Nel XVI secolo il filosofo empirista Francis Bacon, con la sua visione della rivoluzione scientifica, incoraggiava l’essere umano a studiare la natura e a costruire meccanismi, macchine che potessero migliorarla, rendendo così più facile la vita umana. Successivamente Thomas Hobbes, che di Bacon era stato allievo, ci presenta l’immagine di una natura matrigna, all’interno della quale l’uomo non potrebbe sopravvivere, se non manipolandola. Nel XIX secolo il filosofo liberale John Stuart Mill torna sulla necessità da parte del genere umano di dominare la natura, di domarla. Henry David Thoureau sente, dal canto suo, l’esigenza di un ritorno alla natura, nel suo celebre Walden ovvero vita nei boschi (1854). Nella storia del pensiero umano si sono alternate, da un lato, visioni di una natura benigna, dove l’uomo viveva felice e con il corpo sano, ricordiamo Rousseau, il culto del primitivo, di un’età dell’oro preindustriale e dall’altro, visioni di una natura matrigna che occorreva domare per garantire la propria sopravvivenza. Quella che sembra prevalere a Bruxelles è la mistica di una natura violata dall’uomo, che quindi si rivolta contro di noi con mutamenti climatici ed eventi catastrofici sempre più frequenti.
Corrado Clini ha dato il via al dibattito sul tema della transizione ecologica, con un contributo incentrato sulla necessità di un cambiamento di approccio da parte dell’Unione europea che dovrebbe avere come priorità la capacità dei singoli territori di resistere agli eventi climatici estremi, piuttosto che la decarbonizzazione. Questo dal momento che l’innalzamento della temperatura del pianeta e gli effetti negativi dei gas serra, sono ormai da considerarsi un dato storico sul quale sarebbe in realtà impossibile incidere. Di conseguenza occorrerebbe spostare risorse dal piano della neutralità climatica per il 2050, agli investimenti per quelle infrastrutture necessarie alla messa in sicurezza dei territori europei. Notiamo che per ora l’approccio del Parlamento europeo non sembra andare nella direzione indicata da Clini, restando ben fermo l’obiettivo della progressiva decarbonizzazione fino alla neutralità climatica entro il 2050.
A mio avviso ci troviamo di fronte a due ordini di problemi. Il primo è quello dell’idea del grande pianificatore onnisciente che detta dall’alto norme valide per qualunque angolo d’Europa, cosa priva di senso. Seguendo la prospettiva di Friedrich von Hayek, sappiamo che la conoscenza non può essere tutta concentrata in un’unica figura o istituzione, ma che è dispersa tra miliardi e miliardi di persone. Ci sono conoscenze di circostanze di tempo, di luogo, di spazio che possono essere note solo a livello di comunità locali, anche piccolissime, in un’ottica di estremo decentramento che dovrebbe valere anche per qualunque questione riguardi l’ambiente. La conoscenza può esistere solo a livello individuale e locale, occorre avere la capacità di adattare le proprie attività a circostanze climatiche, ma non solo, sempre più mutevoli, Questo adattamento può avvenire solamente in seguito ai passi necessari adottati a livello locale, addirittura individuale, nel compiere cose abituali in condizioni che mutano. Perché il processo di adattamento possa funzionare è essenziale che ogni piccola, piccolissima comunità locale sia libera di agire sulla base delle proprie conoscenze di circostanza e di luogo, di cui uniche sono titolari. Il valore del decentramento e dell’autogoverno all’interno dell’Unione europea poggia esattamente sull’ammissione dell’impossibilità che un grande pianificatore centralizzato sia in grado di possedere tutta la conoscenza possibile di un gran numero di fattori dai quali dipende anche il benessere ambientale. Come ricorda Hayek: «Se esistessero uomini onniscienti […] resterebbe poco da dire in favore della libertà» (La società libera) e anche dell’autogoverno locale, aggiungo. Inoltre, perché mai un burocrate o un funzionario a livello europeo dovrebbe essere più saggio e più lungimirante nell’allocazione delle risorse, nella soluzione dei problemi ambientali che riguardano le realtà locali europee di quanto non lo siano individui liberi e che vivono in quelle realtà?
E qui veniamo a un secondo ordine di problemi, che senz’altro verrà percepito come controverso. Abbiamo bisogno di proteggere i nostri territori da eventi climatici estremi, che portano danni enormi in termini di vite umane ed economici. Si tratta di una indubbia priorità. Tra le altre cose, come ben evidenziato da Clini nel suo saggio, un problema importante è quello della progressiva deforestazione. Chiediamoci: a chi appartengono le foreste? Sono demanio pubblico. E se una foresta fosse privata? Il proprietario o l’impresa privata proprietaria non avrebbe forse tutto l’interesse a proteggere questa preziosa risorsa? Non avrebbe tutti gli incentivi economici per sviluppare tecniche per migliorare, proteggere e fare crescere la risorsa naturale? Non avrebbe, forse, un’ottica di lungo periodo? Lo stesso potrebbe valere per corsi d’acqua che ormai troppo spesso portano alluvioni e frane con esiti drammatici. Idem per quanto riguarda le infrastrutture da proteggere da eventi estremi. Chi potrebbe essere meglio in grado di tutelarle? Un lontano pianificatore centralizzato o la piccola comunità locale? O addirittura un proprietario privato? Considerazioni di questo tipo comportano una visione senz’altro diversa dalla gestione dall’alto delle problematiche ambientali, che conduce a un approccio di libero mercato, ma sulla quale, a mio avviso occorre riflettere.
Un’ultima notazione. Il Green Deal europeo che mira a un’Europa più sana e pulita a impatto climatico zero, poggia sull’assunto che ci sia qualcosa di sbagliato nel modo di produrre e consumare da parte dei paesi occidentali più ricchi e tecnologicamente avanzati. Ebbene, l’Environmental Performance Index (2024), un indice che cerca di quantificare le prestazioni ambientali di un paese, sviluppato dalle università di Yale e Columbia, che utilizza 58 indicatori di performance e che classifica 180 paesi in relazione alla capacità di reagire ai cambiamenti climatici, alla salute ambientale e alla vitalità degli eco sistemi, ci dice che oggi la tecnologia e il benessere non sono affatto un ostacolo alla sostenibilità ambientale, ma sono piuttosto una precondizione. Il benessere di un paese è uno degli elementi più forti per poter prevedere nel suo insieme la sua performance ambientale. Progresso tecnologico, capitalismo, libertà di generare benessere hanno prodotto nuove opportunità per ottenere un ambiente più pulito, dai trasporti, al trattamento delle acque reflue, dei rifiuti fino all’utilizzo di sofisticate misure di filtri e pulizia che hanno contribuito a diminuire le emissioni delle fabbriche. I paesi più ricchi e sviluppati sono quelli che maggiormente trovano soluzioni per ripulire l’ambiente, mentre in fondo alla classifica ci sono i paesi che si stanno sviluppando adesso, India, Pakistan, Bangladesh, ma anche la Cina e in generale i paesi più poveri. Se, quindi, la natura può essere mutevole e anche matrigna, il progresso tecnologico ed economico è nostro alleato.