A guardare i numeri tutto sembra andare per il verso storto sul clima. Dopo la pandemia le emissioni hanno ripreso a crescere e tutte le analisi delle temperature evidenziano un’accelerazione dei processi di riscaldamento globale, anticipando le stesse previsioni rispetto a quando si sarebbe toccato un aumento di 1,5 gradi. Non solo, il quadro internazionale degli impegni assunti con l’accordo di Parigi del 2015 è in frantumi con l’uscita degli Stati Uniti, mentre larga parte dei piani presentati dei paesi per dare seguito a quanto sottoscritto risulta inadeguato a garantire una inversione della curva delle emissioni e accompagnerebbe il mondo verso un aumento delle temperature dalle conseguenze economiche e sociali disastrose.
Per questo, oggi come non mai è importante capire le ragioni di questa situazione, cosa non sta funzionando dopo anni di confronti sul tema e negoziati internazionali, perché dobbiamo inevitabilmente rivedere le scelte e le priorità se vogliamo fermare un processo che sembra avviato in una direzione catastrofica. Il saggio di Corrado Clini coglie con efficacia la complessità della fase che stiamo attraversando e le sfide che ci pone di fronte, che impongono una lettura senza paraocchi e una revisione di alcune delle scelte prese, in particolare in Europa. E se può non convincere l’idea di invertire le priorità nel Green Deal, di sicuro le questioni poste sono il cuore della discussione di cui abbiamo urgente bisogno.
È vero, la prima urgente discontinuità riguarda l’adattamento climatico, che è rimasto ancora nel limbo delle politiche europee di ricerca e sperimentazione mentre, dall’alluvione di Valencia agli incendi della Grecia, passando per sempre più frequenti ondate di calore e periodi di siccità, i territori già vivono in una nuova normalità che crea paura e incertezza. I dati sono inequivocabili, il vecchio continente è l’area del mondo che più si sta surriscaldando, e la conta dei danni evidenzia l’impreparazione rispetto a un salto di scala di questa dimensione. È giusta la proposta di un fondo comune europeo per adattare i territori a questo nuovo scenario, ma per risultare efficace deve essere accompagnata da un forte supporto tecnico ai territori – e in particolare alle città - per affrontare sfide inedite per dimensione e caratteri. La buona notizia è che in questo campo, a differenza della mitigazione, non dipendiamo dall’estero per quanto riguarda tecnologie e soluzioni.
A partire dalla gestione dell’acqua, dove ci sono margini di intervento straordinari per ridurre le perdite, per spingere il riuso e il recupero in tutti i settori, e dunque riutilizzare le enormi quantità di acque di depurazione prodotte, mentre in parallelo con attenti interventi di laminazione delle acque si possono ridurre gli impatti delle alluvioni e mettere da parte l’acqua necessaria per i sempre più prolungati periodi di siccità. E queste soluzioni valgono da noi come in ogni parte del mondo e possono essere replicate in progetti di cooperazione internazionale nei Paesi oggi più a rischio e da cui milioni di persone sono costrette a emigrare proprio per le conseguenze dei cambiamenti climatici.
Come è stato possibile che l’Europa in pochi anni sia diventata la parte del mondo dove è più chiaro l’impegno verso la decarbonizzazione e con i risultati più avanzati ma al contempo quella meno competitiva nel mercato globale, tanto da essere arrivata a un punto di crisi, con un rigetto crescente dell’opinione pubblica nei confronti del Green Deal? E come si recupera il crescente gap tecnologico e di dipendenza dall’estero per quelli che sono i sistemi chiave della transizione energetica: impianti solari ed eolici, batterie, auto elettriche? La risposta non è semplice, soprattutto se si guardano i numeri a confronto per tutti i principali parametri di innovazione e sviluppo rispetto alla Cina.
Quello che di sicuro stiamo pagando è l’assenza di una visione europea della transizione energetica, capace di mettere in campo finanziamenti per progetti della scala e ambizione di cui ci sarebbe bisogno. Se Clini ha ragione sulla necessità di rilanciare la ricerca di base per la decarbonizzazione, poi la sfida va portata sino in fondo in termini di sviluppo industriale, con chiare scelte per ridurre in modo strutturale consumi e dipendenza dal gas che stiamo pagando a caro prezzo. Ma un racconto tutto a tinte fosche sul Vecchio continente è sbagliato. Ad esempio, la scelta di introdurre standard di prestazioni con target sempre più alti era giusta e ha funzionato sia per le imprese che per i consumatori, dando chiari riferimenti per accompagnare ricerca e sviluppo. Così come i meccanismi introdotti di tassazione delle emissioni di CO2 per premiare così comportamenti virtuosi e investimenti nella decarbonizzazione.
