Europa sì, ma quale?, si chiede Robi Ronza riflettendo sull’integrazione europea. Sono riflessioni di un europeo deluso, che lamenta il mancato riconoscimento delle comuni radici storiche, il tradimento dell’ideale dell’Europa dei popoli, sacrificato per la più prosaica Europa dei trattati. È la vexata quaestio del “deficit democratico” delle istituzioni europee, che oggi troverebbe orwelliana espressione nella centralità della Commissione, che con il suo apparato di circa 25.000 funzionari, 30 direzioni generali e 6 agenzie esecutive, come ricorda Ronza, sarebbe percepita come sovrastruttura tecnocratica, dalle tentacolari estensioni burocratiche.
Proviamo ad andare oltre le percezioni dei tempi con l’analisi storica. L’integrazione europea si è compiuta nel nome dei popoli, nel riconoscimento degli ideali più alti e condivisibili, pace, democrazia e sviluppo, ma non attraverso i popoli: nondimeno ha carattere democratico. Tutti i grandi processi istituzionali internazionali, tutte le grandi organizzazioni, a partire dall’Onu, scaturiscono da un processo multilaterale, politico e diplomatico, per iniziativa condivisa di governi e avallo parlamentare. Tutto per i popoli, nulla direttamente attraverso i popoli, lo sapevano bene anche i padri fondatori: l’Europa unita, federata o almeno confederata, non poteva certo legittimarsi con un processo di Nation Building, piuttosto di Institution Building, dall’alto, secondo le note vie del diritto internazionale. Il metodo funzionalista, a partire dal piano Schuman, ha aggirato le difficoltà politiche e sviluppato la cooperazione sul terreno concreto delle comuni conquiste economiche. Considerando le catastrofiche condizioni di partenza del 1945, il risultato complessivo è notevole, testimoniato dall’attuale livello di benessere e stabilità sociale diffusi all’interno dell’Ue, rispetto a tutte le altre aree del mondo. I popoli, seppur non protagonisti, ne hanno grandemente beneficiato. Peraltro non è mancato chi da subito, fra i padri fondatori, cercò di correggere certe carenze oggi evidenti: agli inizi degli anni Cinquanta De Gasperi suggerì con l’art. 38 del trattato della CED lo sviluppo di una Comunità politica europea; Churchill ritenne che non si potesse eludere il riarmo tedesco, necessario per la difesa comune europea.
La politica, si sa, è l’arte del possibile, e quello dell’integrazione europea è stato un percorso a ostacoli, fra persistenti diffidenze nazionali, debolezze strutturali postbelliche, crisi energetiche e l’ambivalente influenza della Guerra fredda, che da un lato tenne in ostaggio l’Europa, dividendola, per quasi mezzo secolo, dall’alto sollecitò i leader politici continentali più ispirati a immaginare un futuro comune oltre il muro di Berlino. Adenauer disse che l’Europa integrata sarebbe stata la vendetta nei confronti degli americani che avevano finito per accettare la divisione del continente, ma ci volle Brandt perché i fili spezzati del dialogo fra tedeschi venissero riannodati. Nei primi anni Settanta la distensione all’europea corse più veloce di quella, conservativa, delle due superpotenze. I popoli europei tornarono protagonisti con la fine della Guerra fredda, quando forzarono tempi e modi della riunificazione tedesca. Fu la poderosa legittimazione di quella nuova fase dell’integrazione europea, vero e proprio salto di qualità, oggi sotto gli occhi di tutti.
Ronza rileva che in quel cruciale frangente storico l’Europa difettò di una “intelligenza orientale”, una capacità di interpretare le realtà storiche scongelate con la fine dell’influenza sovietica. In realtà, a Maastricht l’Ue nacque con una funzione strategica della massima rilevanza, paragonabile a quella del primo ciclo di integrazione avviato dopo la Seconda guerra mondiale. Anche in quel caso la costruzione europea avrebbe dovuto garantire stabilità, sviluppo e finalmente la più estesa inclusione continentale. Fondata sulla forza economica, l’Ue è divenuta un contenitore dai confini particolarmente elastici, chiamata a omogeneizzare le condizioni politico-economiche all’interno di un enorme spazio geopolitico, con un limes orientale imprecisato e critico. Realizzato in pochi anni, fra il 1995 e il 2013, il passaggio da dodici a ventisette membri ha risposto a precise aspettative popolari emerse alla fine della Guerra fredda: la domanda di sicurezza e sviluppo delle ex democrazie popolari, l’ansia di equilibrio di chi, in Occidente, aveva dovuto fare buon viso a prospettive neo-bismarckiane a seguito della riunificazione tedesca. Potentemente legittimata dalla Storia, la superpotenza civile europea ha dovuto fare i conti con geometrie politiche, economiche e culturali variabili, non solo per l’evidente eterogeneità fra membri vecchi e nuovi, ma anche per quel tumultuoso cambiamento impresso dalla globalizzazione. L’Ue, attore internazionale post-statuale e perfino post-westfaliano, ha seguito la scia di un percorso ancor più importante, anch’esso volto a consolidare i nuovi equilibri occidentali, l’allargamento della Nato. I vincitori della Guerra fredda hanno dato una risposta semplice e univoca, ancor oggi efficace, dato che più si procede verso Est più si trovano ferventi sostenitori di quell’alleanza che, come disse il suo primo segretario Lord Ismay, era stata concepita per tenere gli americani dentro, i sovietici fuori e i tedeschi sotto.
