Lineamenti dell'Università del futuro
di Lorenzo Ornaghi (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano)
Numerosi e assai utili sono stati gli interventi che hanno ripreso, sviluppato, ampliato o criticato, le considerazioni da me poste sotto il titolo La mutazione dell'Università e diffuse online da Lisander il 16 settembre. Osservati con uno sguardo d'insieme, essi mi sembrano offrire la conferma del fatto che una tale mutazione è ormai un dato così evidente da apparire incontrovertibile (anzi, per chi insegna e attende alla ricerca scientifica negli atenei, quasi ovvio da riconoscere o subire e con cui fare i conti nell'esperienza di ogni giorno). Al tempo stesso, l'impressionante quantità – richiamata e analizzata dagli interventi – dei grandi o meno grandi cambiamenti in cui sempre più si manifesta la mutazione dell'“antica” Università fornisce materiali ulteriori di prova anche alla tesi che non siano ancora definiti con chiarezza e sufficiente univocità (se un simile sforzo ha senso e non è diventato ormai vano) il punto o i punti fondamentali a cui mettere mano, per disegnare e poi impegnarsi a realizzare un'“idea”, magari non del tutto originale e nuova ma almeno parente stretta e altrettanto longeva, del vecchio “ideal-tipo”, di Università.
Credo che siano proprio le difficoltà di individuare tali punti di maggiore “crisi” (aggravate da una sorta di renitenza culturale, diffusa nell'opinione pubblica e anche in non pochi degli “addetti ai lavori”, rispetto alla necessità e urgenza di cercarli) a giustificare il perché l'attenzione e la preoccupazione sollecitate da questo o quel cambiamento finiscano con il lasciare nella penombra i fattori determinanti dell'ormai irreversibile fuoriuscita dall'“ideal-tipo” di Università, edificata e resa impareggiabile nel suo ruolo culturale e sociale dall'Europa della modernità. L'attenzione e la preoccupazione, frazionate e concentrate su aspetti “particolari”, rischiano anche di confondere o rendere ancora più aleatorie le residue e non troppo abbondanti possibilità reali di “riformare” in meglio (per dire stringatamente e convenzionalmente così) ciò che ancora non si è trasformato in irriformabile. Personalmente, pur sapendo di essere stretto tra le morse di un innamoramento per l'Università, ora velato dalla nostalgia o da qualche rimpianto, e l'ostinata convinzione che la fiammella di una non troppo ingannevole speranza debba talvolta essere tenuta accesa a ogni costo, cerco di resistere alla forte tentazione di unirmi al sincero e accorato De profundis, intonato perlopiù da professori ora fuori ruolo. E mi sento pertanto solidale con chi – impegnato attivamente sui fronti della docenza e della ricerca scientifica negli odierni atenei – non si piega, rassegnato, all'accidia. Cioè a quel male sottile e assai aggressivo, da cui anche l'Università italiana è colpita giacché ne soffre, senza alcuna parvenza di consapevolezza, l'intero Paese.
La questione se lo studente universitario resti esclusivamente o prevalentemente tale, o se invece occorra conformarsi o simulare di conformarsi alle dominanti rappresentazioni sociali della sua figura quale “utente-cliente”, è un dilemma che ritengo decisivo. Sollevata con il giusto vigore soprattutto da uno degli interventi, la questione aiuta infatti a tracciare i collegamenti e a scoprire le interdipendenze fra le trasformazioni in atto o già avvenute, non lasciandoci alla mercè della pletora degli eterogenei effetti rovesciati a cascata sulle università italiane dalle decisioni legislative e dai provvedimenti ministeriali di questi ultimi decenni (siano essi effetti sfuggiti a ogni intenzione o, peggio, voluti e caparbiamente perseguiti). Aggiungo come nota a margine: è proprio la rilevanza di un tale dilemma ad accrescere le mie perplessità sull'avanzata delle università telematiche e sul (preteso) “libero mercato” in cui queste ultime e gli atenei tradizionali si troverebbero in naturale e legittima concorrenza. Non credo affatto che le università telematiche siano un “nemico” da combattere. Fatico però a considerarle, quando cerco di valutare serenamente i servizi che stanno sin qui fornendo in Italia, come il “nuovo” destinato a soppiantare finalmente, solo che non venga ostacolato da pregiudizi atavici, il peggio del vecchio. Mi lascia perplesso e un po' diffidente la loro possibile e probabile conversione al credo e alle più usuali pratiche di una società per azioni. Ma già avverto qualche disagio, per tornare alla questione dello studente “cliente”, dinnanzi alle martellanti e costose campagne pubblicitarie, dispiegate da più di un ateneo telematico nelle ore di punta dei principali canali televisivi, soprattutto se le paragono alla (non granché utile, temo) pagina di promozione di sé stessi e della propria serie interminabile di corsi di laurea, da parte degli atenei tradizionali.
