No justice, no peace? Sull’importanza della diplomazia e della prudenza nella politica internazionale
Lorenzo Zambernardi (Università di Bologna)
Mortificazione della diplomazia, crociate ideologiche, dogmatismo apocalittico, pace come vittoria assoluta, oppure, in modo più prosaico, rappresentazione della politica internazionale come uno scontro tra il bene e il male. Questi sono i temi principali esaminati e discussi da Paolo Soave nel suo bel contributo relativo alla crisi della diplomazia nel mondo contemporaneo. Non ha torto. Anzi. La diplomazia, considerata per secoli il pilastro delle relazioni internazionali, si trova oggi in una fase di profonda crisi. «Il declino dell’Homo Diplomaticus», scrive lo storico dell’Università di Bologna, «figura primordiale della nostra civilizzazione, è un segno di inaridimento e di regresso, la perdita di quella relazionalità che è in definitiva alla base dello sviluppo e della sopravvivenza dell’umanità».
La crisi, come lo stesso Soave sottolinea, viene da lontano. Già nelle pagine di Politica tra le nazioni, un testo pubblicato per la prima volta nel 1948, Hans J. Morgenthau identificava l’origine della crisi della diplomazia negli anni della Prima guerra mondiale, specialmente nella doppia delegittimazione che aveva subito da parte di due opposti universalismi che insieme ne denunciavano la corruzione morale: wilsonismo liberale, da un lato, e comunismo leninista dall’altro. In quelle stesse pagine, Morgenthau sottolineava l'importanza della diplomazia come strumento per la promozione della coesistenza pacifica tra stati con valori e interessi divergenti. Da questo punto di vista, la diplomazia non è solo una questione di negoziazione formale; è anche un processo continuo di dialogo e comprensione reciproca. Infatti, una diplomazia efficace deve fondarsi su una comprensione realistica delle dinamiche di potere, ma anche sulla volontà genuina di cooperare per il perseguimento di interessi comuni.
A prescindere dalla origine della crisi della diplomazia, non vi è dubbio che essa abbia ancora oggi un ruolo potenzialmente cruciale, specialmente in un contesto internazionale caratterizzato da tensioni geopolitiche, conflitti armati e una crescente sfiducia tra gli stati. In un contesto globale dove le nazioni si percepiscono come schierate in una lotta tra il bene e il male, la diplomazia viene spesso ridotta a mero strumento di propaganda piuttosto che a mezzo per risolvere conflitti. La tecnologia ha trasformato, poi, il modo in cui gli stati interagiscono, ma ha anche complicato ulteriormente la diplomazia. Le campagne di disinformazione e le ingerenze nei processi politici di altri paesi sono diventate strumenti frequenti nelle relazioni internazionali. Tali pratiche non solo minano la fiducia tra le nazioni ma anche la credibilità delle istituzioni diplomatiche.
Questo approccio a tratti manicheo non solo ostacola il dialogo ma alimenta anche i conflitti, rendendo difficile raggiungere una condizione di pace duratura. Le conseguenze di questa crisi sono dunque gravi e diffuse. L'assenza di una diplomazia efficace porta a conflitti evitabili che creano instabilità non solo nelle regioni direttamente coinvolte ma anche a livello regionale e globale. Le tensioni tra Russia e NATO evidenziano poi il rischio palpabile di escalation militare in assenza di impegni diplomatici seri. La situazione attuale suggerisce che, senza un impegno profondo e prolungato per la soluzione negoziale delle tensioni crescenti, il mondo potrebbe trovarsi sull'orlo di conflitti su scala maggiore. E si potrebbe aggiungere, inoltre, che la mancanza di cooperazione internazionale ha reso difficile affrontare anche sfide globali che vanno al di là dei conflitti armati, come il cambiamento climatico.
La crisi della diplomazia moderna richiede quindi una riflessione sulle strategie attuali e un rinnovato impegno verso forme di interazione più collaborative e costruttive. In particolare, la diplomazia deve tornare a essere vista come uno strumento essenziale per promuovere la pace e la stabilità nel mondo, riconoscendo al contempo il potere come elemento centrale delle relazioni internazionali. Solo così si potranno superare le divisioni ideologiche e lavorare insieme verso un obiettivo comune: un mondo più stabile e pacifico.
All’efficace analisi di Soave si potrebbe solo aggiungere qualche parola relativa alla virtù politica per eccellenza, ovvero la prudenza, che, con la diplomazia, sembra oggi mancare. Nello scenario complesso e di grave crisi in cui viviamo, la prudenza – considerata a ragione l’auriga virtutum (cocchiere delle virtù) perché deve informare tutte le altre virtù – dovrebbe essere considerata un principio fondamentale di politica estera. Un approccio prudente implica considerare attentamente le conseguenze delle azioni future e riconoscere i limiti intrinseci nel tentativo di controllare gli esiti della politica internazionale. La prudenza non significa, infatti, evitare l'azione; implica piuttosto una risposta cauta ai cambiamenti internazionali, evitando quelle azioni poche soppesate che potrebbero portare a conflitti inutili ed evitabili. Questo approccio è essenziale per salvaguardare gli interessi degli stati e promuovere la stabilità globale. Solo attraverso un approccio prudente si può sperare di costruire un futuro più sicuro per tutti gli stati coinvolti.
Essere prudenti, tuttavia, non richiede solo prendere in considerazione le probabili conseguenze delle azioni future, ma significa anche essere consapevoli dei limiti insormontabili alla possibilità di controllare gli esiti della politica estera: il fine ultimo della prudenza non è cancellare l'incertezza, ma piuttosto diminuire i pericoli di ciò che rimane imprevedibile. Alla luce della natura intrinsecamente incerta della realtà sociale, uno stile di pensiero e di azione prudente è l'unica risposta alla complessità, alla contingenza e all'apertura della politica. E va, infine, ricordato che il problema della limitazione del potere implica il contenimento degli altri ma anche di se stessi.
«Il diritto» forse «è più importante della pace», come aveva detto il presidente Wilson. E si potrebbe continuare citando il motto, oggi in grande voga e più al passo coi tempi, no justice, no peace. Ma è altrettanto giusto ricordare, come aveva fatto molti anni fa Martin Wight, che senza pace non ci può essere giustizia.