Circa trent’anni fa, parlando di crisi dell’università con Nikolaus Lobkowicz, già Rettore dell’Università di Monaco di Baviera, poi passato a fare il rettore nell’Università cattolica di Eichstaett, buttai là una citazione di Romano Guardini: «L’università si ammala, appena la verità cessa di essere la norma nella coscienza dell’università». Ne ricevetti più o meno la seguente risposta: «L’Università attuale non è altro che una scuola di formazione professionale dove si fa ricerca, un’istituzione che a buon diritto viene a inserirsi in un terziario culturale indifferenziato». Pretendere di più, sono sempre parole di Nikolaus Lobkowicz, «sarebbe come dire che la Siemens, nel costruire il suo programma di formazione degli apprendisti, avrebbe bisogno di una profonda riflessione spirituale».
In questa risposta c’era molta amarezza, ma anche molta verità. Se poi confrontiamo con la realtà attuale l’idea di una “scuola professionale dove si fa ricerca”, si potrebbe persino pensare che si trattava di una risposta ottimistica. Come ha scritto giustamente Lorenzo Ornaghi, l’idealtipo dell’Università ha subito ormai tali e tanti cambiamenti che quasi non si riconosce più. Il luogo per eccellenza dove si fa ricerca è stato pian piano sostituito con un luogo dove si cerca soprattutto una sorta di “completamento-coronamento del ciclo superiore di formazione scolastica”. Sono sempre parole di Ornaghi. Tuttavia non riesco a rassegnarmi all’idea che, parlando di università, non si possa pretendere di più. Mi rendo conto ovviamente che oggi sarebbe semplicemente velleitario ritenere che nei diversi dipartimenti universitari si persegua “la verità per se stessa”, secondo l’indicazione di Romano Guardini; oltretutto nella nostra cultura pochi concetti sono tanto discreditati quanto quello di verità. Trovo tuttavia assai deprimente e, in ultimo, addirittura controproducente la disinvoltura con la quale, da un lato, abbiamo accantonato l’idea che l’istituzione universitaria risponda a un progetto sintetico di produzione e di diffusione di un sapere “alto” e, dall’altro, abbiamo accettato il ripiego sui cosiddetti percorsi professionalizzanti persino nei dipartimenti che una volta si sarebbero detti umanistici o in quelli di matematica. Di passaggio, credo che stia qui una delle cause del tanto deprecato deterioramento delle nostre classi dirigenti.
Ovviamente non ho alcuna nostalgia per l’università di ieri o per l’accademia platonica. So bene che viviamo in una società complessa, caratterizzata da una pluralità di punti di vista anche riguardo alle nostre idee sull’università. E indietro non si torna, né sarebbe auspicabile farlo. Mi vanno bene le Teaching Universities americane, dove si mira esclusivamente a una formazione di base la più diffusa possibile. Mi vanno bene anche le università telematiche che potrebbero allargare meritoriamente il numero dei fruitori di questa formazione. Viviamo insomma in un mondo complesso. Ma questa complessità non può costituire un alibi per eludere la questione del senso che vogliamo dare all’istituzione universitaria in generale. Come ha scritto José Ortega y Gasset, un altro che sul tema la sapeva piuttosto lunga, l’università, non può funzionare in modo adeguato se non si giunge «a determinare rigorosamente la sua missione… Ogni cambiamento, ornamento o ritocco di questa nostra casa che non prenda le mosse dall’aver previamente controllato con energica chiarezza, con sincerità e con decisione il problema della sua missione, saranno fatica sprecata».
Ma che cosa uscirebbe se provassimo a fare un tale esercizio di “sincerità” con noi stessi e con i nostri colleghi in ordine alla missione dell’istituzione nella quale abbiamo lavorato per più di quarant’anni? Nella migliore delle ipotesi, credo, un generale senso di smarrimento. Non siamo abituati a questo genere di esercizi. La certezza che, facendoli, ci troveremmo invischiati in divergenze profonde ci sembra una buona ragione per lasciarli da parte.
