L’urgenza della transizione ecologica
di Monica Frassoni (Presidente dell’Alleanza Europea per il risparmio energetico, Euase)
L’articolo di Corrado Clini offre una occasione interessante di ridefinire e aggiornare i motivi per i quali è oggi più necessario che mai realizzare gli obiettivi delle transizioni ecologica e digitale definiti dalla UE nel 2020, per realizzare legittime ambizioni di sviluppo economico, industriale e sociale; obiettivi che nonostante i tentativi di delegittimarli, sono ancora raggiungibili, pur se in condizioni politiche e geopolitiche molto diverse rispetto a cinque anni fa e nel pieno di una crisi climatica, che Clini spiega ottimamente. Proprio perché credo anche io che siamo drammaticamente indietro rispetto alle ambizioni di 35 anni di politiche climatiche, sono convinta che ciò che deve guidare la nostra azione sia l’urgenza di ottenere dei risultati subito, tanto per ciò che concerne l’adattamento, che Clini giustamente indica come una priorità assoluta, che per la mitigazione.
Perciò, il punto sul quale sono meno in sintonia con il saggio di Clini si riferisce alle soluzioni che propone per riportare il Green deal alla sua doppia ambizione di rispondere ai cambiamenti climatici e favorire la sostenibilità competitiva delle nostre economie. Non condivido, inoltre, l’idea che le regole europee relative al Green Deal siano un ostacolo per la competitività del nostro sistema industriale. Al contrario, io credo che sia sulla sostenibilità che si misura oggi la competitività di un’economia avanzata; e infatti le imprese che hanno investito in tecnologie verdi sono quelle che se la cavano meglio anche sui mercati internazionali, comprese quelle che fanno componentistica per le automobili come dimostra un recente studio dell’Osservatorio sulle trasformazioni dell’ecosistema dell’automotive; le esitazioni e la mancanza di coerenza nella realizzazione degli obiettivi del Green Deal – di cui fa parte anche l’introduzione contro logica e scienza di gas e nucleare nella tassonomia – gli ostacoli posti dagli stati membri all’azione unitaria della UE, ma anche dalle lobby industriali non interessate al cambiamento, sono alla base della lentezza nello sviluppo di soluzioni “made in Europe”: come peraltro sottolineano sia Enrico Letta che Mario Draghi nei loro rapporti.
Non credo, inoltre, possibile oggi argomentare che favorire la produzione europea di gas naturale e di nucleare siano opzioni utili a garantire rapidamente decarbonizzazione, riduzione della dipendenza, maggiore competitività del nostro settore produttivo, progresso sociale. Direi invece sia vero il contrario, dato che il nucleare non è economicamente sostenibile, come ben dimostra il caso francese, e il gas rappresenta oggi la maggiore fonte di emissioni in Europa; peraltro le riserve italiane di gas sono limitate e costose da estrarre: invece, la combinazione fra rinnovabili, accumuli, flessibilità, reti e riduzione del fabbisogno energetico appare la strada più efficace e meno costosa per de-carbonizzare, assicurare prezzi dell’energia più abbordabili, maggiore autonomia e sicurezza energetica. In un rapporto appena pubblicato sul blog della Banca centrale europea si attribuisce il costo eccessivo dell’energia, che rappresenta un rischio reale per l’occupazione e le imprese, anche all’insufficiente investimento in rinnovabili e l’eccessiva dipendenza dai combustibili fossili importati in una situazione di instabilità geopolitica.
Inoltre, il riferimento alla “neutralità tecnologica” mi sembra poco convincente. Se l’intenzione di questa definizione è mettere tutte le tecnologie considerate “utili” alla decarbonizzazione sullo stesso piano, sia quelle che esistono (come efficienza energetica e rinnovabili) che quelle che sono ancora lontanissime o costosissime (nucleare “pulito” o CCS ad esempio) “lasciando scegliere il mercato”, senza prendere in considerazione i costi e i tempi di realizzazione, è evidente che non si può parlare di una reale “neutralità”, anche perché il “mercato” non è quasi mai “libero” di scegliere: si rischia invece di prendere strade sbagliate, sprecando risorse private ma soprattutto pubbliche a favore di interessi economici specifici, con un effetto molto ridotto sia sulle emissioni che sulla nostra competitività. In altre parole, sono totalmente d’accordo sulla proposta di concentrare e orientare gli investimenti europei e nazionali su soluzioni avanzate per la decarbonizzazione, ma non credo che sia utile puntare esclusivamente su soluzioni “nuove” e quindi lontane. Non abbiamo tempo.
Nei prossimi anni dobbiamo concentrare risorse e ricerca nelle soluzioni più efficaci e quindi anche nel miglioramento di tecnologie che già esistono e che possono essere dispiegate rapidamente perché, se vogliamo ascoltare ciò che da anni ripete la scienza, abbiamo pochi anni per invertire la corsa delle emissioni. Ricerca e innovazione devono puntare a rendere più accessibili soluzioni di efficientamento energetico per industrie ed edifici, ma anche data centers e mobilità; devono accelerare su accumuli e batterie sempre più “risparmiose” in materiali critici per rispondere all’intermittenza delle rinnovabili e su reti intelligenti; devono favorire una elettrificazione spinta per facilitare la penetrazione delle rinnovabili e liberarci dal gas, ecc. E grande attenzione deve essere data non solo alle tecnologie, ma anche alla loro messa in rete su scala adeguata e alla formazione e sensibilizzazione di cittadini/e e lavoratori/trici.
