Le ragioni di una stasi. Perché l’integrazione europea è ferma
di Angelo Panebianco (Università di Bologna)
Circolano due diverse spiegazioni della situazione di impasse in cui si trova l’Europa. Per la prima, ciò è semplicemente il frutto della combinazione di elevata interdipendenza e di assenza di leadership. L’interdipendenza è tale che ben poco di quanto fanno i governi dei Paesi membri dell’Unione è esente da vincoli europei. Contemporaneamente, venuto meno quel motore franco-tedesco da cui in passato dipendeva l’integrazione europea, non c’è più una guida unificata. Non c’è più nessuno che sappia indicare mete e imporle agli altri membri dell’Unione. Chi fa leva su questa spiegazione propone, tipicamente, terapie del tipo “cooperazione rinforzata”. Non è possibile governare un’Europa a 27? Chi non vuole maggiore integrazione dispone di un potere di veto? Non resta che aggirare l’ostacolo: un accordo fra “chi ci sta” a fare un ulteriore cammino sulla strada dell’integrazione lasciando in una sorta di “cerchio esterno” chi non è disponibile. Il punto è che fino ad oggi si è potuto constatare che “non ci sta nessuno”. Forse perché la spiegazione (alta interdipendenza, assenza di leadership) non è una spiegazione: è solo una constatazione. Tocca la superficie, non va in profondità.
Per spiegare l’impasse occorre mettere in gioco la storia, e il peso della storia. Si possono fare quattro osservazioni. La prima riguarda il fatto che in Europa (a differenza della Cina) la divisione, la frammentazione politica ne ha scandito la storia fin dalla caduta dell’impero romano d’Occidente. Quella dell’Europa è una lunghissima storia di guerre fratricide. Sia pure sotto un comune ombrello culturale (il cristianesimo, l’eredità romana) è stata la divisione - ivi compresa quella generata dai conflitti religiosi -, non l’unità, che ne ha modellato l’identità. La seconda considerazione è che l’Europa è la patria degli Stati nazionali. Lo Stato nazionale ha una particolare capacità di resistere ai tentativi di superarlo o di trasformarlo. È il deposito di tradizioni differenti e contrapposte, forgiatesi in secoli di competizione fra Stati. Ne deriva il fatto che se gli Stati nazionali europei sono troppo deboli per fronteggiare le nuove condizioni della competizione internazionale, sono però anche sufficientemente forti per impedire la formazione di una entità politica più vasta e che li inglobi.
La terza ragione è che la democrazia si è formata all’interno degli Stati nazionali. In un periodo, dall’Ottocento in poi, in cui diffusione del principio nazionale e democratizzazione andavano a braccetto. La democrazia, al pari dello stato nazionale, è un vincolo. Le élites politiche continuano a guadagnare o a perdere il potere entro le arene elettorali nazionali e, per gli elettori europei, la principale posta politica riguarda ancora la scelta di chi deve dirigere il governo del proprio Paese.
La quarta considerazione riguarda la “ragione sociale” della Comunità europea prima e dell’Unione poi. A quale scopo venne creata? Il processo di integrazione europeo prese il via durante la Guerra fredda, un’epoca in cui gli europei potevano ormai svolgere solo un ruolo subalterno nel conflitto fra i blocchi. L’integrazione, in tali condizioni, serviva per assicurare sviluppo economico e sociale ai Paesi europei. Si trattava di consentire all’Europa (allora, solo occidentale) di resistere alle sirene del comunismo e alla sfida dell’Unione Sovietica. Ne derivò una chiara e codificata divisione del lavoro: agli Stati Uniti e alla Nato la protezione militare dell’Europa, agli europei la libertà di concentrarsi su sviluppo e welfare. Chi si sorprende per il fatto che sia così difficile dare vita a una qualche forma di “difesa europea” sembra non conoscere quale sia stata la storia dell’Europa dopo il 1945. Non sorprende affatto che l’Europa sia stata capace, di fronte all’emergenza pandemica, di mettere in comune risorse per fronteggiarla e che, invece, non sia capace (non sia ancora capace) di reagire a una condizione di crescente insicurezza (declino relativo della potenza americana, imperialismo russo, accresciuti rischi connessi all’instabilità di Medio Oriente e Africa). Nel primo caso, si trattava di misure eccezionali che, tuttavia, non erano incoerenti con il core business dell’Unione (garantire il benessere degli europei). Nel secondo caso, si tratterebbe di prendere decisioni ad altissimo tasso di politicità, decisioni che modificherebbero gli equilibri di potere su cui si regge l’Unione.
L’Europa combina tratti confederali (i governi hanno l’ultima parola) con alcuni tratti di federalismo (la moneta unica è la principale istituzione “federale”) ed è come una bicicletta. La staticità non le si addice. Se resta troppo a lungo ferma, prima o poi si rovescia. Fuor di metafora, rischia la disgregazione.
Il processo di integrazione europea, per un lungo tratto, è stato alimentato dalla convinzione (o dalla speranza) che l’integrazione economica avrebbe prima o poi favorito lo spillover, il salto di qualità verso l’integrazione politica. Ma era un’illusione. Forse le crescenti minacce alla sicurezza dell’Europa potranno fare ciò che non era lecito pretendere dall’integrazione economica. Ma non bisogna illudersi. Non ci può essere alcun automatismo. Non nascerà mai alcun “popolo europeo”, non ci sarà mai uno spostamento massiccio di identificazione degli europei dagli Stati nazionali a una entità sovranazionale, senza un atto di volontà, senza una leadership che abbia la capacità e la volontà di cambiare le regole del gioco vigenti nell’Unione. Al momento, nessuno è in grado di prevedere se le tendenze centrifughe prenderanno il sopravvento causandone la disgregazione o se l’aggravamento della situazione internazionale genererà nell’opinione pubblica europea una diffusa domanda di protezione. Solo in questo secondo caso, solo se quella diffusa domanda di protezione si manifestasse, le élites dei principali Paesi europei potrebbero essere indotte a stringere fra loro un nuovo patto politico. Generando quella leadership di cui, al momento, l’Europa è sprovvista.