri settori.
L’incapacità di mettere correttamente a fuoco le dimensioni del problema climatico ha così prodotto tanto un difetto quanto un eccesso di intervento – su piani differenti. L’Europa ha mancato di intervenire su tre fronti, ben evidenziati da Clini: l’adattamento al cambiamento climatico, il sostegno alla ricerca, sviluppo e innovazione e il trasferimento tecnologico (inizialmente previsto nel contesto di Kyoto e poi sostanzialmente abbandonato). Quindi l’Europa non si è (sufficientemente) preparata ai cambiamenti climatici, non ha contribuito a trovare soluzioni originali (bensì solo ad applicare su larga scala quelle esistenti) e non ha aiutato a tagliare le emissioni dove vengono (sempre più) generate, concentrandosi unicamente sul taglio delle emissioni domestiche. Tale difetto è stato controbilanciato da un eccesso di interventismo interno: sotto il manto della politica climatica sono state varate politiche che col clima hanno un legame solo formale, quali le varie forme di obbligo o sostegno su fonti rinnovabili, efficienza energetica, standard emissivi per l’auto, e via discorrendo. Tali politiche non hanno agevolato la riduzione delle emissioni: ne hanno moltiplicato i costi. Anziché affidare al mercato il compito di individuare come e dove tagliare le emissioni, Bruxelles ha sovraimpresso sugli obiettivi climatici una serie di vincoli. Nella migliore delle ipotesi si può dire che tali vincoli riflettono quella che, al momento in cui è stata disegnata, era la migliore strategia possibile ex ante: ma quasi mai ciò che è vero prima lo è anche ex post, tanto meno quando riguarda programmi ambiziosi e i cui effetti sono molto dilatatati nel tempo. Non solo: gli obiettivi sono stati calati in modo orizzontale sulle economie europee, ignorando il fatto che (per esempio) imporre la medesima percentuale di fonti rinnovabili a paesi con caratteristiche fisiche e morfologiche molto diverse non poteva che risolversi in inefficienze, eccessi e rimostranze.
Naturalmente, sarebbe facile chiudere qui, limitandosi a un lungo e forse inflazionato cahiers de doléances. Il vero problema è: che fare adesso? La domanda è importante perché, proprio di fronte alle evidenti storture delle politiche climatiche europee, cresce la tentazione di gettare il bambino con l’acqua sporca, andando dietro alle scorciatoie trumpiane. Ma ciò equivale a ignorare che il problema esiste davvero e che pure le soluzioni possono essere sviluppate senza necessariamente imporre costi o oneri sproporzionati. Tuttavia, prima ancora di immaginare una politica diversa – come abbiamo fatto nell’ambito di un recente progetto di Epicenter - occorre ammettere che non possono esistere politiche climatiche senza costi. Se fosse possibile tagliare le emissioni gratis, o addirittura con benefici economici e occupazionali, semplicemente questo dibattito non esisterebbe. Invece esiste in Europa come negli Usa e in Cina: dunque la vera domanda è come minimizzare i costi e come distribuirli.
Se si vuole prendere sul serio la politica climatica, bisogna partire dalle linee guida enunciate da Clini, che richiedono anzitutto un faticoso lavoro di ricucitura dei negoziati globali sul clima. Il passaggio dalla logica di Kyoto a quella di Parigi è stato, in questo senso, fondamentale, perché ha consentito di abbandonare un approccio prescrittivo nel nome di uno cooperativo: ma tale cambiamento va portato fino in fondo, replicandolo anche a livello europeo e facendone un modello di collaborazione internazionale che sappia valorizzare gli sforzi dei paesi sviluppati di sostenere quelli in via di sviluppo nella loro decarbonizzazione (e non solo, anzi quasi per niente, nella forma di un rinnovato tentativo di replicare il fallimento dei fondi allo sviluppo). Ciò comporta un cambiamento fondamentale, tanto in sede internazionale quanto in sede europea: passare dalla logica degli assoluti (clean energies) alla logica dei miglioramenti incrementali (cleaner energies). L’idea che si debbano bruciare le tappe, guardando con sospetto qualunque step intermedio, è una delle ragioni della delegittimazione politica della battaglia climatica, perché ne ha fatto esplodere i costi e le difficoltà. Inoltre, non sempre è possibile abbattere le emissioni: mentre è invece fattibile un percorso di graduale riduzione. Quindi, non tutto ciò che (in valore assoluto) produce emissioni è male: al contrario, è bene tutto ciò che può essere utile a ridurre le emissioni.
L’unico modo per tradurre, internamente ed esternamente, questo principio è ritornare all’idea della neutralità tecnologica, che teoricamente fa parte dei principi di riferimento dell’Unione europea e che la maggior parte degli economisti considera lo strumento più efficiente: abbandonare l’idea di incentivare il bene (lasciando poi la definizione di cosa sia bene a chi occupa pro tempore posizioni di potere) e ritornare al fondamento della politica climatica europea, che consiste nel disincentivare – attribuendogli un prezzo – ciò che è (o fa) male, cioè le emissioni. Bisogna dunque guardare al risultato, non allo strumento: e prendere atto che l’obiettivo ultimo, cioè la neutralità carbonica nel lungo termine, presuppone lo sviluppo di tecnologie oggi non disponibili, piuttosto che la mera installazione di tecnologie che sono già sul catalogo dei policy maker e delle imprese.
Gli errori europei sul clima nascono dunque da una sovrapposizione tra politica ambientale e politica industriale. La prima risponde a una legittima scelta politica; la seconda è figlia di processi di cattura o, nella migliore delle ipotesi, di una presunzione di conoscenza che i decisori politici non possono possedere. Sarebbe sbagliato sacrificare la politica ambientale per i fallimenti della politica industriale.