La fine dell’egemonia occidentale e la rinascita della diplomazia imperialista
di Luciano Monzali (Università di Bari)
Il saggio di Paolo Soave stimola una riflessione sul processo storico che stiamo vivendo sul piano mondiale in questi anni, ovvero la crisi del sistema di relazioni internazionali costruito e dominato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati e clienti, il cosiddetto mondo occidentale, all’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Tale ordine si fondava sulla supremazia degli Stati Uniti, legittimata sull’idea del Manifest Destiny, ovvero la convinzione delle élite nordamericane dell’inevitabile loro destino di affermarsi come Stato guida dell’intera umanità in quanto portatori di valori, quelli della democrazia liberale pluralista e del capitalismo individualista, superiori ad altre civiltà e ad altre ideologie e concezioni del mondo esistenti. Nella narrativa ideologica prodotta dagli storici e intellettuali statunitensi e occidentalisti, l’intero Novecento, il presunto “secolo americano”, non era stato che un’inevitabile processo di realizzazione di questo destino di supremazia dello Stato rappresentante supremo della civiltà anglo-americana, che aveva visto Washington sconfiggere prima i cosiddetti totalitarismi “fascisti”, la Germania nazionalsocialista, l’Italia mussoliniana, il Giappone imperiale, poi quelli comunisti, capitanati dall’Unione Sovietica. Conseguenza della supremazia statunitense doveva essere la “fine della storia”, il sorgere di un sistema politico ed economico globale fondato sul dominio perenne, indiscusso e indiscutibile degli Stati Uniti e dei Paesi del blocco occidentale e dei loro valori.
Questa lettura occidentalista della storia del Novecento è fortemente ideologica e discutibile, in quanto trascura e sottovaluta un altro importante processo politico, analizzato con finezza da storici e diplomatici italiani come Mario Toscano e Pietro Quaroni fin dal secondo dopoguerra, che si è svolto nel corso dello scorso secolo, ovvero la crisi degli imperi coloniali europei e l’emancipazione dei popoli asiatici, africani e latino-americani dal dominio e da forme di tutela invasiva di potenze straniere, con il progressivo riemergere della forza politica di antichi Stati e civiltà quali Cina, India, Persia/Iran e Turchia. A ben vedere, la cosiddetta Guerra Fredda, lo scontro politico e ideologico fra Stati Uniti e Unione Sovietica, ha visto il tracollo della Potenza comunista soprattutto per il crearsi di una sostanziale collaborazione politica in funzione antirusso-sovietica fra il blocco occidentale guidato da Washington e alcuni delle Potenze asiatiche risorgenti quali la Cina e la Turchia. Talmente importanti erano l’amicizia e la cooperazione cinesi contro Mosca e i suoi alleati che gli occidentali con gioia concessero a Pechino la sovranità su territori coloniali europei come Hong Kong e Macao e riconobbero che esisteva una sola Cina e che lo Stato di Taiwan non aveva legittimità internazionale e non aveva diritto di essere rappresentato presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Era prevedibile che il processo di rafforzamento di Stati come la Cina, l’India, l’Iran e la Turchia sarebbe proseguito nei primi decenni del XXI secolo e avrebbe rivelato l’irrealismo delle ambizioni egemoniche di Washington. Era inevitabile che queste potenze asiatiche, eredi di antiche civiltà e imperi, avrebbero messo in discussione l’ordine politico e finanziario mondiale esistente, vantaggioso per gli occidentali, chiedendo, ad esempio, più potere in seno alle istituzioni internazionali e maggiore attenzione ai loro interessi e alle loro richieste. Nel caso europeo, non era difficile anticipare, lo previde Roberto Gaja nei primi anni Novanta, che il nuovo Stato russo, risorto dalla dissoluzione sovietica, superata la crisi di transizione e ridefiniti i suoi interessi di potenza primari, avrebbe preteso di contare e pesare sul piano degli assetti del continente europeo e non avrebbe accettato pacificamente e passivamente una definizione degli assetti dell’Europa orientale, decisi senza consultare Mosca, fondata sul distacco dell’Ucraina dalla Russia e la trasformazione di questa da Stato ucraino-russo in entità puramente ucraina alleata agli euro-statunitensi, il tutto finalizzato alla distruzione del ruolo di Mosca quale grande potenza.
Gli Stati Uniti e i loro principali alleati occidentali si sono trovati impreparati ad affrontare queste sfide sul lungo termine. Non facile è spiegare il perché di questa impreparazione. Plausibili sono le tesi di Paolo Soave circa l’eccesso di autocompiacimento e arroganza delle élite occidentali convinte della loro superiorità, le quali hanno assunto un atteggiamento di disprezzo e superiorità verso i non occidentali e i non credenti nei valori euro-americani. La convinzione della propria superiorità tecnologica e militare, il disprezzo per tradizioni politiche e religiose estranee a sé (pensiamo alla sottovalutazione della forza della cultura di grande potenza radicata nella gran parte delle élite russe, all’incomprensione della raffinatezza e complessità della politica estera di Stati come la Cina, la Turchia e l’Iran), il dogmatismo semplicista ideologico dell’idea statunitense della democratizzazione progressista imposta con le armi su popoli ritenuti poveri e arretrati come l’afghano e l’iracheno, hanno prodotto nella gran parte delle élite occidentali una visione semplicista e superficiale della realtà mondiale e dei suoi trend di sviluppo, rendendole impreparate all’esplodere di conflitti che covavano da tempo come la crisi ucraina-russa, la competizione israelo-iraniana, lo scontro per l’egemonia nell’Asia orientale.
