Prima ancora di accreditarsi come costruzione ideologica sistematica, il conservatorismo potrebbe a buon diritto presentarsi come “postura intellettuale”. Quale atteggiamento di disincanto epistemico nei confronti delle aspirazioni valoriali e delle promesse coltivate da approcci teorico-normativi di matrice liberale, esso trova occasione di nascita e di sviluppo nell’alveo di quegli stessi liberalismi di cui pretende di farsi coscienza critica. Al netto delle sue eterogenee articolazioni entro specifiche coordinate storico-culturali, è possibile sostenere che, in linea generale, il conservatorismo rivendichi le ragioni della propria legittimità attraverso l’esibizione di una specifica pretesa: quella di svelare le insidie annidate in un’idea di progresso dalle nervature atomizzanti, sempre più insensibili al richiamo di un bene che poggi sul saldo ancoraggio di pratiche relazionali e visioni sostantive del bene e del giusto improntate al valore della comunità. Quest’ultima, intesa principalmente come esperienza di condivisione solidale di identità, tradizioni e prospettive di convivenza entro istituzioni come quella familiare e quella religiosa, rifugge tanto le derive dell’individualismo radicale, della tecnocrazia e del nichilismo, quanto quelle di un utopismo collettivista, enfatizzando la difesa di un ordine sociale fondato sulla trasmissione di valori ritenuti funzionali allo scopo della coesione morale.
Come Breschi suggerisce nell’incipit del suo saggio, le ragioni della graduale elaborazione del conservatorismo in paradigma culturale alternativo a quello del liberalismo non germinano nel friabile terreno della contingenza politica, ma innestano le loro radici profonde nella compattezza di un bisogno (tanto esistenziale quanto simbolico ed epocale) che attraversa la storia, la sua razionalità e le sue evoluzioni. È opportuno fornire una precisazione metodologica di carattere cautelativo. Se inteso in un’accezione marcatamente culturale, il conservatorismo non si propone come recisa opposizione al cambiamento, né come tentativo di difendere a spada tratta (e in maniera poco lungimirante) un passato costellato di tradizioni e narrative deformate da tensioni idealizzanti. Esso va piuttosto visto come orientamento alla lettura del reale che mira a monitorare il presente e le sue prospettive di sviluppo con l’accortezza di uno sguardo che custodisca ciò che si ritiene essenziale per un pieno sviluppo dell’“umano” all’interno di società politiche organizzate. In questo senso, il conservatorismo non è necessariamente da intendersi come recinzione teorica in cui la difesa di eredità culturali ed identitarie a rischio di dispersione si renda impermeabile a suggestioni e a prospettive di rinnovamento.
È indubbio, a ogni modo, che la prospettiva teorica di un cambiamento da declinarsi in termini di puro progresso tecnico-scientifico sia suscettibile di preoccupazione tra i conservatori. Un chiaro esempio di reazione critica verso tale accezione dell’idea di progresso è rappresentato dalla riflessione di Giuseppe Prezzolini. Quest’ultimo, da un lato, associa il progresso al primato della tecnica rispetto ad altre dimensioni cognitive e agenziali e umane; dall’altro, lo pone in connessione con la ricerca di legittimazione di una sostanziale eguaglianza nella partecipazione politica. A tal proposito, nella raccolta di massime e riflessioni a noi consegnata sotto il titolo di Ideario, afferma che «il principio che tutti gli uomini sono uguali è la base più sicura per creare la tirannide». La stessa visione di un progresso da intendersi come valore assoluto verrà da lui demistificata, e liquidata come semplice «superstizione moderna» (cfr. il suo Codice della vita italiana) e credo laico (si veda, a questo proposito, la sua nota frase «il progresso non è che una fede come un’altra. Anzi, è la fede dei miscredenti», in Vari scritti polemici degli anni ’30).