Il nostro “tre più due”, non fosse altro per lo spirito che ne animò la nascita – se ricordiamo bene, si trattava di rendere più professionalizzanti, più aderenti alle esigenze del mercato i vari corsi di laurea, nonché di aumentare la percentuale di laureati – sembra fatto apposta per privilegiare un’idea di università dove si moltiplicano i corsi e gli insegnamenti, ma dove è estremamente difficile coniugare insegnamento e ricerca. Si investe molto nella didattica, con risultati anche pregevoli, ma il numero spesso troppo grande di studenti, l’inadeguatezza delle strutture e dei finanziamenti, la natura di certe discipline, poniamo quelle che una volta si chiamavano umanistiche, che mal si prestano ad essere “professionalizzate”, insegnate e acquisite in moduli d’insegnamento più o meno intensivi, non sempre consentono di conseguire quella professionalizzazione che tanto ci sta a cuore. Molto laicamente dico che a questo livello le università telematiche potrebbero contribuire a una didattica più adeguata ed efficiente. Se poi aggiungiamo la complicazione di un mercato del lavoro di fatto assai poco favorevole ai laureati (si vedano i loro stipendi), ecco che diventa inevitabile, anche per questo nuovo tipo di università, la domanda circa la sua specifica natura e funzione. Alla fin fine, se decideremo di pensare soltanto alla professionalità, finiremo per danneggiare la professionalità stessa. E se di questo non si accorgeranno i programmatori dell’Università o i professori universitari, si accorgerà sicuramente il mercato. Ribaltando la battuta di Nikolaus Lobkowicz da cui sono partito, si potrebbe dire che prima o poi anche alla Siemens si accorgeranno che una profonda riflessione culturale è un ottimo investimento economico anche per gli apprendisti.
In estrema sintesi, la mia convinzione è che saranno proprio quegli studenti che avranno avuto una formazione capace di andare oltre l’ambito piuttosto angusto dei saperi professionalizzanti ad avere maggiori chance di entrare con successo nel cosiddetto mercato del lavoro. Se debbo dire fino in fondo il mio pensiero, renderei obbligatorio qualche insegnamento di filosofia in tutti i corsi di laurea. Mi piacerebbe, ad esempio, che da qualche parte si attivasse un corso di laurea nel cui titolo si dica espressamente che “non serve a nulla”, se non a conoscere bene qualcosa e magari a coltivare la passione per la verità, la bellezza, la serietà, l’onestà e tante altre virtù ancora, che sono inevitabilmente implicate in ogni autentica communitas magistrorum et scolarium, della quale ha parlato Lorenzo Ornaghi e senza la quale c’è forse qualche altra cosa, ma non l’università.
Il nostro sistema universitario, come ho già accennato, sembra privilegiare invero altre dimensioni. Ma il fatto che, almeno in linea di principio, consenta che si attivino anche corsi di questo tipo potrebbe essere la riprova che nemmeno oggi è venuto meno del tutto quello spirito di ricerca del vero che stava alla base dell’antica idea di università. Si tratta pertanto di raccogliere la sfida. I professori dovrebbero rischiare qualcosa in termini di proposte di alto profilo e gli studenti dovrebbero dimostrare di essere ben lieti di finanziarle con i soldi delle loro tasse. Il tutto con la fiduciosa speranza che il mercato saprà premiare questo genere di sforzi.
La morale di quanto sono venuto dicendo finora è piuttosto semplice e potrebbe essere sintetizzata così: nella nostra università la formazione “alta” collegata alla ricerca sta diventando una semplice opzione, qualcosa cioè che va coltivato in nicchie più o meno grandi, ma che non rappresenta più l’ispirazione di fondo dell’istituzione universitaria in quanto tale. Considerato tuttavia che nella maggior parte dei casi i cosiddetti percorsi professionalizzanti non sembrano avere sbocchi occupazionali particolarmente soddisfacenti, credo che rilanciando una formazione “alta” avremo alla peggio cervelli più allenati e flessibili e forse persino più capaci di inserirsi con successo nel mondo del lavoro. Sta quindi a chi ci crede raccogliere la sfida. E a me pare che, pur con tutte le difficoltà, ci siano anche le condizioni per farlo.