Vale la pena riflettere su quali sono state le risposte del mondo occidentale al mutare degli equilibri mondiali. Invece di scegliere un approccio improntato alla ricerca del dialogo diplomatico, del chiarimento pacifico, del compromesso politico e territoriale con le nuove potenze emergenti, magari fondato su una revisione dialogante dei rapporti di forza e un riequilibrio del potere mondiale, il blocco occidentale, in cui sempre più schiacciante è il ruolo dominante delle componenti anglo-americane rispetto agli europei continentali e ai giapponesi, ha deciso di difendere con ogni mezzo la propria supremazia politica ed economica, all’insegna di una riscoperta della diplomazia imperialista, strumento principe delle potenze coloniali europee nei secoli passati. Da ormai una decina d’anni gli Stati Uniti hanno delineato e lanciato una lotta globale contro il presunto nemico principale, la Cina comunista. Gli Stati Uniti, assecondati dal Regno Unito, dall’Australia, dal Canada, hanno deciso di frenare e contenere l’ascesa cinese attraverso forme di guerra economica (l’uso delle sanzioni e l’aumento delle tariffe doganali), di scontro diplomatico-politico (l’esasperazione dei dissidi territoriali e strategici nel Mar cinese meridionale, la sconfessione della politica di accettazione di un’unica Cina) e di scontro ideologico (la descrizione della Cina comunista come Potenza totalitaria che conduce politiche di genocidio etnico e culturale al proprio interno e strategie di politica estera “aggressive” e “imperialiste”, anche se il governo di Pechino, a differenza di quello di Washington, non ha condotto conflitti bellici da oltre quarant’anni), la costruzione di nuove alleanze politico-militari, sul modello del containment della Guerra Fredda.
Quindi non direi che la diplomazia è scomparsa, quanto che è tornata a essere quello che era stata per secoli: strumento delle lotte di potenza degli Stati gli uni contro gli altri. Quindi vediamo in atto numerose iniziative diplomatiche contrapposte: ad esempio, i tentativi statunitensi di legare a sé potenze asiatiche emergenti come l’India con interessi competitivi con la Cina, di rilanciare l’idea di una comunità politica euro-atlantica in funzione antirussa; le iniziative cinesi di usare progetti di cooperazione economica (la cosiddetta Via della Seta), di intensificazione delle relazioni con antichi alleati degli Stati Uniti come Pakistan e Arabia Saudita. Di fatto la guerra ideologica e propagandistica fra Stati Uniti e Cina, che recupera e attualizza vecchi slogan e schemi della politica estera degli Stati anglo-americani (la lotta contro le autocrazie e i totalitarismi, la difesa della democrazia e dei diritti umani) produce la demonizzazione dell’avversario e riduce gli spazi per la pratica di una diplomazia orientata alla ricerca della pace e della soluzione dei conflitti sulla base della coesistenza degli interessi.
La politica dell’assoluto scontro economico e ideologico con la Cina comunista ideata e condotta dalle amministrazioni Trump e Biden sta portando alla spaccatura dell’umanità e dell’economia globale in due grandi blocchi contrapposti. Certamente gli Stati Uniti sono riusciti a ricompattare attorno a sé il mondo occidentale, di fatto ormai strutturato su tre cerchi, l’elemento guida ovvero gli Stati Uniti e le entità statuali anglo-americane, gli alleati più fedeli (Israele, la Germania, gli Stati dell’Europa settentrionale e orientale, il Giappone) e gli Stati clienti periferici (l’Italia, la Grecia, la Spagna, gli amici mediorientali, africani e latinoamericani) privi di forza militare e in possesso di un’utilità soprattutto passiva, strategica o economica. Ma gli statunitensi con le loro politiche di boicottaggio e sanzioni politiche e economiche stanno abbandonando e ritirandosi da importanti parti del mondo: la Cina, la Russia, vaste zone dell’Asia centrale e occidentale. La lotta contro le autocrazie fondata sulle sanzioni economiche e sulla rottura dei rapporti politici e culturali rende gli Stati nemici sempre più chiusi e impermeabili rispetto all’influenza occidentale. I regimi autoritari radicalizzano e potenziano i loro apparati repressivi, estremamente rafforzati dalle nuove tecnologie informatiche e comunicative, mentre la rottura fra queste società e il mondo occidentale rende più fragili e deboli le forze del dissenso verso il potere dominante. L’ideologizzazione estremista del messaggio liberale individualista occidentale sembra facilitare il compattamento di Stati autoritari con ideologie e valori molto diversi ma con un comune interesse a difendersi dalla minaccia reale o potenziale degli Stati Uniti.
In conclusione, con la fine di un sistema economico e commerciale globale e la spaccatura del mondo in due, di fatto l’egemonia occidentale a livello planetario è terminata: certamente gli Stati Uniti riusciranno a restare la potenza egemone nel blocco occidentale, ma la Cina sta emergendo come potenza dominatrice dell’altra metà del mondo, quella dell’altro da sé, del nemico assoluto, delle cosiddette autocrazie, l’anti-Occidente. La speranza è che l’emergere dei blocchi contrapposti porti, come fu nell’Europa della Guerra Fredda, a una stabilizzazione politica del pianeta e a una riduzione dei conflitti e delle guerre, da gestirsi con un abbandono delle logiche della diplomazia imperialista e un ritorno a quelle della diplomazia strumento della coesistenza fra interessi e valori diversi.