Nel suo importante articolo, Lorenzo Ornaghi lancia un allarme. Condivido le ragioni della sua preoccupazione, ma credo che si debba evitare l'ottimismo. La situazione, forse, è anche più seria. Per spiegare bene quello che penso, devo iniziare da alcuni fatti che non riguardano solo l'università italiana, ma considerano la trasformazione dell'istituzione universitaria nei paesi occidentali. Certo, ci sono importanti differenze tra l’università italiana e quelle, per esempio, negli Stati Uniti o nel Regno Unito: ma ci sono forze in atto che operano in tutte queste situazioni, e che spingono in una direzione comune, all’estero forse prima che da noi. Mutato nomine, de te fabula narratur.
Un primo fattore che determina la trasformazione della natura dell'università nel secondo dopoguerra è la grande espansione che è avvenuta a partire dagli anni Sessanta. Questa espansione è stata al centro di innumerevoli studi. Un aspetto a cui non è stata dedicata la dovuta attenzione è il vincolo che a questa espansione poneva la disponibilità nella popolazione di ogni paese delle persone di qualità adeguate al compito degli studi universitari. Quest’ultimo (come suggerisce il prestigio che una volta veniva associato alla professione di professore universitario) non è accessibile a tutti e non è indipendente dalle qualità intellettuali e psicologiche di chi si avvicina a una carriera universitaria. In una buona approssimazione, alcuni semplici indicatori psicometrici ci danno un'indicazione di questa attitudine. L’intelligenza è uno di questi, e forse lo è in modo essenziale. Altri indicatori sono la determinazione e la coscienziosità che dovrebbero sostenere le aspirazioni accademiche. Ci sono naturalmente anche importanti ragioni che hanno poco a che fare con queste qualità: in un sistema di selezione poco meritocratico per definizione, fattori come le condizioni sociali ed economiche dei genitori contano. Ma quelle qualità intellettuali e caratteriali sono condizioni necessarie per gli studi universitari.
Queste qualità non sono possedute da tutti. È ben noto che esse sono distribuite nella popolazione di un paese secondo una certa curva, all’incirca a campana, con una qualche correlazione fra queste qualità. Un sistema di selezione dei talenti che sia in qualche modo efficace tenderà a selezionare e ad ammettere quelli che hanno misure più alte di queste qualità.
Negli anni Sessanta per diverse ragioni si realizzò una spinta ad aumentare il numero delle persone con una laurea universitaria. Questa spinta aveva diverse origini. Una di queste era tecnologica e si esprimeva nel mercato del lavoro con una richiesta di impiegati e lavoratori con un’educazione universitaria. Ma c’erano anche altre ragioni: in una società di maggior benessere rispetto al passato, un periodo di studi universitari poteva diventare una forma di consumo, di impiego sofisticato di tempo. Questa seconda motivazione rendeva la necessità di avere qualità intellettuali avanzate meno pressante, particolarmente per alcune discipline.
In ogni caso questa espansione si trova di fronte al limite che abbiamo menzionato: se si vuole aumentare la frazione della popolazione che accede a studi universitari il livello medio di queste qualità (per esempio l’intelligenza) tende a scendere. Questa riduzione è di recente stata documentata con studi statistici. Questa trasformazione non è affatto meccanica e dipende molto da come la politica di espansione viene messa in atto. Il Robbins Report (1963), prodotto da una commissione presieduta dall’economista Lord Lionel Robbins con il compito di delineare appunto una politica di espansione, aveva questo limite ben presente. Il Report mette al centro dell’attenzione la necessità di attingere a risorse intellettuali non utilizzate (untapped talent) nella popolazione per evitare questa caduta.
I risultati delle varie politiche sono stati almeno discutibili: per quanto abile sia la manovra, la disponibilità di persone di talento è limitata per ragioni che sono in buona parte genetiche, e, se l'espansione è massiccia, come lo fu dopo gli anni Sessanta, gli effetti si dovevano vedere. E si sono visti. E saranno anche più forti se l'espansione continuerà, e lo saranno anche di più (come è il caso di politiche europee che vogliono portare vicino al cinquanta per cento la frazione dei laureati). Per pure ragioni numeriche, non si può avere un’istituzione che seleziona i migliori talenti se questa istituzione raccoglie metà della popolazione.
Questo limite ha operato negli ultimi decenni a trasformare l’università cambiando le qualità di chi ci andava. È un fattore comune a tutti paesi avanzati economicamente. Questa trasformazione ha effetti ovvi e chiari sui due compiti che Ornaghi indica come prioritari per l'istituzione università: la ricerca scientifica e la formazione delle classi direttive di un paese.
Il problema potrebbe essere alleviato se si accettasse una formazione universitaria differenziata al suo interno, con livelli di qualità diversi, con istituzioni di élite e altre di più facile accesso, con compiti e compensi diversificati. Ma se un sistema rifugge di proposito e con fermezza da queste diversità, in quanto viste come ingiuste, allora la conseguenza è necessariamente, quasi meccanicamente, un abbassamento del livello di abilità cognitiva della popolazione. L’Italia ha ecceduto nelle concessioni all’uguaglianza più di altri paesi (basta guardare alla struttura delle retribuzioni del personale) e ha pagato più di altri.
