La nuova burocrazia celeste e la Grande Transizione del capitalismo
di Giuseppe Sabella (Direttore Oikonova)
Dopo l’articolo di Corrado Clini che ha rimarcato l’importanza di attualizzare le priorità del Green Deal europeo, su queste pagine sono seguiti altri interventi che denotano la grande portata del piano ma anche i suoi limiti e le sue contraddizioni. Che evidentemente ci sono. Ciò non toglie che, nell’Europa della nuova burocrazia celeste, il Green Deal sia un valido progetto di sviluppo economico e sociale, non soltanto ambientale.
La bureaucratie céleste (1968) di Etienne Balazs – tra i più importanti sinologi del Novecento – ci dice che la Cina imperiale si avviò verso la decadenza proprio a causa del suo apparato statale. Secondo Balazs, fu la pervasività del potere dello Stato cinese – esercitato da una burocrazia estremamente colta ed efficiente ma anche arrogante – a fermare lo sviluppo della classe mercantile. Fino al XV secolo, infatti, i mercanti cinesi avevano reso il loro impero il più sviluppato commercialmente e il più progredito civilmente. Poi, la scoperta delle Americhe e il consolidarsi del mercantilismo in Europa, resero il Vecchio continente l’epicentro mondiale dello sviluppo sociale e del capitalismo (mercantile prima e industriale poi).
Ai giorni nostri, la burocrazia europea ci ha già dato evidenza di arroganza e pervasività. La speranza di tutti noi è che ciò non risulti fatale come lo è stato, secondo Balazs, per la Cina imperiale. A ogni modo, come scrive Carlo Lottieri, perché nell’Europa di Mario Draghi e Ursula von der Leyen «un simile riformismo va apprezzato»?
A parere di chi scrive, il Green Deal va apprezzato perché vuole accompagnare la trasformazione economica più profonda. Ma facciamo un passo indietro.
Anzitutto, cos’è il Green Deal? Si tratta di un piano strategico, i cui pacchetti attuativi stabiliscono tempi e modi. Il più celebre pacchetto è il Fit for 55, che decreta il bando del motore endotermico a partire dal 2035. Questa distinzione è utile per capire che se vi sono delle rigidità, se vi sono degli eccessi di dirigismo – che ci sono eccome – questi vanno cercati nei pacchetti attuativi più che nel piano strategico che, soprattutto, individua degli obiettivi. In questo senso, il Green Deal è il prodotto di un lavoro considerevole da parte dell’Unione europea. Ed è l’esito di un confronto in particolare con il mondo dell’impresa. È cosa nota, per esempio, che sono stati i vertici della grande industria dell’auto – che oggi fanno marcia indietro – a volere la sola produzione di auto elettriche a partire dal 2035: si erano convinti che era la strada giusta per rinvigorire un mercato in contrazione da più di 15 anni, dato che il parco circolante si sarebbe rinnovato velocemente anche in ragione delle continue restrizioni sui più vecchi motori endotermici.
Inoltre, il Green Deal è figlio dell’Agenda 2030 presentata dalle Nazioni Unite nel 2015 a New York. L’Agenda 2030 è un documento importante sottoscritto da 193 Paesi e i cui 17 obiettivi, i cosiddetti “sdg” (sustainable development goal), sono oggi incardinati negli ordinamenti di gran parte dei Paesi del mondo. Le principali economie avanzate sono tutte su questi obiettivi, pur con tempistiche tra loro differenti. Tuttavia, la questione ambientale e lo sviluppo sostenibile sono qualcosa su cui le Nazioni Unite lavorano almeno dal 1968, quando si avviarono i preparativi per la Conferenza di Stoccolma sull’ambiente umano (1972).
Ma…se i lavori per lo sviluppo sostenibile sono iniziati nel 1968, perché Agenda 2030 e Green Deal si configurano, come programmazione, soltanto nel 2015?
La risposta più scontata potrebbe essere la crisi climatica. Sia chiaro, la crisi climatica c’è eccome, negarla è folle. I ghiacciai si stanno sciogliendo sul serio, la temperatura terrestre mostra una tendenza all’aumento nel lungo periodo. Ma gli scienziati ci dicono anche che, in questa storica mutazione del clima, potrebbero esserci delle cause endogene oltre all’elemento antropico (le emissioni di gas serra). Non entro in questa discussione perché è di gran lunga estranea alle mie ricerche e ci interessa fino a un certo punto. Voglio però dire due cose: per quanto l’energia pulita e la tecnologia digitale siano meglio dell’oil and gas e dell’industria fordista, non è per nulla certo che il mondo che stiamo costruendo sia migliore del precedente; peraltro, i processi di estrazione delle nuove materie prime e/o materiali critici (come litio e cobalto), sono altamente invasivi e impattanti.
In sintesi: oltre alla crisi ambientale, le ragioni dello sviluppo sostenibile come programmazione economica e politica – che significa Agenda 2030 e Green Deal – sono soprattutto di altro genere. Mi spiego meglio.