Non mi è nemmeno molto chiaro in che senso riaprire le leggi relative al Green Deal adottate a livello europeo, dopo mesi di dibattito democratico e negoziati fra le istituzioni europee e oggi in via di applicazione, con notevoli investimenti da parte di imprese, autorità locali e cittadini/e, possa in alcun modo aiutare crescita o competitività; soprattutto se l’obiettivo di tale rimessa in questione è renderle meno ambiziose, ritardando la roadmap verso il 2050, nell’illusione che rallentando il passo, rimanendo dipendenti da tecnologie vecchie e continuando a pompare sussidi pubblici per mantenere lo status quo, si possa dare una prospettiva di futuro a imprese e lavoratori/trici. Peraltro, l’esempio della proposta di semplificazione della Commissione delle direttive sul reporting di sostenibilità in discussione attualmente, dimostra che riaprire normative adottate inserisce un elemento di incertezza che svantaggia le imprese più virtuose e introduce un elemento di instabilità deleterio.
Ribadisco che oggi la competitività di un’economia avanzata passa per la sostenibilità, a meno di non volere continuare a competere su prezzi e salari. L’Italia è la seconda Green economy d’Europa, ma molte delle imprese che hanno intrapreso questa strada hanno pochissima visibilità e sostegno da parte dei vari livelli di governo e a volte se ne vanno, portando i loro brevetti altrove, finora anche negli USA: con l’arrivo di Trump l’Europa potrebbe tornare interessante, e non conviene cambiare strada proprio ora!
La revisione delle norme per le emissioni delle auto, ad esempio, non fermerebbe l’inevitabile evoluzione della mobilità verso l’elettrico, in quanto incomparabilmente più efficace ed ecologica rispetto al motore endotermico; la speranza di salvarlo con i biocarburanti appare piuttosto velleitaria, prima di tutto perché comunque i biocarburanti emettono e poi perché ci sarebbe bisogno di fare una scelta tra agricoltura e combustibili, come già emerse nel 2007 quando si inserì nella direttiva sulle rinnovabili un target obbligatorio di biocarburanti. Questo rinvio avrebbe invece l’effetto di premiare chi ha preferito distribuire ingenti dividendi agli azionisti, invece che investire in innovazione e in ricerca, o ha preferito puntare su auto di alta gamma per aumentare i guadagni, lasciando il campo libero sulle auto più economiche ai cinesi; i quali hanno strategicamente scelto 15 anni fa di puntare sull’elettrico e non hanno pensato di tornare indietro: e non solo perché avevano capito che non avrebbero mai potuto competere con le auto convenzionali prodotte in Europa e negli USA, ma anche per frenare l’inquinamento e promuovere una mobilità che integra meglio elementi digitali e tecnologie più adatte al XXI secolo.
La questione della perdita dei posti di lavoro, poi, non è un destino irrimediabile. Ma dipende dalla volontà di muoversi per tempo con sussidi, formazione, riconversioni ecc., che purtroppo spesso manca. Da questo punto di vista, la decisione di Leonardo e del governo di privatizzare e (s)vendere l’ex Industria Italiana Autobus, nella quale sono recentemente entrati i cinesi, è una dimostrazione di come l’attenzione del governo e media sia a senso unico (auto) e non abbia alcuna reale visione industriale adatta ai tempi e alle opportunità: questo sarebbe potuto essere un asset strategico importante, in un momento nel quale c’è una grande richiesta di mobilità “dolce” tutte le città stanno ordinando autobus elettrici anche grazie al PNRR.
Quanto alla direttiva sulla performance energetica degli edifici (EPBD o “case verdi”), si tratta di una normativa che pur svuotata di una parte rilevante delle sue ambizioni di partenza, persegue un obiettivo estremamente importante, dato che circa il 40% del consumo energetico e delle emissioni deriva dagli edifici; anche qui non è chiaro quale sarebbe il vantaggio di rimetterla in questione; soprattutto considerando che l’Italia ha speso più di 80 miliardi di euro per sostenere le bollette “una tantum” durante la crisi provocata dalla guerra in Ucraina (2022-23) e che ha stanziato di recente altri tre miliardi per un aiuto precario di tre mesi: lasciando immutata la dipendenza di una parte importante degli edifici pubblici e privati dal gas e i suoi prezzi volatili. La Fillea/CGIL ha calcolato che solo il passaggio da classe F a D consentirebbe un risparmio medio annuo di 1200 € e secondo l’ANCE un miliardo di euro di investimenti in edilizia genera un effetto diretto ed indiretto valutabile in termini di oltre 15.000 nuovi posti di lavoro. Senza contare che nella direttiva stessa sono previste le vie attraverso le quali è possibile per gli stati membri finanziare le ristrutturazioni e di recente, nella proposta di riallocazione dei fondi regionali, la Commissione ha messo la casa come grande priorità.
Poco comprensibili sono anche le ragioni di una eventuale rimessa in causa delle normative sui prodotti fitosanitari o il regolamento sul ripristino della natura. Queste normative hanno lo scopo di ridurre gli effetti negativi sull’ambiente e sulla salute dei cittadini, che non sono gratis. Non si può continuare a mettere in contrapposizione le ragioni della salute e della natura con quelli dell’industria. Alla fine perderemmo tutti e tutte. In conclusione, a me pare che tutto spinga a fare di più e meglio in materia di transizione ecologica. Concentrandosi sulle opportunità che esistono oggi molto di più che 35 anni fa, e non dimenticando che se si fosse preso sul serio ciò che già era chiaro allora avremmo oggi molti meno problemi e ansie rispetto a un futuro davvero incerto.