Il professor Lorenzo Ornaghi elenca una serie d’allarmanti disfunzionamenti nell’attuale università italiana, in relazione sia alla sua missione didattica sia a quella volta a promuovere la ricerca scientifica. Egli è tuttavia piuttosto tiepido, se non espressamente disilluso, riguardo alla possibilità d’invertire questo trend per mezzo d’opportune riforme. Tenendosi a distanza di sicurezza dall’ottimismo di Albert O. Hirschman e dalla sua fede nelle virtù miracolose del fine tuning, Ornaghi s’interroga non solo sulla capacità da parte della classe politica di ridisegnare efficaci regole del gioco, ma pure sulla reale volontà di farlo. La convergenza di convenienze e interessi da tempo consolidati, egli sostiene, rende infatti le gerarchie accademiche bloccate su posizioni sostanzialmente conservatrici e disposte a negoziare solo minimi e precari cambiamenti.
Si può certamente condividere la scarsa fiducia che Ornaghi ripone nella capacità e volontà di riformare l’università. Va tuttavia osservato come negli ultimi decenni, ben lontano da ogni apparente immobilismo, si è assistito al varo di una serie riforme universitarie a un ritmo mai così accelerato in precedenza. Riforme che di volta in volta hanno modificato l’organizzazione della didattica, le regole concorsuali, i criteri di valutazione dei docenti e quelli degli atenei, con le inevitabili ricadute in termini di finanziamenti concessi o meno.
Questo rapido susseguirsi di riforme può porre seri dubbi sulla persistenza, all’interno del mondo accademico e di chi lo governa, d’attitudini improntate all’immobilismo e al conservatorismo; al contrario potrebbe rivelare una tendenza molto italiana a delegare la soluzione dei problemi – si pensi pure al caso dell’immigrazione e della povertà – a un semplice decreto legislativo, pure se le ricadute reali di questa procedura, almeno nel caso dell’università, appaiono piuttosto deludenti. I rapporti di forza fra docenti e dipartimenti, gli indici di produttività scientifica dei ricercatori nonché i ranking nazionali degli atenei sembrano, infatti, con l’eccezione di pochi e trascurabili scostamenti, sostanzialmente invarianti rispetto all’introduzione di regole di condotta e criteri di valutazione nuovi.
Questa “neutralità” della politica universitaria va senza dubbio attribuita all’elevata elasticità e capacità d’adattamento del corpo accademico italiano di fronte a ogni nuovo sistema di regole alle quali deve sottostare. È ben noto, infatti, che per ottenere un reale effetto da un esperimento politico, non è sufficiente che a mutare siano esclusivamente i parametri microeconomici “profondi” o “fondamentali” legati ai vincoli istituzionali, tecnologici e delle risorse, ma dovrebbero cambiare pure quelli relativi alle preferenze.
In altre parole, il successo di una riforma universitaria richiede un contestuale cambiamento nel comportamento individuale dei vari attori che deve coinvolgere pure le mentalità e i valori condivisi, gli obiettivi perseguiti, le credenze e le aspettative. In mancanza di un mutamento sincronico dell’insieme di questi fattori, s’applica impietosamente la critica dell’economista Robert Lucas, inizialmente rivolta ai metodi econometrici di stima degli impatti delle politiche economiche. Questa critica sancisce l’impossibilità di prevedere correttamente gli effetti di un cambiamento di politica supponendo che il comportamento degli agenti non vari in seguito all’introduzione delle nuove misure. Se le aspettative sono razionali, gli agenti sono infatti capaci di prevedere correttamente gli effetti delle nuove politiche e di modificare di conseguenza il loro comportamento, col risultato d’ostacolare il conseguimento degli obiettivi prefissati. Un esempio semplice a questo riguardo è l’obbligo per gli automobilisti delle cinture al fine di diminuire la mortalità sulle strade. Alcuni studi mostrano, infatti, che i conducenti, in seguito a quest’obbligo, si sentono maggiormente sicuri e circolano a una velocità media maggiore; il numero d’incidenti e vittime automobilistiche allora non diminuirà o diminuirà meno di quanto ci si aspettava.
In quest’ottica, i ritardi e i disfunzionamenti dell’università italiana sarebbero allora da addebitare principalmente a una miscela esplosiva composta di uno straripante positivismo giuridico, di un fideismo cieco nelle virtù taumaturgiche della politica e di una sostanziale stagnazione mentale che priva i singoli di concreti riferimenti valoriali che consentano loro d’apprezzare i vantaggi e le opportunità offerti da un eventuale cambiamento delle regole del gioco.
Un’ulteriore prova a carico della fragilità dell’idea secondo la quale l’università resterebbe ostaggio d’attitudini conservatrici e sarebbe dunque restia, oltre che incapace, a riformarsi, è rappresentata dalla rivoluzione ideologica e culturale attualmente in corso, etichettata come “woke” e che si propone di decostruire l’eredità culturale dell’Occidente, accusato di sessismo, razzismo e colonialismo sistemici. Il wokismo nasce infatti nei campus americani per propagarsi poi in Europa proprio attraverso la vasta e articolata rete accademica, anche se in Italia sembra attecchire con maggiori difficoltà.
Al contrario delle contestazioni studentesche degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso rivolte contro le istituzioni universitarie all’epoca considerate reazionarie e oppressive, la mobilitazione woke vede non a caso schierati in prima linea docenti e organi accademici, fino al punto d’imporsi rapidamente all’interno di numerosi e importanti dipartimenti umanistici e iniziare a farlo pure in quelli tecnico-scientifici. Non ci si deve allora stupire né di fronte ai proclami accademici improntati alla valorizzazione della “diversità, inclusione, equità” né di fronte alla proliferazione di percorsi formativi in “Studi di genere”, “Teoria critica della razza” e “Studi intersettoriali”.
A un’attenta analisi, emerge dunque la paradossale e schizofrenica natura duale delle accuse comunemente rivolte all’università: di essere cioè responsabile, a seconda dei casi, sia di un irrigidimento dogmatico e conservatore, sia di tentare troppo rapide e scientificamente discutibili fughe in avanti.