Forse la portata di questo duplice processo di consolidamento occidentale sotto la ribadita guida americana non è stato compreso in tutta la sua valenza epocale, in particolare per le sue ripercussioni sull’Ue. La seconda fase costituente europea ha inevitabilmente accentuato il carattere intergovernativo e tecnocratico, perché solo la sovrastruttura dell’Ue può indirizzare e implementare i macroprocessi globali, le grandi transizioni rispetto alle quali non esistono più popoli, ma solo individui dotati di quella cittadinanza impressa sui passaporti ma poco partecipata. L’Ue non può che essere post-identitaria, perché questo impone la sua funzione di contenitore di entità diverse da polverizzare e riplasmare individualmente, secondo le nuove estreme culture liberali. Oggi le distanze culturali fra le due sponde atlantiche appaiono ridotte. A ben vedere, il dato storico più importante dal 1945 è la definitiva, strutturale trasformazione degli Stati Uniti in una “potenza europea” profondamente coinvolta nei processi politici, economici, strategici e perfino culturali dell’Ue, con una capacità di orientamento ben superiore a quella di qualsiasi paese europeo. Senza il potere di iniziativa strategica di Washington l’Ue si troverebbe sottoposta a una pressione tale da rischiare l’implosione.
Così concepita e strutturata, l’Ue assolve al compito assegnatole dalla Storia dopo il 1989. Resta il problema sollevato da Ronza: noi europei, storicamente e ragionevolmente europeisti, dobbiamo accontentarci? C’è chi continua ad aspettare Godot, ovvero la svolta federalista, chi più sommessamente auspicherebbe un’Europa meno sovrastrutturale, più a misura d’uomo. Intanto si fanno gli europei con le “generazioni Erasmus”, le più consapevoli della cittadinanza e le più indifferenti al tema della rappresentanza identitaria, in luogo della quale avanza l’inclusività ad personam, secondo quel fenomeno definito da Sergio Belardinelli «emotivismo identitario». Mentre promuove il nuovo Homo Europaeus, l’Ue è chiamata a resistere ai marosi del nuovo disordine internazionale, al quale intenderebbe opporre la Global Governance legittimata anche dalle Nazioni Unite. Lo fa con un volano ancora intergovernativo, una sorta di clearing house di pesi e interessi nazionali diversi, che neppure le sfide globali, per il momento, riescono ad amalgamare. La Storia produce affascinanti paradossi, di cui solo la longue durée può sciogliere la complessità: l’Ue non è esaustiva della Francia, da sempre motore politico dell’integrazione che non rinuncia alla propria individualità, mentre i membri a Stato debole trovano nella piena identificazione con le istituzioni europee la loro ultima legittimazione.
Le recenti sfide sono state particolarmente probanti per l’Ue. Sia nel fronteggiare la pandemia che nell’emergenza strategica posta dal conflitto al limes orientale, l’Ue ha espresso una prodigiosa capacità mobilitante. Al netto del dibattito sulle scelte, la sovrastruttura ha retto. Ma cosa pensano gli europei? L’Eurobarometro ci dice che attualmente il 57% approva il sostegno offerto all’Ucraina; la richiesta di un sistema d’asilo comunitario sfiora il 70% ma il 75% ritiene necessario un più saldo presidio dei confini esterni. Otto europei su dieci sostengono la scelta di investire nelle energie rinnovabili e ridurre drasticamente la dipendenza dal gas russo. Soprattutto, sette su dieci continuano a considerare l’Ue un’area sicura in cui vivere, rispetto alle crescenti tensioni internazionali. Dunque c’è consenso, e riguarda proprio le declinazioni della cittadinanza. Resta sospesa la questione più importante: questa Ue, funzionalista, sovrastrutturale e post-identitaria, è attrezzata per le crescenti sfide del nuovo multipolarismo conflittuale? È di questi giorni il riaffacciarsi del dibattito sull’atomica europea, ipotesi che stride con il percorso sin qui seguito e tradisce l’ansia per le incertezze sui futuri scenari politici americani. Resteremo nudi di fronte a Putin? Dalla Nato non si è fatta attendere la risposta: un’atomica europea non servirebbe. Il voto europeo di giugno potrà forse esprimere anche tali timori, oltre al giudizio sulle grandi scelte degli ultimi tempi, ma di certo occorrerà andare oltre quel 50% di partecipazione registrato nel 2019, segno di una cittadinanza fredda.