Nel suo pregevolissimo articolo il Professor Paolo Soave sostiene con grande eleganza e finezza la tesi secondo cui l’attuale contesto internazionale, caratterizzato da una serie di scontri armati già di per se stessi di grande individuale ampiezza ma che sembra non attendano altro che l’occasione giusta per fondersi in un vero e proprio conflitto mondiale, stia progressivamente proiettandoci in una nuova era, in cui politica e diplomazia saranno destinate a perdere progressivamente di importanza lasciando soltanto la violenza, e in particolare quella delle armi, a dominare la scena.
In un certo senso si tratta della medesima tesi sostenuta sin dall’inizio da un Sommo Pontefice che, con una visione che ora possiamo definire come realmente profetica, ha parlato di “terza guerra mondiale” dai primi scambi di colpi, e ora quotidianamente sostiene come una pace risulti sempre migliore di una guerra, anche e forse soprattutto nei momenti in cui ottenerla in maniera negoziata ci costringerebbe ad accettare compromessi vergognosi. Tutto vero, purtroppo, come è vero che la fase della violenza – di una assurda violenza del tutto priva di limiti! – non recederà né sul fronte ucraino né in quello medio orientale sino a quando una delle parti in causa si rivelerà nettamente più forte dell’altra sul terreno.
Una delle caratteristiche di entrambi gli scontri in atto consiste infatti nell’accanimento del tutto privo di scrupoli con cui le parti in causa si battono. Una caratteristica che chiude per il momento le porte a qualsiasi possibilità di intervento di mediazione (quante volte Blinken, il Segretario di Stato USA, ha fatto invano su e giù fra gli Stati Uniti, il Medio Oriente e l’Europa? Forse nemmeno lui è riuscito a contarle!) trasformando tra l’altro quelli che avrebbero potuto essere contrasti armati moderni, e attenuati dalla osservanza di una serie di regole concordate, in guerre di una ferocia tale da ricordare i conflitti biblici, allorché degli avversari si uccidevano anche donne e bambini e si rasavano al suolo le abitazioni, tagliando poi alla base i loro alberi da frutto e spargendo per soprammisura il sale sui loro campi.
A questo punto, come ha fatto il Professor Soave, diviene logico chiedersi se si stia o meno scivolando in una epoca post clausewitziana, in cui la violenza non sia più soltanto uno strumento graduabile fra i molti di cui dispone la politica ma domini invece senza alcun contrasto la scena, magari sotto diverse forme vale a dire o come violenza minacciata o quale violenza in atto.
Manca sempre di più in questa nuova nostra epoca quell’arte della diplomazia, in cui tra l’altro noi italiani eravamo maestri, che riusciva a far convivere – forse non armoniosamente ma in maniera comunque più che accettabile! – pace e guerra, amicizia ed ostilità e tutto ciò nel quadro di interessi ben differenziati ma che finivano quasi sempre col trovare una bilanciata soluzione di equilibrio. Verissimo, però bisogna dire che, per potersi muovere agevolmente in questo settore particolarmente delicato, ciò che per prima cosa occorre è che esistano professionisti adeguatamente preparati e che abbiano una idea ben chiara e del quadro internazionale in cui dovranno muoversi e dei problemi che si troveranno a dover affrontare.
Si tratta di compiti che si presentano entrambi come molto ardui considerato in primo luogo di come il mondo si trovi oggi in una piena crisi di trasformazione in cui il vecchio paradigma non è più valido mentre il nuovo stenta ad apparire nelle sue chiare linee. Esse dipenderanno infatti in larga misura dagli esiti di due ciclopici scontri in corso. Il primo, già chiaramente percepibile, vede il cosiddetto Occidente confrontarsi con il gruppo dei BRICS che mira ad ottenere a livello mondiale una distribuzione di potere e ricchezze ben diversa da quella attuale. Il secondo, per il momento solo interno all’Occidente, e sfuggito sino a oggi ad una collettiva percezione, è basato invece sul confronto fra lo Stato Westfaliano come noi lo abbiamo sino a ora conosciuto e il capitale che, a causa dei difetti delle nostre società liberal-socialiste – democratiche e perfette solo sulla carta – sempre più tende a concentrarsi nelle mani di pochissimi uomini, conferendo loro poteri immensi. In altre parole, in questo settore il problema è lo stesso che ci poniamo quando, valutando i risultati delle recenti elezioni americane, noi ci chiediamo chi in realtà le abbia vinte – Trump o Musk? – rimanendo nella impossibilità di fornire una risposta precisa.
In ogni caso, però, anche quando il quadro sarà completo e il nuovo paradigma in cui operare chiaramente definito si presenterà sempre per noi il problema di come far gestire l’intero quadro da persone che realmente dispongano della capacità di farlo. La diplomazia è infatti un mestiere che molto si accomuna a un’arte allorché si considerano tutte le qualità, non ultima l’esperienza, che risultano indispensabili per divenire un buon diplomatico. Si tratta quindi di una condizione di eccellenza che è possibile raggiungere soltanto al termine di un lungo e faticoso apprendistato che come punto di arrivo ti consenta tutte le volte che tu lo ritenga necessario di porti nei panni del tuo interlocutore, comprendendone e spesso anticipandone i processi mentali. Mestiere quindi, o arte, per ben poche persone, di grande valore e rigorosamente selezionate.
Oggi però, soprattutto da quando i moderni mezzi di comunicazione hanno ridotto il valore di tempi e distanze, la diplomazia di altissimo livello, vale a dire quella che avrebbe buone probabilità di risultare efficace, non è più affidata ai diplomatici di carriera, bensì ai politici che rivestono ruoli di rilievo esecutivi nei vari governi in quel momento in carica. Lasciando da parte la sua formazione di base, che molte volte è possibile integrare efficacemente tramite l’utilizzazione di consiglieri – sempre che il soggetto abbia la modestia di starli realmente ad ascoltare – la persona di governo non ha in effetti nella maggior parte dei casi la capacità di assumere e svolgere personalmente una funzione diplomatica.
La sua visione molto più che su un quadro internazionale proiettato nel futuro è infatti necessariamente concentrata su un panorama nazionale in cui l’equilibrio partitico e le elezioni – ve ne è sempre una “del giorno dopo” nelle nostre democrazie! – sono questioni di sopravvivenza e quindi necessariamente e assolutamente prioritarie. Crisi e sparizione della diplomazia dunque come scrive il Professor Soave? No, piuttosto la necessità che si tenga il dovuto conto di quanto sta avvenendo anche in questo campo allorché per necessità tutti i parametri delle forme di governo in uso del nostro Occidente dovranno essere riesaminati e riadattati per poterli utilizzare nell’ambito del nuovo paradigma in costruzione, qualunque esso risulterà al termine dei colossali scontri in atto.