Certamente alcune cose potevano essere fatte meglio, le risorse generate andavano spese meglio, ma non sta qui l’errore nelle politiche energetiche di questi anni quanto semmai proprio nel fatto che ci si è fermati di fronte agli interessi dei singoli Stati, senza accompagnare il salto in avanti in termini di ricerca e sviluppo necessari per una sfida tecnologica di questa dimensione. Quanto alla neutralità tecnologica è un falso problema, perché in questa parte del mondo con una economia di mercato se venissero avanti soluzioni tecnologiche più efficaci rispetto a quelle fino ad oggi conosciute prenderebbero certamente piede. E non sono state certamente le regole europee ad aver impedito lo sviluppo di auto ad idrogeno o a biocombustibili, di centrali nucleari o altre tecnologie. È che fino ad oggi sono risultati meno competitivi e con minori margini di riduzione dei costi e di rapidità di diffusione sui mercati di tutto il mondo.
La riflessione più importante da aprire in questa fase storica riguarda il ruolo che potranno svolgere l’Europa – e aggiungo l’Italia – dentro questo processo di accelerazione nella direzione della decarbonizzazione e di trasformazione globale dei sistemi energetici e produttivi. Perché non solo si è spostato verso oriente il cuore pulsante della spinta industriale ma sono in atto processi di radicale ridisegno dei principali settori: dalla produzione energetica alla mobilità, dal riscaldamento e raffrescamento degli edifici fino alla gestione flessibile delle reti. E se sono le nuove tecnologie a rendere possibile questo processo sarà decisiva la capacità di integrare innovazione digitale e di gestione dei sistemi in ogni territorio, con intelligenza, nuove competenze e imprese, lavoro. Perché le potenzialità sono rilevanti in un processo di progressiva riduzione di consumi e importazioni di carbone, gas, benzina e gasolio, per non parlare dei benefici in termini di sicurezza.
Inoltre, non vanno sottovalutati due ambiti in cui l’Europa in questi anni è stata un campione di innovazione. Il primo è quello dell’economia circolare, che vede continui progressi di un sistema di raccolta differenziata sempre più articolato che ha già consentito di recuperare materia ed energia, ridurre le emissioni, creare nuove imprese. E la pagina più interessante di questa storia si apre ora, nella capacità di valorizzare un campo sempre più ampio di materie prime seconde al posto di materiali di importazione o da estrazione. E poi c’è la grande sfida che l’elettrificazione progressiva dei consumi civili, della mobilità e dell’industria pone alle reti. In questi anni il continente europeo ha realizzato innovazioni nella direzione dell’integrazione tra i sistemi di trasmissione nazionali senza paragoni nel mondo con risultati poco conosciuti ma rilevantissimi in termini di sicurezza e resilienza. Come giustamente sottolinea Clini, occorre ora realizzare nuovi grandi corridoi se si vuole garantire che il sistema valorizzi appieno l’articolata produzione da fonti rinnovabili e dia risposta alla domanda di elettricità nei diversi territori. Ma ancora più urgente è guardare alle possibilità che si stanno aprendo in una generazione sempre più distribuita da impianti diversi e integrati, sistemi di produzione e accumulo, gestione flessibile.
Perché una delle più grandi riforme approvate nella scorsa legislatura è quella che apre alla condivisione di energia da fonti rinnovabili, dove ci sono margini per far incontrare domanda e produzione locale, riducendo i costi, attraverso sistemi e modelli di funzionamento molto diversi da quelli che abbiamo fino ad oggi conosciuto. La questione è come costruire un modello europeo di transizione energetica dove si acceleri la riduzione delle emissioni creando opportunità per le persone e le imprese in questa parte del mondo. Una sfida che inevitabilmente passa per la collaborazione con gli altri grandi attori internazionali interessati, e quindi a partire dalla Cina, sulle ragioni e gli interessi reciproci a disegnare un nuovo modello di cooperazione indispensabile per provare ad affrontare assieme le grandi sfide che il mondo si trova di fronte.