L’arte antica della diplomazia ha saputo rinnovarsi nel tempo e ha contribuito a sciogliere qualche nodo o superare contrasti minacciosi. Spesso avvolta in un velo di impenetrabilità, è stata protagonista di successi e fallimenti, alimentando speranze e delusioni. C’è chi ne ripercorre la storia con una punta di nostalgia, dalle ambascerie medievali a oggi, e chi ironizza sui suoi riti e le sue formule apparentemente desuete. Eppure, specie in questi ultimi tempi, è diffusa l’aspirazione all’impegno della diplomazia per porre fine o almeno contenere i troppi conflitti aperti nel mondo. Ne siamo toccati in particolare per le due guerre più vicine a noi, in atto da quasi tre anni in Ucraina e da oltre un anno in Medio Oriente senza che si intravedano sinora spazi concreti di soluzioni negoziate. Sicché è lecito l’interrogativo sulle effettive capacità odierne della diplomazia, dalla quale tutti vorremmo di più per evitare ulteriori violenze insensate.
Non è facile conciliare la successione tumultuosa di eventi e reazioni e la velocità delle informazioni con i tempi necessari per una composizione negoziale dei conflitti, affidata alla trattativa diplomatica anziché al ricorso alle armi. Né è agevole coniugare l’aspettativa di dati certi e trasparenti con l’esigenza, frequente, di procedere solo riservatamente sulla via del dialogo e della ricerca di un compromesso utile. Partiamo allora, con realismo, dalla constatazione che tempi e modi dell’azione diplomatica possono non corrispondere del tutto alle domande più pressanti, anche se comprensibili. E consideriamo un altro presupposto, ancora più decisivo, quello dell’individuazione di un “terreno di gioco” comune tra i contendenti. Il che consiste nel tracciare di fatto preliminarmente un perimetro, anche largo ma definito, di princìpi entro il quale confrontarsi per raggiungere un possibile punto di equilibrio per il superamento del conflitto.
E' questa la maggiore difficoltà di ogni negoziato. Se una parte ritiene lecito calpestare a suo piacimento l’integrità territoriale e la sovranità nazionale di un Paese terzo – per giunta in violazione di impegni di garanzia assunti proprio a tutela dell’aggredito - e se l’altra parte invoca come irrinunciabile il principio della immodificabilità dei confini con l’uso della forza, ecco un esempio di asimmetria di fondo su cui è complicato costruire una piattaforma solida di dialogo. O ancora, se una parte giudica del tutto legittimo includere solennemente tra i primi obiettivi della sua stessa ragion d’essere l’annientamento dell’altra parte e se quest’ultima ritiene prioritaria, al di là di tutti gli eccessi, l’esigenza di salvaguardare la propria esistenza e la sicurezza dei cittadini, i margini di confronto negoziale si restringono notevolmente. E non avviene lo stesso quando uno Stato adotta procedure di sequestro di cittadini stranieri innocenti e modalità di ricatto tipiche non di Stati internazionalmente riconosciuti bensì di organizzazioni terroristiche?
Si tratta di limiti oggettivi all’azione diplomatica, da tenere presenti, ma che non devono minimamente frenare la ricerca di ogni spiraglio idoneo ad abbassare la tensione e impostare una trattativa credibile. Occorre determinazione e tenacia per spegnere i troppi focolai di guerra, ora accesi anche là dove non li avremmo immaginati dopo decenni di pace. L’esperienza diplomatica fornisce più di un metodo, a cominciare da quello dei piccoli passi, delle graduali “misure di costruzione della fiducia” (confidence building measures), delle pause umanitarie: primi gradini sui quali tentare la salita verso i piani più alti della tregua, della pace, della riconciliazione.
Quei piccoli avanzamenti, spesso laboriosi, impegnativi, non scontati ma ineludibili, possono essere favoriti dallo strumento della deterrenza. Le parti possono essere spinte a una certa disponibilità alla trattativa, o a una minore aggressività, facendo leva sulla loro consapevolezza degli eventuali contraccolpi da mettere in conto. Requisito necessario è che i meccanismi di deterrenza, anche militari, siano credibili, devono essere finalizzati non a minacciare, ma al contrario a evitare minacce. La dottrina della deterrenza ha funzionato in passato, negli anni della guerra fredda, sarebbe un errore archiviarla oggi.
Certo, ogni appello o giusto incoraggiamento alla diplomazia non può prescindere dal contesto di un ordine internazionale condiviso. Al momento, il mondo soffre di un evidente deficit di condivisione di obiettivi e di regole. C’è stato un ordine, per quanto imperfetto, o se non altro un equilibrio, sino alla caduta del muro di Berlino. Poi è subentrata la credenza illusoria di un altro ordine, che tale non era, perché percepito come unilaterale, dettato da un unico attore (Usa) e imposto a una platea di spettatori senza voce. La diplomazia dei prossimi anni deve senz’altro avere in agenda la ricomposizione di un ordine globale condiviso, inclusivo, nell’interesse comune, con spazi assicurati alle sfide planetarie, a cominciare dal mantenimento della pace, che riguardano l’intera comunità internazionale. Il compito è enorme, occorrono le migliori energie e molta lungimiranza, anche per non sacrificare valori di fondo, un tempo già faticosamente concordati. Quei valori non possono essere archiviati come strumenti di parte, dato che appartengono, o dovrebbero appartenere, al patrimonio comune dell’umanità: le fondamenta delle Nazioni Unite e di un multilateralismo efficace nelle sue varie espressioni (per tutte, si ricordi l’Atto finale di Helsinki) vanno preservate con ogni attenzione, per disegnare un nuovo orizzonte più rassicurante per il mondo in affanno.