La riflessione di Prezzolini – che Breschi opportunamente cita – mette in luce l’esistenza di un legame tra conservatorismo e liberalismo che non si esprime nell’individuazione di puri elementi di analogia, ma che radica il conservatorismo stesso nell’urgenza della preservazione della libertà. È indicativo che, nel suo caso, il conservatorismo trovi intima fusione con aspetti anarchici della propria identità filosofico-politica. Prezzolini stesso si definisce “anarchico conservatore”. Una simile, provocatoria auto-rappresentazione è parossistica solo in apparenza, e ciò in quanto perfettamente coerente con la diffidenza da lui apertamente esibita verso partiti politici portatori di idealità dogmatiche, oltre che verso il potere esercitato da istituzioni corrotte. L’autonomia del pensiero individuale e quella della creatività intellettuale sono viste da Prezzolini come valori capaci di disinnescare un’acritica fiducia in utopie democratiche e rivoluzionarie. Se, da un lato, la sua difesa della tradizione culturale classica e morale (soprattutto cattolica) risponde all’esigenza di fondare la vita dei cittadini su valori stabili, dall’altro, la sua critica al progresso si radica nella necessità di individuare nel senso più profondo del limite umano, anziché in irrealistiche aspirazioni, un orizzonte normativo privilegiato per praticabili prospettive di rigenerazione politica.
Nel periodo immediatamente successivo alle due guerre mondiali, la questione del progresso è trattata in maniera critica da filosofi come Theodor W. Adorno, Max Horkheimer e Hannah Arendt, i quali pongono la corrispondente nozione in stretta connessione con una perdita dell’umano e della sua dimensione distintamente etica e comunitaria. I primi, nella loro Dialettica dell’illuminismo, lamentano l’incapacità dell’illuminismo e della sua distintiva razionalità scientifica di contribuire ad una libera, razionale autodeterminazione degli individui. Arendt, dal canto suo, teorizza la libertà come fatto eminentemente politico, e i diritti umani come pretese che, pur nella loro legittimità, possono essere garantite solo dalla cittadinanza e dalla partecipazione politica, anziché dal ricorso ad un’imprecisata e discutibile idea di “natura”. L’idea che i diritti siano validi in quanto storicamente radicati è già presente nel conservatorismo di Burke. Quest’ultimo, esprimendo una sostanziale diffidenza nei confronti dell’efficacia di diritti astratti, universali e “naturali”, teme infatti che la loro invocazione possa condurre a uno stato di anarchia o di tirannia rivoluzionaria (come nel caso emblematico della Rivoluzione francese).
Un atteggiamento di cautela e, non di rado, di scetticismo diffuso nei confronti dei diritti astratti, permane nel conservatorismo contemporaneo, specialmente in relazione ai diritti di nuova generazione (come quelli LGBTQ+, il diritto all’aborto, i diritti dei migranti e quelli invocati da gruppi culturali e religiosi minoritari). I nuovi diritti vengno infatti percepiti come minacce ai valori tradizionali, all’identità culturale o alla stabilità morale delle comunità. In contesti giuridici di matrice anglosassone e americana, i conservatori appaiono spesso come difensori della Costituzione, che considerano come baluardo contro interpretazioni “evolutive” e/o “espansive” da parte dei giudici. Si pensi ad esempio al principale teorico dell’originalismo giuridico, Antonin Scalia (1936-2016), giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, secondo il quale la Costituzione andava interpretata in base al significato a essa assegnato dai Padri Fondatori. Pur non arroccandosi in un’efferata lotta ai cambiamenti sociali, egli sostiene che i cambiamenti in questione debbano avvenire tramite canali parlamentari, e non realizzarsi in virtù di iniziative giudiziarie “creative” ed estemporanee. In questo senso, è ragionevole sostenere che l’eredità di Scalia – in particolar modo in relazione al suo scetticismo verso l’ampliamento giudiziario di diritti non esplicitamente menzionati dalla Costituzione – sia accolta da Amy Coney Barrett, attuale giudice della Corte Suprema USA nominata da Donald Trump. Ritenuta da molti come convinta originalista, quest’ultima si è infatti distinta per le sue interpretazioni restrittive dei diritti e delle funzioni dei giudici.
Il conservatorismo sembrerebbe dunque manifestare reticenza nei confronti della possibilità di avvalorare una cultura dei diritti tout-court – specialmente qualora i diritti in questione, piuttosto che essere intesi come forme di libertà individuale a se stanti, vengano hohfeldianamente concepiti come pretese giuridiche bilanciate dall’individuazione di doveri che specifici individui sono chiamati ad assolvere. La ricerca del legittimo interesse individuale – e la lotta alle evoluzioni socioculturali che vengano percepite come minacce nei confronti di quest’ultimo – sono alla base del pensiero di uno dei riconosciuti pionieri del neoconservatorismo americano: lo scrittore e giornalista Irving Kristol (1920–2009). Intellettuale ex trotzkista allontanatosi dalla sinistra negli anni Sessanta, è celebre per la sua frase: «Un neoconservatore è un liberal che è stato aggredito dalla realtà». La sua difesa dello Stato come garante dell’ordine sociale e morale non gli impedisce di sostenere un’idea di mercato libero. Rispondendo in maniera critica – e, al contempo, pragmatica e realistica – alle ideologie liberali e marxiste, Kristol ritiene che quello del libero mercato sia un meccanismo irrinunciabile per la crescita economica e per lo stesso benessere materiale degli individui. A ogni modo, il suo liberismo non incorre negli eccessi di chi non riconosca la necessità di un ruolo attivo dello Stato, della politica e della cultura nella promozione di un ordine e una stabilità sociale sostenibili.