Il tipo ideale è nell’occhio di chi guarda
Il quadro riportato qui sopra sembra solo aggiungere toni più scuri alle tinte fosche già date dal saggio di Ornaghi: ci sono - questa è la diagnosi che sembra emergere - numerosi fattori che operano nell'allontanare via via l’università dal suo “ideal-tipo”. Limitazioni di risorse economiche disponibili, miopia di chi ha guidato e guida l’istituzione e ora anche limiti dei talenti disponibili.
Vorrei ora argomentare che il quadro pecca di ottimismo, allargando lo sguardo a comprendere trasformazioni dell’istituzione universitaria e il suo ruolo di formazione della classe dirigente. Questo termine è usato qui a proposito per distinguerlo da quello di classe direttiva, usato da Ornaghi per indicare - immagino - una classe che si pone come criterio guida gli interessi dell’intera nazione.
La tesi che vorrei sostenere è che quello che può sembrare un allontanamento da un ideal-tipo può essere invece l’avvicinamento a un altro tipo, ben diverso e animato da ben altri intenti. Quello che sembra la conseguenza di una programmazione limitata e confusa può essere invece il risultato di un ben diverso programma ideale. Quello che a noi sembra un bug può essere invece una feature. È possibilissimo che questo pessimismo derivi dalla maggiore familiarità che chi scrive ha con le università americane o inglesi, dove - a me pare - questa trasformazione è ben più avanzata. Cerco di spiegarmi.
Se consideriamo in particolare indirizzi accademici che hanno una valenza ideologica precisa (per esempio le humanities, ma anche indirizzi misti come giornalismo, architettura, legge ed economia) si è assistito negli ultimi decenni, e a un ritmo accelerato negli ultimi anni, a uno spostamento delle discipline verso un sostegno esplicito di un programma politico progressista. Nelle sue punte estreme, che sono spesso maggioritarie anche se non specialmente nelle istituzioni più alte, questa attitudine politica è un manifesto. Un effetto spiacevole di questa presa di posizione è la limitazione progressiva della libertà di ricerca accademica, che è una delle condizioni perché il diritto di libera espressione abbia un significato reale. Un esempio che mi è purtroppo ben noto è una recente proposta che nella mia università, la University of Minnesota, intende trasformare le condizioni richieste per l’assunzione e la promozione dei membri della facoltà. Il cuore della proposta è l’affermazione che il panorama della società e dell’educazione universitaria è cambiata sostanzialmente e non possiamo più trattare diversità, equità, inclusione e giustizia sociale come una semplice “aggiunta”, ma ognuno di quei criteri deve essere riconosciuto come il cuore della nostra missione accademica. La missione della ricerca “qualunque siano le conclusioni”, è sostituito dal programma di ricerca “scientifico” di Diversity, Equity and Inclusion (DEI). A questo programma i professori sono invitati a prestare un Giuramento di Fedeltà.
L’altra conseguenza è naturalmente sull’educazione degli studenti universitari. Se guardiamo ai dati inglesi, per esempio, è sorprendente confrontare l’effetto stimato di due variabili individuali dei cittadini sulla loro propensione a votare per il partito conservatore: una è l'intelligenza, l’altra la laurea. L'intelligenza ha un effetto positivo (aumenta la probabilità di votare conservatore) statisticamente significativo e sostanziale. La laurea (cioè, essere andati all’università) ha un effetto negativo, di dimensioni e significatività pari a quello dell’intelligenza. In un vecchio linguaggio politico, le università sono la cinghia di trasmissione del partito fra le masse dei laureati. La massa dei laureati, diventati in seguito giornalisti, avvocati, giudici, imprenditori, sono l’esercito della classe dirigente, un po’ più limitata dal punto cognitivo di quella precedente, e un po’ più arrogante perché ha la laurea.
Le conseguenze politiche di questo nuovo ruolo dell'università sono chiare, di nuovo se guardiamo ai dati. Un modo interessante di vedere questo è confrontare gli strati sociali che hanno formato nel 2008 la coalizione che ha eletto Obama presidente e la nascente coalizione che sostiene la candidatura di Kamala Harris. La prima era ancora una coalizione di working class, la seconda è soprattutto una coalizione di laureati. Obama aveva tra la classe lavoratrice un margine di 4 punti, mentre Harris perde al momento tra la classe lavoratrice di 15 punti. Obama perse tra i laureati bianchi di otto punti percentuali, Harris ha oggi un margine di 15. Il partito democratico negli Stati Uniti è passato dall’essere un partito di lavoratori a un partito di laureati che hanno tutto l’interesse a difendere lo status quo.
Una conclusione realista
L’analisi dell'evoluzione e della trasformazione dell’istituzione università è un caso particolare di una più ampia trasformazione sociale e politica. Anche in questo caso, è utile riconoscere che ci troviamo nel mezzo di un confronto ideale tra posizioni politiche e filosofiche fondamentalmente diverse, anzi opposte, e che le trasformazioni dell’università che stiamo osservando sono in parte dovute a inefficienze e miopie, ma in gran parte anche all’implementazione di un programma, una missione progressista. Questo programma non è certo un piano nella mente di pochi. Magari lo fosse. È nella mente di migliaia e migliaia di persone, quasi tutte purtroppo animate da buone intenzioni e da chiari interessi di gruppo. Le due questioni fondamentali sono quelle della libertà di insegnamento e quella di ricerca. Su questi due fronti avverrà il confronto o, peggio, lo scontro.