Il progressivo svuotamento della figura dello studente, a tutto vantaggio della volubile rappresentazione (e della più consistente “auto-coscienza”) di “utente-cliente”, è tuttavia di cruciale importanza per ragioni assai più solide e profonde di quelle legate alla competizione fra atenei e al conseguente numero di iscritti. Un tale svuotamento, difatti, risulta simultaneamente causa e inevitabile corollario di quel mutamento di funzioni dell'Università, sul quale ho cercato di richiamare l'attenzione con l'interrogativo, per nulla retorico, che qui ripeto: l'Università, al di là degli intendimenti proclamati da sé stessa e delle nobili finalità che più o meno strumentalmente e magari ipocritamente le vengono addossate dalla politica e dalla società, è ancora capace di preparare le classi direttive dell'Italia? Proprio qui, a mio parere, sta uno degli aspetti più inquietanti della condizione in cui stanno precipitando le cosiddette humanities. E lo formulo con un secondo interrogativo (dei cui termini talmente elementari da apparire rozzi chiedo venia): siamo sicuri che una classe direttiva, quale essa sia, possa fare a meno delle conoscenze e del metodo di conoscenza degli esseri umani, della realtà e della storia, che le scienze umane hanno progressivamente elaborato e raffinato nel corso dei secoli?
Una postilla, infine. Che al tempo stesso, e chissà quanto in maniera contraddittoria, riunisce una di quelle fiammelle di confidente speranza, a cui si alludeva poco fa, e un motivo ulteriore di preoccupazione. L'appassionato interesse alle trasformazioni dell'Università e il forte desiderio di poter costruire un “modello” di studi e ricerca diverso e migliore dell'attuale – pienamente testimoniati, l'uno e l'altro, dai numerosi commenti alla mia iniziale riflessione – dimostrano che lo “spirito” di appartenenza accademica, pur magari affievolito, è tutt'altro che spento. Se, d'altro canto, ci si domanda se e come procedere concretamente e speditamente lungo la strada che possa condurre a un tale “modello”, ogni possibile risposta risulta però monca e insoddisfacente. Nella sequela dei cambiamenti avvenuti nell'Università, vi è anche quello della caduta di potere (e, non di rado, persino di influenza) dei suoi burocratizzati organi di governo e di rappresentanza. Con la conseguenza che l'Università continua sì a considerare sé stessa una parte (o un “corpo”) rilevante e indipendente della società, ma, anziché orientare e magari guidare culturalmente quest'ultima nella sua vita feriale e negli inevitabili cambiamenti delle stagioni storiche, agevolmente si adegua e talvolta si piega alle attese, opinioni e convinzioni diffuse, talvolta alle fluttuanti esigenze dei più o di coloro che, in questo o in quel campo sociale, rivendicano a ragione o invece con ragioni ormai infondate un sovrappiù di rappresentatività. E in tale modo, purtroppo, il “servizio” che l'Università intende prestare alla società finisce con il distinguersi poco e male da quello a cui la politica, cercando un sempre meno raggiungibile “compiacimento” da parte di quote larghe di cittadini-elettori, ci ha assuefatti ormai da parecchi decenni.