Le idee di Kristol, che circolano diffusamente nel mondo neoconservatore statunitense a partire dagli anni Settanta (ad esempio, attraverso riviste come The Public Interest, da lui stesso co-fondata), sembrano trovare risonanza nelle politiche economiche attuate da Ronald Reagan, che fanno coesistere strategie liberiste con misure protezionistiche pragmaticamente volte a salvaguardare gli interessi americani (ad esempio, l’istituzione di barriere commerciali in settori come l’acciaio, l’auto e l’elettronica, al fine di proteggere le industrie americane dalla concorrenza giapponese). La stessa retorica politica di Reagan, che si appella sovente al ruolo svolto da istituzioni come religione, famiglia e comunità in qualità principali fondamenti morali della società, risente di intuizioni neoconservatrici. Ciò vale anche per l’ambito della politica estera, specialmente qualora si consideri l’enfasi generalmente posta dai neoconservatori americani sulla necessità di un interventismo “muscolare” e idealista da parte degli USA. Si pensi al sostegno attivo offerto da Reagan ai vari movimenti anticomunisti nel mondo, in vista di una promozione attiva del valore della democrazia e, in particolare, degli specifici interessi americani. Ulteriori casi di interventismo ragionevolmente riconducibili a ispirazioni neo-conservatrici sono rappresentati dalla politica di George W. Bush Jr., il quale, in maniera molto più accentuata sul piano valoriale e militante, soprattutto in seguito all’11 settembre 2001, esprime il ruolo centrale e irrinunciabile degli Stati Uniti nella cosiddetta “Guerra al Terrore”.
Nel contesto del Discorso sullo Stato dell’Unione del 29 gennaio 2002, Bush Jr. parla infatti di Axis of Evil in riferimento alle supposte strategie di sostegno al terrorismo e di sviluppo di armi di distruzione di massa attuate da Iraq, Iran e Corea del Nord, e questo a giustificazione non solo della legittimità, ma anche della necessità degli USA di assumere un atteggiamento militare e politico aggressivo in risposta alle minacce alla sicurezza globale. Come è stato sostenuto da Maria Ryan nel libro Neoconservatism and the New American Century, la politica estera di Bush Jr. avrebbe inaugurato una nuova direzione rispetto alla tendenza neoconservatrice precedente, la quale avrebbe invece privilegiato una promozione strategica di interessi contingenti distintamente americani rispetto all’impegno valoriale trans-nazionale notoriamente profuso in precedenza dai neoconservatori nella diffusione della democrazia all’estero. A giudizio di Ryan, nell’era precedente alla presidenza di Bush Jr. (e, più nello specifico, nell’epoca immediatamente successiva alla fine della Guerra fredda), gli Stati Uniti sarebbero stati infatti motivati a rafforzare uno scenario geopolitico non più caratterizzato dal bipolarismo tra USA e URSS, bensì da un singolo centro di potere. L’idea di un supposto “unipolarismo americano” da preservare avrebbe alimentato ambizioni di libera partecipazione degli Stati Uniti a scenari di conflitto, e ciò non a scopo difensivo, bensì offensivo.
La ricognizione (chiaramente non esaustiva né approfondita) del conservatorismo qui offerta non ne restituisce un’immagine unitaria, ma suggerisce comunque di considerarlo come attitudine riflessiva, capace di interpretare in chiave critica le traiettorie del presente e di riannodarle a cornici teoriche e valoriali non applicabili in maniera uniforme a contesti eterogenei. Princìpi di riferimento, attitudini e strategie mirate al raggiungimento di obiettivi personalistici si intrecciano così in forme molteplici e talvolta destinate a permanere in tensioni irrisolte. È per questo che il conservatorismo può essere concepito come mosaico di intuizioni piuttosto che come dottrina monolitica, e come fonte di orientamento valoriale che orienta lo sguardo verso ciò che muta.