Sin dai tempi di Joseph Schumpeter, sappiamo che il capitalismo funziona per cicli economici. Quando la sua potenza espansiva viene meno, il sistema si ripensa e si riorganizza. È quello che è successo dopo la crisi del 2008, nel momento in cui le spinte dell’off-shoring e dell’economia globale si sono affievolite. È in quel frangente che i grandi magnati del capitale hanno avviato una profonda trasformazione economica, politica e culturale: il digitale, i social media, l’intelligenza artificiale e l’energia pulita sono i driver di questa metamorfosi, che incide anche sulle relazioni tra gli Stati sovrani.
È su questi presupposti che le élite economiche internazionali hanno rivisto la narrazione con cui si presentano a consumatori e mercati. Non più la fine della storia – che, nel corso degli anni, ha sospinto il mercato globale – bensì la sostenibilità: come direbbe Jacques Lacan, la Transizione ecologica è il nuovo discorso della legittimazione capitalistica.
Perché questa nuova narrazione? Perché il grande capitale iniziava, in modo significativo, ad abbandonare l’economia dell’oil and gas – che significa la vecchia industria – e a investire sull’economia dell’energia rinnovabile e del digitale – che significa industria 4.0 (o 5.0 che dir si voglia), green economy, nuove fonti energetiche, nuovi approvvigionamenti di materie prime, nuovi prodotti e nuovi mercati.
Oggi, mentre Stati Uniti e Cina si sfidano per i commerci e per la supremazia cognitiva, gli scenari energetici previsti dalle istituzioni più autorevoli – l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), BloombergNEF, Shell, BP e IRENA – delineano la contrazione della domanda di combustibili fossili e la progressiva crescita di fonti alternative. In Gran Bretagna è stata spenta l’ultima centrale a carbone. Contrariamente a quanto afferma Donald Trump, il Green Deal – che spesso viene confuso con cultura e capitalismo woke – non è finito e non finirà: il grande capitale (europeo, cinese e, anche, americano) ha adottato questa proiezione e questo codice linguistico.
Tutto questo non solo cambia il mondo e i rapporti tra gli Stati – pensiamo solo a quei Paesi che vivono di esportazioni di gas e petrolio (la Russia è uno di questi) – ma, per funzionare, ha bisogno che si ri-orienti anche (e soprattutto) la domanda, il consumo. Ecco a cosa serve, in ultima istanza, il discorso.
Perché la giovane Greta Thunberg è diventata nel tempo la leader di un movimento di massa? Come mai nel 2019 arriva addirittura a partecipare e a intervenire (con un’arringa!) in sede di Nazioni Unite (New York, 23 settembre)? Chi la conduce alle Nazioni Unite? È ingenuo pensare che ci sia arrivata da sola. Il fenomeno Greta è, in sintesi, un alleato (inconsapevole) del grande capitale. Greta, attraverso la TV e i mass media di ogni genere, è entrata nelle case di noi tutti e ci ha raggiunto sui nostri telefonini. La sua ascesa naturalmente da qualcuno è stata agevolata. Questo qualcuno è Angela Merkel, che aveva capito tutto della trasformazione dell’economia e del sistema capitalistico. Greta all’Onu è stato un grande spot della Transizione verde: in questo modo il grande capitale – che, ancora una volta, ha trovato il potere politico disponibile a favorirne gli interessi – avvicina il consumo al suo nuovo prodotto.
Tutto ha un limite, come hanno un limite la nostra facoltà conoscitiva e la nostra esistenza terrena. Ma proprio per la nostra esistenza intesa come vita comune, i discorsi sono indispensabili per costruire legami sociali. E «le storie ci hanno reso umani», come scrive Jonathan Gottschall (saggista e docente di letteratura evolutiva al Washington & Jefferson College in Pennsylvania). Peraltro, sulla funzione simbolica della storia non mancano teorie molto raffinate, da Gianbattista Vico a Ernst Cassirer passando per il giovane Friedrich Nietzsche: la storia viene creata inconsapevolmente attraverso l’agire ed è interpretativa e simbolica, legata alle esigenze e agli scopi della vita umana.
Tutte le storie sono parziali, come lo è quella della fine della storia e come lo è quella della sostenibilità. Il punto è che il capitalismo, come dice Luc Boltanski, si trasforma, abbandonando il discorso precedente e costruendone uno nuovo, inglobando le sue critiche – in questo caso quella ambientalista – e indebolendo così i suoi oppositori. In questo modo, conserva e rigenera il suo potere. Oggi il grande capitalismo è ambientalista. E l’ecologismo radicale non esiste più.
Ma che cos’è il capitalismo? In coda a questa riflessione sul Green Deal, dico soltanto che secondo me aveva ragione Luigi Einaudi quando, sulle pagine del Corriere della Sera, scriveva che il capitalismo «è una parola mitica, con cui si spiegano senz’altro tutti i malanni dell’umanità».